lunedì 22 ottobre 2012

UNISABAZIA 2010/11 - Monaci e/o samurai?


Monaci e/o samurai? Lo Zen e il militarismo giapponese del XX secolo


Perché mai non ci è stata data la religione dei giapponesi
che considerano il sacrificio per la madrepatria il bene supremo


(Adolph Hitler)

Nel 1999 una praticante olandese inviò una lettera a diversi maestri Zen della sua e di altre scuole, in quanto era rimasta sconvolta dalla lettura di un libro, “Lo Zen alla guerra”, scritto nel 1997 da Brian Daizen Victoria, studioso e monaco Zen occidentale, che costituisce una documentata indagine sul ruolo svolto dal buddhismo giapponese, e dallo Zen in particolare, a tutti i livelli, in appoggio all’imperialismo nipponico nel XX secolo.
Racconta la praticante olandese: “Fino ad allora non mi ero mai resa conto che il buddhismo Zen era stato coinvolto nelle guerre atroci che il Giappone aveva scatenato in Asia nella prima metà del XX secolo. Ne rimasi profondamente colpita. Io sono non soltanto una persona che si dedica attivamente allo Zen, ma ho anche sposato un ex prigioniero della guerra del Pacifico. Dal 1942 mio marito, che allora aveva sei anni, e la sua famiglia furono internati (1) per tre anni dall’esercito giapponese nelle allora Indie olandesi orientali [..]. Leggendo “Lo Zen alla guerra” mi sono sentita tradita da ciò che molti stimatissimi preti buddhisti Zen hanno detto e fatto durante e dopo la guerra in Asia” (2).
Scrisse allora a molti responsabili delle scuole Zen di tutto il mondo per esprimere i sentimenti provati durante la lettura del libro e per proporre ai rappresentanti dello Zen di riconoscere i loro errori e fare ammenda: molti non risposero, ma alcuni lo fecero, con lettere o articoli di scuse che vennero pubblicate e suscitarono un ampio e acceso dibattito nell’ambito del buddhismo Zen, non solo in Giappone.
Conclude così la praticante olandese: “L’ammissione degli errori del passato e il riconoscimento della sofferenza che è stata inflitta possono essere un importante passo avanti verso la reciproca comprensione delle vittime e dei persecutori. La presa di coscienza degli errori che vennero compiuti in nome della religione ci fa tutti riflettere sull’universale inadeguatezza degli esseri umani ad agire correttamente. Possa tutto ciò creare una volontà più forte di perdonare e possa contribuire alla pace fra gli esseri di buona volontà” (3).

Monaci o soldati?
Come si è detto, il testo cui la studentessa Zen fa riferimento è “Lo Zen alla guerra” (“Zen at War”), scritto da Brian Victoria, monaco col nome di Daizen, e attivista nei movimenti antimilitaristi all’epoca del conflitto nel Vietnam (4).
Interrogandosi proprio sul possibile ruolo di un praticante Zen all’interno della società in rapporto con la politica e l’impegno sociale, l’Autore si era imbattuto negli scritti di un monaco Zen Rinzai, docente universitario in Giappone, Ichikawa Hakugen, il quale da attivo sostenitore del militarismo nipponico ne era divenuto, dopo la II Guerra Mondiale, un critico molto severo. A partire di lì, l’A. approfondì l’argomento dei rapporti intercorsi tra lo Zen e la guerra, nel Giappone del XIX-XX secolo. Il suo libro è il frutto di queste ricerche, da lui condotte con sincera sofferenza, come racconta: “In quanto prete buddhista della tradizione Soto Zen, non mi è stato facile scrivere questo libro perché sono stato costretto a rivelare un lato oscuro della storia moderna del buddhismo, pur rimanendo fedele alla religione da me adottata” (5). Si chiese anche se con il suo lavoro non stesse diffamando il Dharma del Buddha (6), ma la risposta, proprio dal punto di vista del buddhismo, non poté essere che una: “Io ho condotto la mia ricerca e ho scritto su questo argomento difficile e imbarazzante con in mente un solo pensiero: la verità non può mai essere diffamazione” (7). I buddhisti, come d’altra parte tutti coloro che aderiscono ad una tradizione religiosa, devono “accettare la responsabilità tanto degli esiti migliori quanto di quelli peggiori della loro fede” (8).
Il buddhismo (soprattutto di tradizione Mahayana) si è diffuso in Giappone a partire dal VI sec. E.V., giungendovi dalla Cina attraverso la Corea. All’inizio i clan nobiliari, shintoisti, cercarono di opporsi alla diffusione del Dharma, ma quest’ultimo, con l’appoggio dell’Imperatore Yomei, iniziò a radicarsi. “Da allora [587 E.V.] il buddhismo intratterrà costantemente strette relazioni con lo Stato giapponese, con il favore di personaggi eminenti che vedranno in esso un modo per proteggere il Giappone con riti propiziatori” (9).
Si formarono quindi le maggiori scuole (Shū) del buddhismo giapponese, quali il Tendai (VIII-IX sec.), lo Shingon (buddhismo tantrico, IX sec.), la scuola di Nichiren (XIII sec.), lo Zen (Rinzai e Soto, XII-XIII sec.).
Per quanto concerne lo Zen, che qui maggiormente interessa, è da notare che si sviluppò velocemente tra i nobili e i letterati, anche grazie all’appoggio ricevuto “dagli shogun [comandanti militari] e dai clan militari dei samurai, ai quali infonde una disciplina e un’etica rigorose” (10).
Tra il 1600 e il 1868 (Periodo Tokugawa) il buddhismo consolidò la propria posizione come religione di stato, ma a caro prezzo: ad ogni famiglia fu fatto obbligo di affiliarsi ad un tempio, e questo fece sì che i preti diventassero in pratica dei funzionari governativi. Iscriversi ad una scuola diventò più una scelta politica che religiosa. Il regime Tokugawa volle così essere certo di controllare anche le istituzioni religiose presenti sul territorio. Il risultato fu che il buddhismo giapponese perse energia e creatività, restando asservito al potere imperiale in cambio di vantaggi politici ed economici.
Amaterasu, kami del sole
Nel 1868, primo anno del Periodo Meiji (1868-1912), il vento cambiò anche per il buddhismo che, a causa delle riforme introdotte dal nuovo Imperatore, vide minacciato non solo il proprio ruolo istituzionale a favore dello shintoismo, ma addirittura la propria stessa sopravvivenza. Infatti venne rivalutata l’originaria fede shintoista nell’Imperatore quale manifestazione terrena di Amaterasu, kami del sole. Quarantamila templi buddhisti furono chiusi, e migliaia di monaci ridotti allo stato laicale. Tutto questo almeno fino al 1871, quando su pressione delle popolazioni contadine il governo fece qualche concessione alle comunità buddhiste. La conseguenza fu, ancora una volta, anche se per opposti motivi, un atteggiamento di totale acquiescenza da parte delle scuole buddhiste nei confronti del governo stesso. Alcune giunsero a prestare denaro alle (quasi vuote) casse del governo, e molti “leader buddhisti compresero ben presto che se c’era una speranza di riportare in vita la loro fede questa era nel senso di schierarsi con il crescente sentimento nazionalista dei tempi” (11), sostenendo ad esempio le campagna anti-cristiane che si stavano mettendo in atto.
Ormai le basi per la nascita di quello che verrà poi chiamato “Buddhismo della Via Imperiale” (Kōdō Bukkyō) erano state gettate, e l’appoggio del buddhismo giapponese alla politica imperiale non venne meno neppure quando questa manifestò appieno la propria natura militarista e aggressiva, a partire dalla guerra contro la Cina del 1894-95. Non solo i responsabili delle varie scuole non si schierarono a favore della pace, ma al contrario giustificarono la guerra teorizzando la superiorità del buddhismo nipponico nei confronti delle altre tradizioni buddhiste dell’Asia. Alcuni “maestri” operarono distinzioni tra “guerre illegittime”, da respingere, e “guerre giuste”, da sostenere: ovviamente la guerra condotta dal Giappone era tra queste ultime.
Uguali atteggiamenti vennero tenuti durante la guerra russo-giapponese del 1904-05, che sancì la costituzione da parte del Giappone di un vero e proprio impero, con l’annessione della Corea. Nel 1913, all’inizio del Periodo Taishō (1912-1926), Nukariya Kaiten, eminente personalità della scuola Soto Zen, scrisse: “dal tempo della guerra russo-giapponese [la popolarità dello Zen] ha conosciuto un risveglio. E ora [lo Zen] viene considerato la fede ideale, sia per una nazione piena di speranza e di energia, sia per il singolo che deve farsi largo nella lotta della vita” (12).
Il buddhismo era stato ormai completamente assorbito nella macchina da guerra giapponese. Il sostegno alla guerra si esprimeva nelle forme più diverse: dalle teorizzazioni ideologiche all’invio di cappellani militari tra le truppe, dalle cerimonie religiose a favore della vittoria, all’erogazione di denaro o di beni alle famiglie dei caduti. Alcuni templi erano stati addirittura utilizzati come centri di detenzione dei soldati russi catturati in battaglia.
Ciò che accadde in seguito fu solo la logica conseguenza delle decisioni assunte in quegli anni: “L’emergere del buddhismo secondo la via imperiale negli anni Trenta [Periodo Shōwa, 1926-1989] non fu tanto un fenomeno nuovo quanto la sistematizzazione o la codificazione di posizioni precedenti. [..] Il buddhismo secondo la via imperiale rappresentava la sottomissione totale e inconfutabile della Legge del Buddha [il Dharma] alla Legge del Sovrano. In termini politici, significava la sottomissione del buddhismo istituzionale allo Stato e alla sua politica” (13).
Di questo rapporto di sottomissione fece parte integrante il coinvolgimento delle maggiori scuole Zen, Soto e Rinzai, nelle scelte imperialiste del Mikado, sfociate nell’aggressione agli Stati Uniti del 7 dicembre 1941, a Pearl Harbor.
Bushido, la Via del guerriero
Si giunse a teorizzare che le vittorie ottenute dal Giappone nelle guerre sostenute in Asia negli anni precedenti fossero il risultato dell’applicazione delle regole del Bushido, la Via del Guerriero, il codice etico dei Samurai. I rappresentanti dello Zen arrivarono ad identificare il Bushido e lo Zen con l’essenza stessa della cultura del Giappone. L’etica dello Zen e l’etica del guerriero divenivano una cosa sola: è lo Zen imperial-statale, kokoku Zen.
Le modalità secondo le quali lo Zen espresse il proprio appoggio incondizionato alla guerra furono quelle già precedentemente individuate, analoghe quindi a quelle intraprese dalle altre tradizioni religiose del Giappone: raccolte di fondi, attività di sostegno alle famiglie dei soldati, opere missionarie tra le truppe e nei territori occupati, celebrazione di cerimonie speciali per assicurare la vittoria, con la recitazione di sutra, i testi canonici delle tradizioni buddhiste.
Una delle pratiche più diffuse del buddhismo Mahayana dalle sue stesse origini consiste oltre che nel recitare, anche nel ricopiare i sutra. Viene considerata una pratica speciale, legata all’idea che comporti per chi la compie l’acquisizione di “meriti”, trasferibili anche ad altre persone. Così, nel 1944, la scuola Soto Zen propose di fare 10 milioni di copie, a mano, del Sutra del Cuore della Perfetta Saggezza (Prajna Paramita Hridaya Sutra, giapp. Hannya Haramita Shingyo), uno dei testi fondamentali dello Zen e del buddhismo Mahayana in genere. Scrisse allora l’organo della scuola: “Bruciando di entusiasmo tutta la nostra scuola – preti, laici e semplici devoti – si sono applicati nell’esecuzione di questo progetto”, il cui scopo era “la nostra fervida preghiera per una vittoria certa [..]. Abbiamo pregato con reverenza per la salute di Sua Maestà, per la prosperità delle terre imperiali e per la resa dei paesi nemici” (14).

Kannon
Un altro significativo esempio: nel 1939 venne costruito nella città di Atami un tempio dedicato al bodhisattva Avalokiteshvara (giapp. Kannon o Kanzeon), personificazione del principio e della pratica della compassione. Ma la figura di Kannon venne “arruolata” e trasformata in una figura marziale, Kanzeon Shogun (= Generalissimo) Bodhisattva. All’ingresso del tempio, venne eretta una sua statua, fabbricata con la terra cinese intrisa del sangue dei soldati caduti nella guerra cino-giapponese.
Si potrebbe continuare con ulteriori esempi di come le tradizioni buddhiste siano state tradite e piegate agli interessi della politica imperiale da parte di un clero ridotto, nella sua maggioranza, a svolgere un ruolo da funzionari statali.
Ma è anche interessante riportare le parole di alcuni rappresentanti dello Zen, oggi noti anche in Occidente. Infatti esse sono altrettanto esemplificative in quanto non si tratta di semplici opinioni personali, bensì di contributi alla creazione del consenso intorno alla figura dell’Imperatore e alle scelte politiche e militari della classe dirigente nipponica, proprio a partire dagli insegnamenti dello Zen.
Daisetzu Teitaro Suzuki
A proposito del rapporto tra Zen e Bushido, scrisse nel 1937 Daisetzu Teitarō Suzuki (1870-1966), autore di molte opere sullo Zen tradotte e pubblicate anche in Italia: “La qualità del soldato, con il suo misticismo e la sua indifferenza alle questioni terrene, attiene alla forza della volontà. Sotto questo aspetto, lo Zen cammina di pari passo con lo spirito del Bushido”. E ancora: “Lo Zen è una religione della forza di volontà e la forza di volontà è ciò che serve urgentemente ai guerrieri”. Come già nel passato del Giappone, lo Zen poteva essere molto importante per il guerriero, al fine di dominare, di superare la paura della morte: “Il problema della morte è un grande problema per ciascuno di noi; ma è ancor più pressante per il samurai, per il soldato, la cui vita è dedicata esclusivamente a combattere, e combattere significa morte per entrambi i contendenti [..]. E’ quindi naturale che qualsiasi samurai saggio si accosti allo Zen con l’idea di dominare la morte”.
E la pratica della compassione, così centrale nel buddhismo di ogni tempo e di ogni scuola? Scrisse Suzuki, in un passo divenuto famoso:
“La spada viene in genere associata all’uccisione, e molti di noi si chiedono in che modo essa possa venire associata allo Zen, una scuola buddhista che insegna il messaggio dell’amore e della compassione. Il fatto è che l’arte della spada distingue fra la spada che uccide e la spada che dà la vita. Quella che viene usata da un tecnico non può fare molto più che uccidere [..]. La situazione è completamente diversa nel caso di chi la spada è costretto a sfoderarla. Infatti in realtà non è lui che uccide, è la spada a farlo. Lui non desidera fare del male a nessuno, ma il nemico appare e fa di se stesso una vittima. E’ come se la spada eseguisse automaticamente la propria funzione di giustizia, che è funzione di compassione”.
Viene portata a compimento l’identificazione finale, la più tragica, la più grottesca: la guerra come atto di compassione!
Negli ultimi anni di guerra, Seki Seisetsu, maestro Zen Rinzai, disse in suo discorso: “Dal punto di vista dello Zen, dove Manjushri [bodhisattva della saggezza, anch’esso arruolato nella guerra santa!] ha usato la sua spada affilata per eliminare ignoranza e desiderio, nel mondo non esiste alcun nemico [..]. Una volta raggiunto questo livello, lo Zen e la spada diventano una cosa sola, allo stesso modo della Via dello Zen e la Via del Guerriero. Uniti in questo modo, essi diventano il sublime spirito guida della società. In questo momento noi siamo nel sesto anno della guerra santa e siamo giunti a una situazione critica. Tutti voi dovete obbedire agli ordini imperiali [..]. Dovete acquisire uno spirito intrepido come i guerrieri dell’antichità, compiendo veramente il vostro dovere per lo sviluppo dell’Asia Orientale e per la pace nel mondo” (sic!).
Secondo Kurebayashi Kodo (Soto Zen), la ragione per cui le guerre combattute dal Giappone sono guerre giuste “sta nell’influenza esercitata dallo spirito buddhista”. “Ovunque avanzi l’esercito imperiale c’è solo carità e amore [..]. la brutalità non esiste più nell’animo degli ufficiali e degli uomini dell’esercito imperiale che sono stati formati allo spirito del buddhismo” (1937).
Ugualmente, per Hitane Jozan (Rinzai) la guerra del Giappone “è una guerra santa che esprime in sé la grande pratica del bodhisattva”, cioè, si badi, di un essere la cui natura profonda è bodhicitta (giapp. bodaishin), cioè la mente altruistica del Risveglio!

Monaci e/o soldati?

Anche Sawaki Kodo, uno dei più importanti maestri Soto Zen del XX secolo, non sfuggì allo spirito del tempo. Nel 1942 scrisse: “Il Sutra del Loto afferma che [..] tutti gli esseri senzienti sono miei figli. Da questo punto di vista tutto, anche l’amico e il nemico, sono miei figli. Gli ufficiali superiori sono la mia esistenza così come lo sono i miei subordinati. Lo stesso può dirsi del Giappone e del mondo intero. Che si uccida o no, il precetto che proibisce di uccidere (è rispettato). E’ il precetto che proibisce di uccidere che maneggia la spada e getta la bomba. Per questo dovete cercare di studiare e di praticare questo precetto”.
Molte altre citazioni (15) ed esempi si potrebbero portare – e Brian Victoria li porta – a dimostrazione del coinvolgimento quasi totale delle scuole buddhiste, e Zen in particolare, nella politica imperialista del Giappone, fino alla disfatta dell’agosto 1945.
Vi furono certo casi di personalità che si espressero, in quegli anni tragici, in maniera del tutto opposta, pagandone duramente le conseguenze. Così come alcuni esponenti buddhisti (ma solo dopo almeno 40 anni dalla fine della guerra) presentarono, obtorto collo, dichiarazioni di responsabilità e di pentimento.
Qui di seguito si trascrive, quale spunto di meditazione, un passo di un esponente dello Zen italiano di oggi, Giuseppe Jiso Forzani, il quale, proprio a partire dalla lettura del libro di Daizen Victoria, invita a “riflettere sulla religione come alibi, sul rischio intrinseco in ogni messaggio religioso, per raffinato e universale che sia, di venir utilizzato, senza alterarlo nella sua enunciazione ma operando sull’intenzione che lo orienta, per fini non solo del tutto impropri, ma addirittura opposti a quelli che ispirano il messaggio religioso stesso.
Si tratta quindi di guardare con l’occhio più limpido possibile “gli esiti peggiori della propria fede”, senza approfittare della scappatoia di imputare quegli esiti solo al carattere personale o culturale di chi quegli esiti ha prodotto, in questo caso non limitandosi a liquidare la questione come effetto dell’atmosfera giapponese dell’epoca (che certo ha svolto un ruolo tutt’altro che insignificante) ma scavando più a fondo, fino a vedere quegli aspetti del messaggio religioso che se per un verso ne costituiscono la forza, possono anche essere, per un altro verso, sintomo di una sua debolezza.
Come è stato possibile che, come l’autore dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, la quasi totalità della “classe dirigente” clericale del buddismo zen giapponese abbia utilizzato la visione, la pratica religiosa e la fede che il buddismo ispira a sostegno del militarismo, dell’imperialismo, del fanatismo e, molto concretamente, delle imprese efferate che il Giappone ha perpetrato in Asia (Cina, Corea, Manciuria…) dalla fine dell’Ottocento fino al 1945? Come è stato possibile che il sostegno incondizionato dato dal clero giapponese all’idea e alla prassi della Guerra Santa, della Grande Asia Orientale, della superiorità incondizionata del popolo giapponese fosse basato sui concetti buddisti di superamento dell’ego, di liberazione della vita e della morte, di trascendenza della dialettica di perdita e guadagno, persino sullo spirito della grande compassione universale?
L’autore analizza con cura il fenomeno, per quanto riguarda l’utilizzo dei “valori” tipici del buddismo zen al servizio di una causa specifica, in questo caso l’imperialismo del Mikado. Formalmente non c’è nulla da eccepire: il riferimento allo spirito di sacrificio che, nella visione dell’inconsistenza di ogni forma di guadagno, giunge alla prassi della rinuncia alla propria e all’altrui vita è presente, in varie forme, in tutte le tradizioni religiose, e nello zen in modo forse specifico. Ma sono l’orientamento e l’applicazione di questo piano formale che vanno messi in discussione: altrimenti la più sublime enunciazione può anche avere come esito la più infame delle prassi. La teorizzazione dell’atto puro, che è premio a se stesso senza ulteriori aspettative, frutto immediato della totale dedizione alla via, può avere come esito una vita santa, ma anche una condotta criminale, a seconda del modo con cui la via si incarna nel mondo. Sotto questo punto di vista il libro non riguarda solo una particolare epoca storica di un particolare paese, ma chiunque pratichi e ami il buddismo: deve indurre a riflettere sull’orientamento della propria prassi, visto che la forma della prassi non è in se stessa garanzia di equità
” (16).


Note:


1) La stessa sorte colpì nel 1943 lo scrittore, orientalista, antropologo Fosco Maraini e la sua famiglia, (tra cui la figlia Dacia, dell’età di circa 7 anni), residenti all’epoca in Giappone, in quanto avevano rifiutato di riconoscere la Repubblica Sociale di Salò. La vicenda è raccontata nella sua biografia “Case, amori, universi”, Ed. Mondadori.
2)
www.reteindra.org/BN0102/09.htm
3) Idem
4) Il volume è stato pubblicato in Italia nel 2001 da una piccola casa editrice, la Coop. Sensibili Alle Foglie di Dogliani (CN). In precedenza, nel 2000, era apparso tra i titoli di prossima pubblicazione delle Edizioni Ubaldini, ma era successivamente scomparso dall’elenco.
5) B. Victoria, Lo Zen alla guerra, Ed. Sensibili Alle Foglie, pag. 323
6) Si osservi che il decimo dei Grandi Precetti che costituiscono le regole di vita di chi ha ricevuto i voti nel buddhismo Zen recita: “Non essere blasfemi verso i Tre Tesori”, ovvero il Buddha, il Dharma (gli insegnamenti) e il Samgha (la comunità dei praticanti).
7) Lo Zen alla guerra, pag. 323
8) Idem, pag. 324
9) P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 277
10) Idem, pag. 229
11) Lo Zen alla guerra, pag. 35
12) Cit. in Lo Zen alla guerra, pag. 116
13) Idem, pag. 149
14) Idem, pagg. 236-237
15) Tutte le citazioni di D.T. Suzuki, Seki Seisetsu, Kurebayashi Kodo, Hitane Jozan e Sawaki Kodo sono tratte da Lo Zen alla guerra.
16)
http://web.tiscali.it/stellamattino/stella4.htm


m. mauro ton ko, 2010

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