martedì 9 ottobre 2012

UNISABAZIA 2006/07 - Il XIV Dalai Lama

“Sono solo un monaco”

Nel 1933, in Tibet moriva Thubten Gyatso, il Grande Tredicesimo Dalai Lama. L’anno prima aveva scritto: “Potrà accadere che qui, nel cuore del Tibet, religione e governo vengano attaccati dall’esterno e dall’interno…Monaci e monasteri saranno distrutti…Terre e proprietà di funzionari del governo verranno confiscate. Essi stessi saranno costretti a servire il nemico o a vagare per il paese come mendicanti…I giorni e le notti scorreranno lenti e dolorosi”.
Il XIII Dalai Lama
Subito dopo la morte si manifestarono i primi segni relativi al luogo ove cercare il corpo in cui sarebbe avvenuta la rinascita del Lama defunto. Per due volte, la testa del Dalai Lama, che era stato rivolto a sud (la direzione di lunga vita) fu trovata girata verso est. Nei giorni successivi, un fungo a forma di stella spuntò sul lato est di una colonna del santuario in costruzione per la salma del Grande XIII. Durante una cerimonia in suo onore, formazioni di arcobaleno apparvero verso nord-est.
Nel 1935, il Reggente, recatosi presso il lago sacro vicino a Lhasa, vide tra le onde tre lettere dell’alfabeto tibetano: Ah, Ka e Ma. Poi vide nell’acqua l’immagine di un grande monastero e accanto ad esso una casa contadina con tegole color turchese. La notte, sognò quella casa, e vide anche un bambino nel cortile. Nel 1937 uno dei gruppi inviati alla ricerca della reincarnazione del XIII Dalai Lama giunse al villaggio di Takster, nella regione dell’Amdo, a due giorni di cammino dal monastero Kumbum. Lì videro una casa con tegole turchesi, dove, con i genitori ed i fratelli e sorelle viveva un bambino di due anni e mezzo (era nato il 6 luglio 1935), il quale subito salì in braccio al capo del gruppo (che si era travestito da servitore) e si mise a giocare col rosario che questi teneva al collo, che era appartenuto al Tredicesimo, dicendo che era il suo. I ricercatori chiesero al piccolo se sapeva da dove venissero, ed egli correttamente rispose che venivano dal monastero di Sera. Nei giorni successivi, al bambino, il cui nome era Lhamo Dhondrub, fu chiesto di scegliere tra diversi oggetti simili o identici tra loro, e sempre egli scelse quelli appartenuti al defunto Dalai Lama: gli occhiali, il bastone, il rosario, la ciotola, il tamburello, la penna. Uno degli esaminatori raccontò poi: “Non c’erano dubbi. Davanti a noi, a metà del suo terzo anno di vita, c’era il XIV Dalai Lama del Tibet”. Anche le lettere viste nel lago dal Reggente indicavano che la ricerca era terminata: Ah stava per Amdo, Ka per Kumbum, Ka e Ma insieme stavano per Karma Shartsong, un monastero su un vicino monte, dove il Tredicesimo aveva soggiornato nel 1909.
Nel 1939 il futuro Dalai Lama e la sua famiglia partirono per Lhasa, un viaggio di più di tre mesi tra gli altopiani del Tibet.
Il XIV Dalai Lama
Il 22 febbraio 1940, infine, col nome di Tenzin Gyatso (Oceano di Saggezza), il XIV Dalai Lama si insediò, a 5 anni di età, sul Trono del Leone, come capo temporale e spirituale del Tibet, incarnazione riconosciuta, come tutti i suoi predecessori, di Avalokiteshvara (Cenresig), il Bodhisattva della Compassione.
Da quel giorno, iniziò il suo percorso educativo, che lo portò nel 1959, a 25 anni, al titolo di Ghesce Lharampa, uno dei più alti titoli nel campo degli studi filosofici buddisti, dopo aver superato gli esami nelle università monastiche di Drepung, Sera e Ganden, e poi a Lhasa.
Ma già nel 1950, dopo l’invasione del Tibet (un paese di circa 6 milioni di abitanti) da parte di 80mila soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese, il Dalai Lama assunse i pieni poteri, come capo di Stato e di Governo. Da allora, la sua vita si identificò totalmente con quella del suo popolo. Nel 1954, a 19 anni, si recò a Pechino, dove incontrò Mao Zedong e altri leader comunisti, per cercare di avviare un dialogo con la Cina.
 
Il Dalai Lama incontra Mao Zedong
Ma la politica cinese di occupazione e di repressione continuò, fino a provocare, il 10 marzo 1959, la ribellione del Tibet. Vi furono grandi manifestazioni a Lhasa, che vennero soffocate nel sangue dai militari cinesi, i quali uccisero 86mila persone (da fonte cinese). Nella notte, mentre il palazzo del Potala, sua residenza, veniva bombardato, il Dalai Lama fuggì in India, con circa 100mila tibetani. Lì, a Dharamsala, egli vive tuttora in esilio.
L’illegittima occupazione del Tibet ha provocato da allora più di 1 milione 200mila morti, un sesto di tutta la popolazione tibetana. Sono stati distrutti, specialmente nel periodo della “Rivoluzione Culturale”, 6500 templi e monasteri, e incarcerato o mandato nei campi di lavoro il 10% dei tibetani, monaci o laici. Aborti forzati e sterilizzazioni obbligate sono divenute pratiche comuni. Grazie ai trasferimenti forzati di grandi gruppi di coloni cinesi, oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso territorio. Il Tibet è stato militarizzato con circa 500mila soldati, decine di campi militari, basi missilistiche e stazioni radar. La metà del territorio originario del Tibet è stato incamerato nelle province cinesi, e solo una parte è divenuto, a parole, Regione Autonoma.
Secondo un parere del 1960 della Commissione Internazionale dei Giuristi, le truppe cinesi si sono rese colpevoli di genocidio, violando ben 16 articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. 

La Cina "libera" il Tibet
Gran parte delle foreste sono state tagliate, causando desertificazione del territorio e distruzione dei pascoli, per creare terreni agricoli per i coloni cinesi a danno dei pastori nomadi tibetani. Diverse aree sono state utilizzate come depositi di rifiuti inquinanti e per esperimenti atomici.
L’insegnamento del Buddhismo è scoraggiato in ogni modo e controllato, come pure le ammissioni ai monasteri, che sono gestiti da funzionari statali cinesi o ad essi fedeli.
In sintesi, dal 1949/50 in poi, e in particolare dal 1959, è in atto in Tibet, tra l’indifferenza e il silenzio di quasi tutte le forze politiche e i Governi del pianeta, una politica di genocidio e di annullamento culturale, con forme di violenza più o meno evidenti e/o sottili, a seconda del momento e delle necessità, da parte della Repubblica Popolare cinese.
Di fronte a ciò, l’azione del XIV Dalai Lama fu costantemente rivolta, e sempre con i metodi della non-violenza, alla preservazione della comunità tibetana, in esilio o in Tibet, e della sua cultura, chiedendo una soluzione pacifica del conflitto con la Cina ed una reale autonomia del Tibet, rinunciando progressivamente ad una ormai impossibile indipendenza. Ma scontrandosi sempre con il silenzio o il rifiuto di dialogo da parte del governo cinese, nella quasi totale indifferenza del mondo occidentale, solidale a parole ma in realtà solamente interessato all’immenso mercato costituito dalla Cina in piena espansione economica.
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama
Per la sua azione non-violenta, nel 1989 venne conferito al Dalai Lama il premio Nobel per la Pace. In quella occasione, egli disse: “Ritengo che la preferenza che mi è stata accordata riaffermi i valori universali della non-violenza, della pace e della comprensione tra tutti i membri della nostra grande famiglia umana. Tutti noi desideriamo un mondo più felice, più umano ed armonioso: personalmente sono sempre stato convinto che la pratica dell’amore e della compassione, della tolleranza e del rispetto per gli altri costituisca il modo più efficace per realizzarlo… Durante gli ultimi quarant’anni.. i tibetani hanno conosciuto l’epoca più dolorosa della loro lunga storia… Non c’è una sola famiglia, tanto in Tibet quanto tra i rifugiati all’estero, che sia stata risparmiata. Nonostante questo, la determinazione del nostro popolo e il suo impegno nei confronti dei valori spirituali e della pratica della non-violenza resta immutato. Questo premio è un profondo riconoscimento alla sua fede e alla sua perseveranza”.
La località dell’India del Nord in cui il Dalai Lama si rifugiò, Dharamsala, è anche la sede del Governo Tibetano in esilio. Da lì, iniziò l’opera di salvaguardia della comunità tibetana, attraverso la costituzione di insediamenti agricoli, l’organizzazione di un sistema scolastico, la fondazione di nuovi monasteri (oltre 200).
Nel 1963 fu promulgata una costituzione democratica, in sostituzione di un sistema politico ormai del tutto superato. I membri del parlamento sono eletti dal popolo, come pure il Primo Ministro, che sceglie i componenti del governo. Il Dalai Lama è infatti consapevole della necessità di democratizzare l’amministrazione, ed ha sempre sostenuto che quando il Tibet avrà riottenuto l’autonomia, egli non manterrà alcuna carica politica.
Infatti l’attuale Dalai Lama dice spesso di sé: “Sono un semplice monaco buddhista, niente di più e niente di meno”. Quando non è in viaggio per il mondo, nella piccola residenza di Dharamsala, si alza alle 4 del mattino per meditare e lavorare, e chiude la giornata con altre meditazioni e preghiere. E spesso cita, per spiegare la sua ispirazione, alcuni versi di Shantideva, un grande Maestro dell’VIII sec.:
“Finché esisterà lo spazio / e finché vi saranno esseri viventi,
fino ad allora possa io rimanere / per scacciare la sofferenza dal mondo”.
E’ il voto del bodhisattva, colui che rinuncia ad entrare nel Nirvana fino a quando tutti gli esseri non saranno liberati dalla sofferenza.
Per quanto concerne poi il futuro, ad una domanda inerente la possibilità di mutamenti nel metodo di scelta del Dalai Lama, Tenzin Gyatso ha detto: “Se il popolo tibetano sentirà la necessità di scegliere un altro Dalai Lama, benissimo: sceglieranno un altro Dalai Lama. Se il popolo sentirà che ciò non sarà necessario… non esisterà più un Dalai Lama. Non è responsabilità mia, questa”.

La bandiera del Tibet
Ma quale è l’origine storica della figura del Dalai Lama, e quale la “teoria” su cui si fonda la tradizione della ricerca delle “rinascite” dei Lama? Una sintesi efficace di questa vicenda si trova nelle ultime pagine del recentissimo libro “Il Buddhismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture” (Ed. Marietti), scritto da Mauricio Yushin Marassi, monaco Soto Zen e docente universitario ad Urbino.
La tradizione ebbe inizio nel XII sec., quando un Lama della scuola Kagyu prima di morire indicò ad un discepolo le circostanze in cui la sua volontà di proseguire sulla Via si sarebbe unita agli altri elementi che compongono una nuova vita. Venne quindi identificato in un bambino il primo di un lignaggio, quello dei Karmapa, tuttora esistente.
Nel XIV sec. questa forma di successione fu accettata e adottata da tutte le scuole del buddhismo tibetano, dando inizio alla figura dei lama per nascita, detti in tibetano tulku, traduzione del termine sanscrito nirmanakaya, cioè il “corpo di emanazione”, il corpo fisico con cui i Buddha compaiono nel mondo.
Secondo questa tradizione, le persone comuni, a causa delle passioni e delle tracce karmiche non dissolte, vengono alla luce senza poter modificare né tantomeno arrestare il processo delle “rinascite”, e, spinte dal desiderio, vagano nelle forme e nelle condizioni dettate dal karma. Invece, questi esseri santi scelgono volontariamente di tornare (e con quali modalità) nel samsara per aiutare coloro che si dibattono nella sofferenza. I tulku sono pertanto dei Buddha o dei bodhisattva “la cui determinazione nel mantenere il voto di non fondersi nel nirvana sino a che tutti gli esseri non abbiano raggiunto la salvezza permette loro di rigenerare questo voto in una nuova esistenza” (Marassi, pag. 273). Fermo restando l’assunto della non-affermazione, da parte di tutte le scuole buddiste, di un’anima o spirito immortale. Ed avendo ancor più presente il dato di partenza secondo cui tutte queste “teorie” non sono che provvisorie ipotesi, più o meno funzionali al desiderio umano di comprendere con il pensiero una realtà di cui il pensiero stesso fa parte. Una realtà priva di esistenza intrinseca, ed una mente che è essa stessa ugualmente vacuità.
Il fatto che il tulku non sia assimilabile alla reincarnazione di cui tanto si parla (e si straparla) è dimostrato dalla possibilità che un singolo maestro possa dopo la morte riconnettersi (“rinascere”) simultaneamente a più di un individuo, in corrispondenza ad ognuno dei vari aspetti della “personalità” del lama defunto.
La locandina del film
E’ il caso illustrato dal regista Bertolucci nel film "Il piccolo Buddha", in cui i tre bambini “prescelti” (un americano, un nepalese e una bambina indiana) rappresentano il ritorno nel samsara di tre aspetti del defunto Lama Dorje: corpo, parola e mente.
Il metodo dei tulku fu pertanto gradualmente adottato dalle sette del buddhismo tibetano. Si cominciò a cercare tra i bambini nati dopo la morte di un lama il suo successore, sulla base di indicazioni, segni, indizi, lasciati dal lama prima del decesso, o anche successivi (sogni, visioni, oracoli…), secondo una metodologia che risente quasi certamente degli influssi delle tradizioni religiose tibetane pre-buddhiste (sciamanesimo, Bon). Attualmente vi sono circa tremila linee di discendenza (lignaggi), anche femminili. Una volta identificato, il bambino viene assegnato ad un precettore, e istruito secondo gli insegnamenti del lama di cui è stato riconosciuto come successore, fino a prenderne il posto. Ma a questo proposito, lo stesso XIV Dalai Lama ha precisato che non necessariamente un lama, cioè un maestro, deve essere un tulku, un incarnato. E non è detto che un tulku sia per ciò stesso automaticamente un vero maestro.
Su questa tradizione si innesta la figura dei Dalai Lama.
Nel XV sec., alla morte di Gedun Drup, anche la scuola Gelug introdusse il metodo di successione secondo i tulku. Lo stesso Gedun Drup (nipote di Lama Tzong Khapa, fondatore della scuola) fu riconosciuto come prima manifestazione di Avalokiteshvara, Bodhisattva della Compassione. Nel 1578 il terzo tulku, Sonam Gyatso, divenne il maestro spirituale di Altan Khan, re dei Mongoli, discendente di Gengis Khan. In segno di devozione, tradusse in mongolo il suo nome “Gyatso” (che significa “oceano”), che divenne “Dale”, e poi “Dalai”. Quindi Dalai (mongolo) = Gyatso (tibetano) = Oceano. Dalai Lama equivale quindi a “Oceano Maestro” (ad es. l’attuale XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso è “Oceano di Saggezza”). Tale titolo fu esteso retroattivamente ai due predecessori di Sonam Gyatso: il Primo Dalai Lama divenne pertanto il Terzo. Il Quarto Dalai Lama (un nipote di Altan Khan!) assunse anche il ruolo politico di governatore del Tibet, dando vita ad un legame tra mongoli e tibetani che irritò non poco i cinesi, e originando altresì una sovrapposizione tra potere politico e potere religioso in Tibet che si accentuò con il Quinto Dalai Lama (Ngawang Lobsang Gyatso, il “Grande Quinto” – 1617/1682) e proseguì fino ad oggi. Di per sé, quindi il Dalai Lama non ha alcun ruolo religioso non solo al di fuori del buddhismo tibetano, ma anche al di fuori della scuola Gelug, anche se è stato ed è riconosciuto da tutti i tibetani come punto di riferimento religioso, nazionale, simbolo della cultura del Tibet e della sua perduta indipendenza.
Pertanto, il termine, spesso utilizzato in Occidente riguardo al XIV Dalai Lama, di “Papa buddhista” non ha alcun valore sia dal punto di vista storico, come si è visto, sia dal punto di vista religioso, in quanto “il buddhismo non ha mai avuto autorità centrali, gerarchie curiali o strutture rigide e dove queste sono comparse, nelle varie scuole nazionali, il loro ruolo è del tutto marginale se non esterno alla tradizione buddhista intesa come religione, ovvero come via di salvezza” (Marassi, pag. 279).
Il VI Dalai Lama
Un’ultima notazione è senza dubbio dovuta alla figura del VI Dalai Lama, Tsang Yang Gyatso (1683/1706, Oceano della Melodiosa Voce di Brahma), il quale nel 1702 rinunciò ai voti monastici diventando il primo ed unico Dalai Lama laico nella storia del Tibet. Dopo di allora trascorse il suo tempo tra il tiro con l’arco, la compagnia delle dame di corte, le bevute con gli amici e la poesia. Non per questo fu meno amato dal suo popolo, che lo protesse in occasione della guerra contro i Mongoli, cui però egli stesso si consegnò per evitare la distruzione del monastero di Drepung. Morì poi durante il viaggio verso l’esilio. Alcuni dei canti d’amore da lui scritti sono stati utilizzati quale “colonna sonora” del film “Samsara” di Pan Nalin:

Dell’ape la nascita presto è avvenuta;
del fiore lo spuntar tardi è avvenuto.
Con la beneamata non predestinata
L’incontro è stato rinviato.
Dei fiori la stagione è svanita:
dell’ape turchese l’animo non s’attrista.
Dell’amore il destino s’è compiuto:
per questo io non m’attristerò.
Del virtuoso maestro ai piedi
per chieder guida al cuore andai; ma
il cuor mio fermarsi pur non potea:
verso l’amore mio fuggì.
Richiamato, del mio maestro il volto
nella mia mente non affiorerà.
Non richiamato, dell’amor mio il volto
nella mia mente distintamente affiora.


(da: Tsang Yang Gyatso, Canti d’amore, Ed. Sellerio)
m. mauro tonko, febbraio 2007

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