venerdì 19 ottobre 2012

UNISABAZIA 2009/10 - Le parabole del Buddha

Le parabole del “Sutra del Loto”

Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero:
‘Perché parli loro in parabole?’(1).
Egli rispose: ‘Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli
ma a loro non è dato.
Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza,
e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.
Per questo parlo loro in parabole
perché pur vedendo non vedono
pur udendo non odono e non comprendono’
Matteo 13, 10-13

Nel II capitolo del Sutra del Loto il Buddha si rivolge al discepolo Shariputra con queste parole: “Profonda, difficile da percepire, difficile da capire è la conoscenza buddhica penetrata dai Tathagata (..). Difficile da capire è il linguaggio intenzionale del Tathagata” (2).

Shariputra
E per tre volte Shariputra chiede al Buddha la ragione delle sue parole. Alla prima , il Buddha risponde che “il mondo con i suoi dei si spaventerebbe se parlassi di un tale argomento” (3). Alla seconda, che “il mondo con i suoi dei si spaventerebbe (..e) qualche monaco orgoglioso cadrebbe in grande disgrazia” (4). Alla terza, il Buddha accetta di rispondere ma, prima ancora che inizi a parlare, 5000 monaci, monache, laici e laiche si alzano e abbandonano l’assemblea, poiché “a causa delle loro radici di arroganza, si immaginavano di aver ottenuto ciò che non avevano ottenuto, di aver realizzato ciò che non avevano realizzato” (5). E il Buddha, rimanendo in silenzio, approva: “la partenza degli orgogliosi è un bene” (6). Questo fatto e le conseguenti parole del Buddha, apparentemente contrarie allo spirito di compassione che anima gli insegnamenti Mahayana, sono così commentate dal M° Thich Nhat Hanh: “Coloro che abbandonano l’assemblea non sentono di poter imparare ancora qualcosa di nuovo; con un simile atteggiamento non sarebbero in grado di ricevere il vero significato” (7) degli insegnamenti. Se una persona non è pronta, matura, per ricevere il vero senso di un insegnamento, ascoltarlo potrebbe essere per lei ancor più dannoso che non udirlo.
Inoltre, i 5000 dimostrarono l’arroganza di credere di “sapere non solo che cosa si possa dire e che cosa non, ma, addirittura, di sapere di che cosa [il Buddha] avrebbe parlato” (8).

Ma che cosa è il linguaggio intenzionale di cui ha parlato il Buddha, definendolo “così difficile da capire”? E’ un linguaggio (in sanscrito chiamato samdhabhasya) utilizzato proprio dai Buddha, dai Risvegliati, per spiegare ciò che non può essere verbalizzato, ciò che, come l’autentico insegnamento del Dharma, trascende la sfera della ragione e che pertanto non può essere ridotto a concetti (9). E’ “un modo di parlare che ci consente di dire anche ciò che non è possibile dire. Dove le parole alludono, rimandano a qualche cosa che non è l’oggetto letterale del discorso, oppure lo è, ma non va inteso come detto. Nella cultura buddhista l’obiettivo di quel modo di esprimersi è non nascondere, non coprire, non distorcere, non rivelare” (10). Il linguaggio intenzionale, di cui le parabole sono un elemento essenziale, è quindi uno tra gli innumerevoli abili mezzi (in sanscrito: upaya) di cui i Risvegliati si servono per insegnare il Dharma. La upayakaushalya, l’abilità nella scelta e nell’uso dei mezzi salvifici, è una indispensabile qualità di una maestro spirituale, che deve “saper scegliere l’insegnamento più adatto a ciascuno e l’azione che è opportuno suggerire o compiere nelle diverse circostanze” (11), insistendo più sull’aspetto della saggezza che sulla devozione, o sull’energia piuttosto che sulla contemplazione, o su altri aspetti della pratica. Dando insegnamenti tra loro diversi, talora apparentemente contraddittori. Andando, se necessario, anche contro i comportamenti dettati dalle regole monastiche e dalle norme etiche. Sempre in perfetta armonia con le circostanze e le infinite inclinazioni degli esseri, al cui beneficio gli insegnamenti sono rivolti. La pluralità, talvolta la contraddittorietà, delle azioni salvifiche non comporta relativismo morale, poiché alla loro radice vi è l’elemento unificante della motivazione volta al bene, alla liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri senzienti. E’ quindi evidente l’aspetto funzionale degli insegnamenti (guardare la luna e non il dito; abbandonare la zattera dopo aver traversato il fiume, ecc.), che devono essere adattati alle differenti individualità umane nel loro mutevole contesto culturale.
Questi concetti, presenti già nel buddhismo delle origini, vengono nel Mahayana ampiamente sviluppati. E di questo sviluppo il già citato Sutra del Loto è un perfetto esempio.
Il Sutra del Loto è uno dei testi più antichi del buddhismo Mahayana, ed è altrettanto importante quanto il Sutra del Cuore della Saggezza, il Sutra del Diamante, il Sutra di Vimalakirti o altri ancora (12).
Il nome completo del sutra è Saddharmapundarikasutra, ovvero Sutra del Loto della Buona Legge (o della Vera Dottrina: Dharma = legge, dottrina, insegnamento, ma anche fenomeni). L’esposizione orale del sutra è attribuita al Buddha stesso, mentre nella sua forma scritta (in sanscrito) pare essere stato composto in un periodo che va dai primi anni dell’era volgare al 150.
Nel 286 e.c. fu tradotto dal sanscrito in cinese dal monaco indiano Dharmaraksa, e nel 406 il famoso traduttore Kumarajiva (13) ne diede una versione, in lingua cinese, tuttora considerata definitiva, con il titolo di Sutra del Loto del Dharma meraviglioso (Miaofalianhuajing, in giapponese Miohorengekyo) (14). Il sutra divenne popolarissimo in tutti i territori in cui si era irradiato l’insegnamento Mahayana: in Kashmir, in Nepal, in Tibet, e soprattutto in Cina e in Giappone, dove ha svolto un ruolo paragonabile quello della Bibbia in Occidente. E infatti il Sutra del Loto “segna una fase importante per lo sviluppo di un atteggiamento devozionale in seno al buddhismo” (15).
Nichiren Daishonin
In particolare, nel Giappone del XIII sec., il monaco Nichiren (1222-1282) fece “del Sutra del Loto l’unica pratica in grado di salvare gli esseri senzienti in quest’epoca degenerata, detta mappo” [= era della fine del Dharma] e introdusse l’uso dell’invocazione di omaggio al sutra, “Namu Myohorengekyo destinata a superare, quanto a efficacia, il nembutsu (16) e le pratiche delle altre scuole buddhiste (..). La scuola Nichiren si svilupperà nei secoli a venire. Nel XX secolo si suddividerà in varie sette, tra cui la Nichiren-shoshu, il ramo ortodosso, e la Soka-gakkai, emanazione laica oggi diffusa in tutto il mondo” (17).
Il sutra divenne la più importante scrittura anche nella scuola cinese T’ien-t’ai (in Giappone Tendai), e altre scuole, come il Ch’an in Cina e lo Zen e lo Shingon in Giappone, lo tengono in altissima considerazione.
Come spiega Thich Nhat Hanh, il Sutra del Loto deve essere osservato in profondità, per evitare di farsi intrappolare dal suo linguaggio mistico e dallo stile teatrale, quasi barocco, in cui è redatto, vedendo in esso “solo descrizioni di eventi miracolosi e di poteri soprannaturali” (18). In particolare, è necessario, per un praticante, studiare il messaggio essenziale del sutra, ovvero che tutti gli esseri hanno in sé la qualità del Risveglio, la capacità di divenire dei Buddha, di entrare in contatto con la dimensione assoluta proprio qui, nella dimensione storica, nella vita di tutti i giorni, nelle azioni quotidiane (19).
Di qui l’importanza del sutra, non a caso chiamato “il Re dei sutra”, anche perché “riesce a combinare insieme e accogliere tutte le scuole del buddhismo” (20).
Questi insegnamenti sono ciò che si ritrova nei 27 capitoli di cui è composto il sutra (28 in altre traduzioni), sia nelle parti in prosa sia in quelle in versi. E, in particolare per ciò che qui maggiormente ci interessa, nelle parabole, che si possono leggere nei capitoli dal III all’VIII, e che costituiscono come si è detto uno degli abili mezzi di cui i maestri (non solo buddhisti) si servono per dare i loro insegnamenti agli esseri, quale che sia il loro grado di evoluzione spirituale.

Si riportano qui di seguito due parabole del sutra, insieme ad altrettante parabole evangeliche, alle quali, durante la lettura, il pensiero viene quasi inevitabilmente rinviato. Senza con questo voler fare alcun tipo di confronto tra due tradizioni spirituali che hanno sì molti punti di contatto, ma che sono radicalmente distinte, e di per se stesse “perfette”.
La prima, che si trova nel cap. IV del sutra, è esposta da quattro discepoli del Buddha, e viene qui riassunta a causa della sua lunghezza.
Un uomo si allontana dalla casa del padre, e vive lontano per molti anni. Anche il padre cambia città, e diventa ricco e potente, mentre il figlio rimane invece povero. Un giorno il giovane, dopo aver vagato per molti paesi alla ricerca di cibo e vestiti, giunge nella città dove vive il padre, il quale continua a pensare al figlio perduto. Quando il giovane giunge proprio davanti alla casa del padre, questi è sulla soglia, seduto su un trono, circondato da ornamenti, gioielli, fiori. Il figlio non lo riconosce, anzi fugge impaurito da tanto sfarzo, ma il padre lo riconosce invece subito, chiama dei servitori e li manda a cercare il pover’uomo. Questi è terrorizzato, in preda al panico e sviene dalla paura. A quel punto il padre non gli rivela la propria identità e lo lascia andare via. Lo fa seguire, però, e lo fa assumere per pulire un mucchio di rifiuti nella sua casa. Gli fa poi affidare altri umili lavori al suo servizio, alloggiandolo in una capanna. Da lontano lo osserva mentre è all’opera. Per molto tempo lo tiene al proprio servizio come uomo di fatica, finchè trascorsi vent’anni il pover’uomo si sente a suo agio nell’andare e venire dall’abitazione del padrone, pur considerando come sua dimora la capanna di paglia. In seguito, avvicinandosi la vecchiaia, il padre lo chiama e gli affida la gestione dei suoi beni, oro, monete, granai, tutta la sua ricchezza. E il figlio non chiede nulla per sé, continua a credersi povero e a vivere nella capanna. Infine, dopo qualche tempo, il padrone riconosce la sopraggiunta maturità del figlio, vede la vergogna che egli ormai prova per la sua precedente vita da mendicante e, chiamati tutti i parenti e i governanti, gli si rivela nella sua vera identità e gli lascia tutti i suoi averi, mentre l’uomo è colto da stupore e meraviglia.
Così il maestro Zen Thich Nhat Hanh commenta la parabola: “Una verità deve essere rivelata al momento giusto, specie se è una verità profonda sulla nostra natura personale che non avevamo mai ritenuto possibile. Rivelare una verità al momento inappropriato, quando chi l’ascolta non è ancora preparato mentalmente o spiritualmente, può fare molto danno. Ecco perché il Buddha ha impartito prima gli insegnamenti del Piccolo Veicolo [lo Hinayana] e solo in seguito, dopo che i discepoli erano riusciti a padroneggiare quegli insegnamenti e avevano maturato la pratica a un livello sufficiente, ha rivelato loro gli insegnamenti della Via del bodhisattva: se l’avesse fatto prima, i discepoli avrebbero rifiutato gli insegnamenti. Il Buddha ha usato mezzi abili per dare l’insegnamento giusto al momento giusto” (21).
Il Figliol prodigo del Guercino

Non è possibile non andare col pensiero, a questo punto, alla parabola evangelica del figlio perso e ritrovato (o del figlio prodigo): “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (22).
La seconda parabola è esposta dal Buddha stesso nel V capitolo del sutra. Egli dice: “Supponiamo che vi sia una nuvola carica di acque che si gonfia sopra prati, cespugli, piante, alberi di tipo, specie e famiglie diverse e dai nomi svariati, che crescono in pianura, in collina, in montagna o nelle caverne, ovunque in queste tremila grandi migliaia di mondi, e che, gonfiandosi, copra tutte le tremila grandi migliaia di mondi.
Una volta coperti, fa cadere le sue acque su tutte le tremila grandi migliaia di mondi contemporaneamente. Quindi i prati, i cespugli, le piante, gli alberi delle tremila grandi migliaia di mondi, i prati, i cespugli, le erbe, gli alberi con steli, foglie e rami giovani e teneri, gli alberi medi e gli alberi imponenti, assorbono tutti l’acqua fatta cadere dalla nuvola a seconda delle loro forze e capacità. Poi, per via di quest’acqua di un solo sapore caduta in abbondanza dalla nuvola sviluppano, a seconda del seme, la loro natura, dimensione, capacità di germinazione e grandezza. Quindi producono fiori e frutti e ognuno di loro prende il suo nome specifico. E tutte queste famiglie di piante e di semi, radicate in un unico tipo di terreno, sono bagnate e vivificate da questa acqua di un solo sapore…
Come la nuvola gigantesca che dopo essersi stesa su tutte le tremila grandi migliaia di mondi fa cadere una stessa acqua […anche il Buddha] insegna una Dottrina di un unico sapore, e cioè del sapore della liberazione, del sapore della mancanza di passioni, del sapore della cessazione che conduce alla conoscenza... Ma gli esseri che ascoltano la Dottrina … non si conoscono, non si percepiscono, né sono consapevoli di loro stessi… E dato che io sono l’osservatore degli esseri che si trovano nelle rispettive terre…sapendo che la Dottrina è di un unico sapore… in considerazione delle predisposizioni degli esseri non rivelo immediatamente la conoscenza del [Buddha]” (23).
Scrive a questo proposito Thich Nhat Hanh: osservando a fondo i diversi esseri, la loro forma, la loro essenza e le loro predisposizioni, il Buddha, i Buddha, sono in grado “di offrire il Dharma nelle modalità che porta loro il maggior beneficio. Vedendo che un dato genere di discepolo riuscirà meglio a seguire un determinato sentiero di pratica, il Buddha gli apre quella specifica porta del Dharma. I sutra Mahayana citano spesso le ottantaquattromila porte del Dharma: è un’espressione che simboleggia il numero infinito di insegnamenti e di metodi con i quali gli esseri viventi possono raggiungere la liberazione” (24).
Ed ecco la parabola del seminatore: “Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un'altra cadde fra i sassi, dove non c'era molta terra, e subito spuntò perché non c'era un terreno profondo;
ma quando si levò il sole, restò bruciata e, non avendo radice, si seccò. Un'altra cadde tra le spine; le spine crebbero, la soffocarono e non diede frutto. E un'altra cadde sulla terra buona, diede frutto che venne su e crebbe, e rese ora il trenta, ora il sessanta e ora il cento per uno".
E diceva: "Chi ha orecchi per intendere intenda!” (25).

Note
1. “Il termine [parabola] significa propriamente una similitudine”, anche “tanto sviluppata da costituire un racconto parabolico, imperniato su un’azione drammatica”. In: G. Miegge (a cura di), Dizionario biblico, Ed. Claudiana, pag. 436. Parabola: dal greco para-ballo = metto insieme, a confronto. E’ degno di nota il fatto che il termine parola ha la stessa etimologia di parabola. E infatti in lingua spagnola parola è tradotto con palabra.
2. Sutra del Loto, Ed. Rizzoli BUR, pag. 71. Tutte le citazioni del Sutra del Loto sono tratte dalla suddetta edizione, tradotta dal sanscrito e annotata da L. Meazza.
3. idem, pag. 79.
4. idem.
5. idem, pagg. 80-81.
6. idem, pag. 81.
7. Thich Nhat Hanh, Il cuore del cosmo, Ed. Mondadori Oscar, pag. 40. Thich Nhat Hanh è un monaco Zen Rinzai vietnamita (nt. 1926), più volte candidato al Nobel per la Pace per il suo impegno durante e dopo la guerra del Vietnam.
8. M. Yushin Marassi, Il linguaggio intenzionale, in
www.lastelladelmattino.org/buddista/index.php/23
9. cfr. F. Sferra, Introduzione al Sutra del Loto, pagg. 30-31.
10. M. Yushin Marassi, cit.
11. F. Sferra, cit., pag. 31.
12. Nella tradizione buddhista ogni scuola, ogni maestro, sceglieva i sutra che riteneva più importanti, più significativi, relativamente alla propria didattica, allo stile di pratica di quella scuola.
13. Si dice che dopo la sua morte e la sua cremazione si trovò tra i resti la lingua di Kumarajiva ancora intatta, segno certo della sua assoluta affidabilità quale traduttore dei sutra.
14. cfr. la voce “Sutra del Loto” in: P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 614.
15. F. Sferra, cit., pag.27.
16. Namu Amida Butsu = omaggio al Buddha Amithaba.
17. P. Cornu, cit., pag. 614. Si calcola che circa il 50% dei buddhisti italiani sia composto da appartenenti alla Soka-gakkai (ad es. personaggi noti come Roberto Baggio, Sabina Guzzanti). Il nome Soka-gakkai significa “società per la creazione di valori”.
18. Thich Nhat Hanh, cit., pag. 13.
19. cfr. idem, pagg. 11-12.
20. idem, pag. 15.
21. idem, pag. 57.
22. Luca 15, 11-32. In:
http://www.vatican.va/archive/ITA0001/_PVB.HTM
23. Sutra del Loto, pagg. 143 segg.
24. Thich Nhat Hanh, cit., pag. 63.
25. Marco 4, 3-9. In:
http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PUK.HTM


m. mauro tonko, febbraio 2010

Nessun commento:

Posta un commento