martedì 2 ottobre 2012

UNISABAZIA 2005/06 - 8 - Zen

Dall’India al Giappone all’Occidente: La Via dello Zen

“Un uomo che camminava per un campo si imbattè in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. La tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardo giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo. Due topi (..) cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!”
(da: “101 Storie zen”).
"Zen" in caratteri kanji
Che cosa è la trasmissione ?

Come già detto altrove, il Buddha Shakyamuni non nominò alcun successore, e dopo la morte il suo insegnamento venne affidato alla Comunità, perché continuasse ad essere praticato e fosse trasmesso puramente. E’ ciò che è avvenuto fino ad oggi, nelle forme adatte alle concrete esigenze umane, mutevoli quindi nel tempo e nello spazio. E questo grazie alla trasmissione degli insegnamenti lungo lignaggi di Maestri (kalyanamitra = amico spirituale), dal Buddha ai suoi discepoli e da questi ad altri discepoli…
Cosa importante, e nello Zen viene spesso sottolineata, è che parlare di trasmissione o di successione non significa che vi sia “qualcosa” da trasmettere, una formula, una dottrina, una suggestione. Spesso, anzi, rivelare di aver ricevuto la successione era solo una dichiarazione di deferenza per il proprio Maestro, e non la rivendicazione di un attestato.
Storicamente non è possibile verificare l’assoluta autenticità dei vari lignaggi, “nel senso di confermare o smentire la realizzazione e l’insegnamento di ogni anello della catena” (T. Cleary). E’ invece necessario, in conformità all’insegnamento del Buddha, verificare personalmente l’autenticità di ciò che è trasmesso, nella propria pratica, nell’esperienza diretta. Al di là, dunque, di ciò che può spingere ad aderire ad una particolare autorità.
Ne “La Trasmissione della Lampada” (“Denkoroku”) del M° Keizan (Giappone XIV sec.) è detto: “Buddha Shakyamuni ottenne l’illuminazione vedendo la stella del mattino. Disse: Io e tutti gli esseri della Terra otteniamo insieme l’illuminazione nello stesso momento”. Dopo d’allora, fino alla morte insegnò per aiutare gli altri, quindi “consegnò il tesoro dell’occhio del vero Dharma a Kasyapa e questa trasmissione continua tutt’oggi. Questa è la radice della trasmissione e della pratica del vero insegnamento in India, Cina e Giappone” e, possiamo dire quasi 700 anni dopo Keizan, in Occidente.
Kasyapa era figlio di brahmani. Il suo nome significa “Colui che beve la luce”. Si rasò il capo, vestì l’abito di pezze e incontrò il Buddha, che lo accolse nel Samgha dicendo: “Benvenuto, mendicante”. Un giorno, davanti a 80mila monaci e laici, “il Buddha sollevò un fiore e battè le palpebre. Nessuno ne intese il significato, tutti rimasero muti. Solo Kasyapa sorrise. Il Buddha disse: Io posseggo il tesoro dell’occhio del vero Dharma, la mente ineffabile del Nirvana e l’insegnamento senza forma della perfetta illuminazione. Li consegno tutti a Kasyapa” (dal “Denkoroku”). E’ l’atto di nascita del Ch’an/Zen, la trasmissione al di là delle Scritture (i shin den shin, da cuore a cuore, da intuizione a intuizione).

...solo Mahakasyapa sorrise
Dall’India alla Cina: Perché Bodhidharma è partito per l’Oriente?

In un testo cinese del XII sec., la “Raccolta della Roccia Blu”, è narrata la storia di Bodhidharma, ultimo Patriarca indiano e primo Patriarca del Ch’an in Cina. Figlio di un re dell’India del Sud, si fece monaco, studiò il Mahayana e quindi decise di partire per la Cina per insegnare il Dharma. Vi giunse via mare nel 527 (o 520) d.C.; lì ebbe con l’imperatore Wu-ti un famoso dialogo, ricco di insegnamenti. “L’imperatore chiese: Ho costruito templi e ordinato monaci. Che merito c’è in questo? Bodhidharma disse: Nessun merito”. Poi chiese ancora: “Qual è il significato supremo delle sante verità? Bodhidharma rispose: Vuote, senza santità. (..) L’imperatore non si risvegliò; invece, a causa dei suoi concetti del sé e dell’altro, fece un’altra domanda: Chi mi sta di fronte?(..) Bodhidharma gli si rivolse un’altra volta dicendo: Non lo so (= Non lo conosco). L’imperatore fu preso alla sprovvista da queste parole; non seppe cosa Bodhidharma intendesse dire. Quando arrivate a questo punto, come quando c’è qualcosa e non c’è niente, se scegliete fallite” (da: “La Raccolta della Roccia Blu”).
Bodhidharma
Quindi, Bodhidharma risalì verso il Nord e si ritirò nel monastero di Shao-lin, dove rimase per 9 anni in meditazione di fronte ad un muro. Un giorno, il monaco Seng-k’o si recò da lui per chiedergli gli insegnamenti, ma Bodhidharma non lo guardò nemmeno. Seng-k’o rimase in piedi nella neve per tutta la notte, e all’alba il Maestro lo respinse ancora, dicendogli che non si può conoscere il Dharma “con scarsa virtù, scarsa saggezza, cuore frivolo e mente arrogante. Sarebbe solo uno spreco di forze. Detto ciò (..) non gli prestò più attenzione. Seng-k’o (..) afferrò una spada e si tagliò il braccio sinistro. Allora il grande Maestro seppe che era adatto all’insegnamento e gli
disse: Quando i Buddha cercavano la Via dimenticavano il corpo per il bene della verità. Ti sei tagliato un braccio in mia presenza: sei capace di cercare” (dal “Denkoroku”). Col nome di Huike (= Saggezza e capacità) egli divenne il II° Patriarca dello Zen cinese.



Dalla Cina al Giappone: Dogen Zenji

Dogen nacque nell’anno 1200 nei pressi di Kyoto, in una famiglia dell’alta aristocrazia giapponese. A due anni perse il padre, a otto la madre. Si dice che al funerale di lei il piccolo, guardando il fumo degli incensi salire oltre il tetto del tempio, prese coscienza dell’impermanenza della vita.

A 13 anni si fece monaco nella scuola Tendai, e ben presto si pose la domanda centrale della sua vita: Se il Risveglio è inerente a tutti gli esseri, perché i Buddha di tutti i tempi hanno dovuto ricercarlo e impegnarsi nella pratica? Cosa si raggiunge con la pratica che non sia già la nostra natura autentica? Per trovare una risposta, dopo aver visitato i Maestri di varie scuole del buddhismo giapponese, si recò in Cina, nel 1223. Dopo due anni di studi e ricerche, ancora insoddisfatto, incontrò colui che divenne il suo Maestro, Nyojo, che faceva praticare il tso-ch’an (= zazen) con grande rigore e determinazione. Con il M° Nyojo, Dogen sciolse i suoi dubbi e comprese la natura del rapporto tra necessità della pratica e realizzazione. Dalla sua esperienza del Risveglio presso Nyojo, Dogen stabilì l’orientamento caratteristico del suo insegnamento: lo zazen non è una particolare tecnica di meditazione, bensì “la forma corpo-spirituale che rappresenta in modo diretto e immediato la relazione (..) fra la propria esistenza e la Via universale in cui essa scorre e da cui si alimenta” (in “Eihei Dogen” di Jiso Forzani). Nelle parole di Dogen stesso: “Se non si fa zazen non si può comprenderlo e, senza fare zazen, non ha senso chiedere il perché del farlo” (dal “Bendowa” del M° Dogen)).

Eihei Dogen
Nel 1227 Dogen ritornò in Giappone. A chi gli chiedeva che cosa avesse riportato dalla Cina, rispondeva: gli occhi orizzontali, il naso verticale, ogni cosa al suo posto nel volto originario. Non c’è nulla che manchi, nulla che cresca: tornare a mani vuote è rivolgere lo sguardo a se stessi, distaccarsi dal guadagno e dal merito, anche in campo spirituale. Fino alla sua morte (1253) si dedicò all’insegnamento dello Zen in diversi templi, divenendo il fondatore della scuola Soto Zen, che ebbe il suo centro nel monastero di Eihei-ji, da lui edificato in mezzo ai monti (il nome Soto deriva dal cinese Ts’ao-tong, che a sua volta prese il nome dal M° Tong-shan e dal suo allievo Ts’ao-shan – IX sec.).
Un giorno, l’imperatore Gosaga gli inviò in dono una veste da monaco color porpora, quale riconoscimento della sua maestria. Per due volte Dogen la rifiutò, la terza volta la accettò, ma non la indossò mai. Scrisse anzi questi versi:
Lieve è la valle di Eihei-ji
Pesante l’editto dell’imperatore.
Se un vecchio monaco indossasse qui una veste di porpora
Riderebbero di lui scimmie e aironi.


Dal Giappone all’Europa: Taisen Deshimaru

Nel 1967 giunse a Parigi dal Giappone Taisen Deshimaru, discepolo del M° Kodo Sawaki da quando aveva 18 anni, ma ordinato monaco Zen solo un anno prima, all’età di 52 anni. Con lui, lo Zen, fino ad allora conosciuto in Europa solo attraverso i libri, divenne pratica autentica di zazen, nella tradizione di Dogen e del suo lignaggio (ma si può dire nel solco tracciato dal Buddha a partire dall’esperienza del suo zazen sotto l’albero del Bodhi). Per il M° Deshimaru, la pratica della meditazione non è in contraddizione con il lavoro, con la vita di tutti i giorni, anzi essa “deve essere il sostegno della vita quotidiana, e attraverso la meditazione tutta la nostra vita diviene (..) vita spirituale” (in: “La tazza e il bastone”). Ugualmente, il suo Maestro Kodo Sawaki affermava che “essere monaco nella vita comune significa vivere nella vita comune senza diventare preda dell’illusione della vita comune”. Dal suo arrivo a Parigi fino alla sua morte nel 1982, Deshimaru fondò diverse decine di dojo in Europa e, in Francia, il più grande tempio Zen d’Occidente, il tempio della Gendronnière, vicino a Blois.
Taisen Deshimaru
Cuore del suo insegnamento è che lo Zen è essenzialmente la pratica di zazen: “il segreto dello Zen consiste nel rimanere seduti, semplicemente (shikantaza), senza scopo e senza spirito di profitto (mushotoku), in una postura di grande concentrazione. Lo Zen è soprattutto un’esperienza”. In tal senso, egli proseguì l’opera del M° Sawaki, intesa a far uscire lo Zen dai monasteri, dove si era sclerotizzato in formalismi e cerimoniali. Sawaki, chiamato non a caso Yadonashi, il senza-dimora, non si stabilì mai in nessun monastero, divenne egli stesso monastero itinerante, per portare lo zazen a chiunque, nei paesi, nelle carceri, tra la gente comune: un pellegrino tra i pellegrini del samsara.
Ogni aspetto della vita quotidiana diventa pertanto occasione di pratica; come dice il M° Roland Yuno Rech, uno dei discepoli di Deshimaru, “il lavoro è vissuto come un servizio reso alla collettività e non come un mezzo per soddisfare le proprie ambizioni di carriera, di potere o di ricchezza”, ed anche la vita familiare può essere vissuta “come espressione della Via attraverso l’attenzione e l’amore privo di attaccamento” (da: “Zen, il risveglio al quotidiano”).


m. Mauro Ton Ko

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