mercoledì 17 gennaio 2024

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 10 - Il Dharma del Buddha dall'India alla Cina - II

 

Lezione 10 – Il Dharma del Buddha dall’India alla Cina_II

 

Su due scuole del Buddhismo cinese, o del Buddhismo in Cina, può essere interessante soffermarsi: la Scuola della Terra Pura (Ching-t’u Zong), che darà origine in Giappone alla scuola Tendai e si diffonderà in tutta l’Asia di Sud-Est; e la ancor più famosa Scuola della Meditazione, Ch’an Zong, che in Giappone diverrà lo Zen, termine ormai inflazionato anche nell’onnivoro Occidente.

 

Ching-t’u Zong, la Scuola della Terra Pura

 

La Scuola della Terra Pura costituisce un’evoluzione della Società del Loto Bianco (Bailianshe), fondata nel V secolo da Huiyuan (giap. E’on) per riunire i devoti del Buddha Amithaba (cin. Amituofo, giap. Amida), Luce Infinita, chiamato anche Amitayus, Vita Infinita. Amithaba, uno dei Buddha del passato, è il Buddha della Terra Pura detta Sukhavati, Luogo di Beatitudine, una sorta di “paradiso” buddhista destinato ad accogliere gli esseri che hanno fermamente desiderato di rinascere in esso. Si tratta infatti di una corrente devozionale del Buddhismo, con basi dottrinali piuttosto semplici, nella quale l’elemento della fede riveste un ruolo fondamentale. È una sorta di religione popolare, piuttosto lontana dal Buddhismo delle origini: in essa il Buddha non è più l’uomo che ha indicato la Via della liberazione dalla sofferenza (l’Ottuplice Sentiero: retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione, retto pensiero, retta comprensione) , bensì una divinità salvifica che accoglie compassionevolmente i veri fedeli, impossibilitati per vari motivi a seguire la strada di un Buddhismo troppo “intellettuale” ed impegnativo.

In altre scuole buddhiste Sukhavati è un simbolo vivente, rappresenta una delle tappe interiori che il praticante raggiunge e supera nel suo cammino verso il Risveglio, ma qui si oggettiva in una “realtà” esterna, una sorta di “aldilà” nel quale rinascere grazie a pratiche semplici e disponibili per chiunque, prima fra tutte la recitazione ripetuta (cin. nianfo, giap. nembutsu) del nome di Amithaba. È una mera versione devozionale dell’antica pratica yogica del mantra (da manas, mente + traya, protezione, quindi: strumento di protezione della mente), trasformata in una preghiera rivolta ad una entità esterna, se non addirittura ridotta a formula magica. L’espressione Namu Amituofo (giap. Namu Amida Butsu), rendo omaggio al Buddha Amithaba, viene ripetuta più e più volte dal devoto, fino a pervenire ad una recitazione accompagnata da un totale assorbimento mentale, il che permette di ottenere quale ricompensa la rinascita nella Terra Pura Sukhavati. La quale peraltro, da un punto di vista buddhista “ortodosso”, è anch’essa vuota di realtà propria, una mera illusione.

Amitabha

 

 

Alla base della dottrina della Terra Pura si trova quella concezione ciclica del tempo che è patrimonio comune di tutte le Tradizioni, non solo di quelle orientali, secondo la quale vi sono quattro età principali della vicenda umana: l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro, o diversamente denominate. Esse corrispondono alle fasi attraversate dall’umanità e segnano un allontanamento sempre più rapido dal Principio. Nell’ultima fase (quella che stiamo attraversando), l’età oscura, il Kali Yuga secondo la Tradizione indiana, si assiste ad un totale rivolgimento dei valori umani fondamentali e ad una parallela inversione spirituale, un’era perfettamente descritta dal maestro Franco Battiato (in Zone depresse) con magistrale ironica sintesi:

 Poi la fine un giorno arrivò per noi;

dammi un po' di vino con l’Idrolitina.

 Alle quattro ere cosmiche corrispondono secondo la Tradizione buddhista diverse ere della Dottrina (quattro secondo il buddhismo indo-tibetano, tre secondo quello sino-giapponese), l’ultima delle quali (cin. mofa, giap. mappo) è un’età di degenerazione morale, ignoranza, disgregazione delle famiglie e delle comunità, inversione dei ruoli tradizionali (il che rinvia il pensiero all’origine del Buddhismo all’interno della casta Ksatriya), violenze e conflitti; un’era in cui rimane solo una parvenza esteriore del Dharma: gli insegnamenti del Buddha sono ancora presenti, ma nessuno è più in grado di comprenderli appieno e di praticarli correttamente, in particolare la meditazione e la concentrazione. Nessuno può più realizzare il Risveglio, la sola pratica possibile è dunque la via della fede nella compassione del Buddha quale entità divinizzata e salvifica.

In attesa del ritorno di una nuova età dell’oro, Satya Yuga

 

Ch’an Zong, la Scuola della Meditazione - Bodhidharma

 

La Scuola Ch’an (giap. Zen) prende il nome dalla pronuncia in lingua cinese del termine sanscrito dhyāna, genericamente traducibile con meditazione.

Nello Yoga Sutra di Patañjali, dhyāna è il settimo degli otto passi che secondo l’Aṣtanga Yoga (lo Yoga degli Otto Mezzi) portano al samādhi, l'unione del meditante con l'oggetto meditato: il Sé Supremo, l’Assoluto, il Brāhman, Dio.

Nel Buddhismo si identificano quattro dhyāna, livelli di stabilizzazione meditativa, nell’ultimo dei quali il meditante, scomparsi gli antecedenti stati di gioia e di tristezza, raggiunge l'equanimità e la concentrazione in un solo punto.

In tutte le scuole del Buddhismo è ovviamente presente e centrale la pratica del dhyāna, ma il Ch’an si caratterizza per la forma particolare di meditazione che non è progressiva, ma porta direttamente all’esperienza del Risveglio. Una antica formulazione così definisce la pratica del Ch’an: “Una trasmissione speciale avulsa dalle Scritture; nessuna dipendenza dalle parole né dalle lettere; penetrare direttamente il cuore-mente dell’uomo; contemplare la propria natura e realizzare la buddhità”. 

 

L’emersione definitiva del Ch’an avvenne storicamente sotto la dinastia Tang, nel VII-VIII secolo, con il maestro Huineng (giap. Eno), il quale fu poi considerato non il primo bensì il sesto Patriarca del Ch’an. Infatti, una volta consolidatasi, la scuola si attribuì – come sovente avviene per accrescere la propria autorevolezza – un lignaggio anteriore di cinque Patriarchi cinesi, per cui fondatore del Ch’an e primo Patriarca cinese è tuttora considerato Bodhidharma (cin. Putidamo, giap. Bodaidaruma, Daruma), figura di monaco indiano avvolta nel mito. 

Bodhidharma

 

Nei testi della tradizione Ch’an l’origine della pratica del dhyana/ch’an/zen viene fatta risalire addirittura a tempi ancora anteriori, direttamente al Buddha Shakyamuni: questi, seduto presso il Picco dell’Avvoltoio a Rajgir (Bihar), come soleva fare per impartire gli insegnamenti, aveva preso un fiore tra le dita e lo aveva fatto ruotare sorridendo, senza dire nulla. Uno solo dei suoi discepoli, Mahākāśyapa, aveva sorriso a sua volta, dimostrando così di aver profondamente compreso gli insegnamenti. È questa l’origine della trasmissione al di là delle scritture, l’atto di nascita del Ch’an/Zen secondo la Tradizione.

Mahākāśyapa fu pertanto il primo dei ventisette Patriarchi indiani; successivamente Bodhidharma divenne il ventottesimo di quelli indiani e il primo di quelli cinesi.

 

Come si vede, la Scuola Ch’an attribuisce una particolare importanza alla Trasmissione, “la quale garantisce, in completa autonomia dalla Scritture, il passaggio dell’insegnamento del Buddha” (Morelli, Bodhidharma, Ed. Red). L’insegnamento può quindi pervenire fino al presente nella sua purezza, da mente a mente, i shin den shin in giapponese, senza interruzioni nella catena della trasmissione iniziatica da maestro a discepolo (in sanscrito: guru-śiṣya-paramparā).

E questo non solo nel Ch’an/Zen, non solo nel Buddhismo, ma in tutti i rami dell’autentica Tradizione, Orientale come Occidentale.

Nei racconti sulla Trasmissione nulla è detto sul contenuto di ciò che è trasmesso, ciò che è importante è la modalità della Trasmissione stessa. Il presupposto della Trasmissione silenziosa è che il Risveglio non può essere comunicato, poiché in definitiva non vi è alcun insegnamento da impartire, alcuna verità da rivelare: il Dao di cui si può parlare non è il vero Dao.

La linea di trasmissione non implica dunque il passaggio di qualcosa di concreto, ma il riconoscimento di una comune maturità spirituale, la quale, al di là della fondamentale presenza del maestro, può essere raggiunta solo in prima persona” (Morelli).

 

Secondo quanto si racconta di lui, al di fuori e al di là di una superflua ricerca storiografica, Bodhidharma era nato nell’India del Sud nel VI secolo d.C., ed era figlio di un re, come già era stato Siddhartha. E come lui abbandonò il palazzo per dedicarsi alla ricerca del Risveglio, divenendo monaco.

 

Raggiunse dopo un difficile viaggio Guangzhou (già Canton), nella Cina Meridionale, e fu ricevuto alla corte dell’imperatore Wu, con cui ebbe un significativo dialogo:

L’imperatore gli chiese: Ho costruito templi e ordinato monaci. Che merito c’è in questo? Bodhidharma disse: Nessun merito. L'imperatore Wu chiese ancora: Qual è il significato supremo delle sante verità? Bodhidharma disse: Vuote, nulla di santo. L'imperatore disse allora: Chi mi sta di fronte rispondendomi così? Bodhidharma rispose: Non lo so. Wu non comprese. Allora Bodhidharma se ne andò, attraversò il fiume Yangtse e giunse nel regno di Wei, a Nord, e risiedette nel monastero di Shaolin.

 

Lì si dedicò alla meditazione, silenziosamente seduto in una grotta nella postura a gambe incrociate di fronte al muro, e vi rimase per nove anni. Un lasso di tempo che non può non richiamare alla mente i nove mesi di una gravidanza, alla fine della quale un nuovo essere viene alla luce dal buio del grembo materno, come un uomo rinato nello spirito era uscito dall’oscurità della grotta del monte Shaolin.

 

Si dice anche che per evitare di addormentarsi durante le lunghe ed estenuanti meditazioni Bodhidharma si sia tagliato le palpebre, le quali erano cadute a terra e germogliando avevano dato origine alla pianta del tè. Di fatto il tè, grazie al leggero effetto stimolante prodotto dalla caffeina, è tuttora una bevanda molto diffusa tra i meditanti.

Sempre secondo il mito, anche la figura fisica di Bodhidharma, con i suoi grandi occhi spalancati, fa riferimento al taglio delle palpebre.

Non solo: in Giappone Bodhidharma è chiamato Daruma, e con questo nome è chiamata una sorta di bambola tondeggiante che effettivamente lo rappresenta, ma senza braccia e senza gambe, perché atrofizzate e cadute dal corpo a causa della immobilità mantenuta durante il lunghissimo ritiro nella grotta.

Daruma

 

 

Ma la leggenda ci dice in realtà molto sulla pratica stessa: attraverso la concentrazione, che passa anche lungo tutti i punti del corpo, viene progressivamente meno la percezione di sé come soggetto distinto, esistente indipendentemente dai fenomeni esterni. La concentrazione meditativa porta quindi al superamento della falsa visione di un ego separato, origine dell’ignoranza e della sofferenza, e alla realizzazione della vacuità (sans. śūnyatā, cin. kong, giap. ) ovvero al cuore dell’insegnamento buddhista.

 

L’importanza del corpo nel mito di Bodhidharma e nella realtà della pratica del Ch’an/Zen (nella quale sembra non essere coinvolto, ma è una visione errata della meditazione) è attestata anche dalla storia del secondo Patriarca cinese, Huike . Per ottenere di essere accolto come discepolo da Bodhidharma rimase in piedi nella neve per diversi giorni di fronte alla grotta del maestro, ma invano. Infine, si tagliò un braccio, quale prova di determinazione, e disse al maestro: La mente del tuo discepolo non è ancora tranquilla, ti prego di tranquillizzarla. Bodhidharma rispose: Portami la tua mente, affinché possa tranquillizzarla. E Huike: Ho inseguito la mia mente, ma non sono riuscito a trovarla. Bodhidharma affermò allora: In tal caso, hai veramente tranquillizzato la tua mente. E lo accettò come discepolo.

 

Ugualmente significativo è anche uno dei racconti sulla morte di Bodhidharma: si narra che nel giorno in cui il Patriarca morì (forse per avvelenamento, come il Buddha indiano) un funzionario imperiale che stava rientrando dall'India lo incontrò mentre camminava indossando un solo sandalo sulle montagne del Pamir. Al suo rientro in Cina raccontò l’accaduto ai discepoli, questi corsero alla tomba del maestro e vi trovarono soltanto un unico sandalo di paglia. Si disse allora che Bodhidharma, ormai giunto all’età di centocinquanta anni, fosse ritornato in India per insegnare il Ch’an nella terra d’origine del Buddhadharma.

È un’immagine, quella della tomba vuota con un solo sandalo all’interno, o una spada, ricorrente nella tradizione daoista, alla quale la figura di Bodhidharma rimanda costantemente. Ed è altresì un’immagine che rinvia alla Tradizione cristiana di una tomba vuota, contenente solo un lenzuolo…

 

Il sandalo di Bodhidharma ci permette infine di trovare ulteriori punti di contatto tra le Tradizioni del Buddhismo indiano e cinese e le pratiche del Daoismo  che abbiamo chiamato di alchimia interiore, ovvero il Qi Gong e le tecniche marziali del Wu Shu.

Il sandalo è custodito quale preziosa reliquia, insieme alla veste del Patriarca, in un santuario appositamente costruito nel XII secolo accanto al famoso monastero di Shaolin, nella regione dell’Henan. Shaolin costituisce dunque un vero e proprio punto d’incrocio geospirituale nella storia della Cina antica, anche se i legami tra Shaolin, Bodhidharma, il Ch’an e il Wu Shu probabilmente non hanno un valido fondamento storico.

In effetti il monastero, fondato nel V secolo come centro di educazione religiosa buddhista, divenne sempre più importante proprio grazie all’espansione della scuola Ch’an e alla notorietà del Patriarca che vi risiedeva.

Quanto al legame con il Wu Shu, si dice che al suo arrivo a Shaolin Bodhidharma abbia trovato i monaci in pessime condizioni fisiche, al punto che non riuscivano a praticare la meditazione. Così egli insegnò loro gli esercizi del Yijinjing (il Classico del Cambiamento dei Tendini o dei Muscoli, un testo che è però databile al XVII secolo) e del Luohan Shi Ba Shou (le Diciotto Mani degli Arhat, ovvero, nel Buddhismo, i meritevoli, coloro che hanno percorso l’Ottuplice Sentiero), una serie dinamica di 18 movimenti che coinvolgono il corpo fisico ed energetico, la respirazione e la concentrazione mentale. Tecniche che vengono tuttora studiate e praticate nel monastero di Shaolin e nelle scuole non solo cinesi che ad esso fanno riferimento.

Gli efficaci esercizi di Bodhidharma consentirono senza dubbio ai monaci di rinvigorirsi  e di praticare intensamente la meditazione: è più che evidente pertanto il legame tra tali tecniche e la Medicina Tradizionale (MTC) di origine daoista, sia dal punto di vista teorico – la visione olistica dell’uomo, con la componente energetica del corpo – sia da quello pratico, data la loro forte somiglianza con le tecniche del Dao Yin/Qi Gong.

Ma esiste anche un’altra possibile lettura della vicenda, secondo la quale le tecniche imparate dal Patriarca avrebbero permesso ai monaci di difendersi dalle aggressioni esterne, a mani nude o con armi derivate dagli attrezzi da lavoro, il che avrebbe dato origine all’arte marziale, il Wu Shu appunto, per cui, come già visto, ancora oggi Shaolin è famoso nel mondo, anche grazie ai film di arti marziali da Bruce Lee in poi.

Due letture che non si escludono l’un l’altra, in quanto il Wu Shu, in tutte le sue varianti anche se a livelli diversi, permette sia l’autodifesa personale sia lo sviluppo della concentrazione mentale su un solo punto, indebolendo l’erronea visione di un sé come entità separata. È pertanto una forma di addestramento fisico e mentale che può aiutare a superare il pensiero della morte di un ego (illusorio in quanto pensato e vissuto come distinto) affidandosi interamente al qui ed ora.

 

Ma anche a Shaolin era scoccata la mezzanotte, Bodhidharma aveva perso un sandalo, e l’incantesimo lentamente cominciava a svanire.

 Si dice infatti che già a partire dalla dinastia Ming (1368-1644) il monastero divenne per la sua importanza e ricchezza un centro di potere, che forniva sostegno militare all’imperatore.

Ciò che fecero nel Giappone del ’900 i monasteri Zen.

 E si dice anche che oggi Shaolin costituisca un brand del made in China.

Come pure Shangri-La, discesa dal mito alla realtà di un parco per turisti, nelle terre di ciò che era Tibet. Due Gardaland dello spirito, due degli infiniti ingranaggi del mercato globale, che inghiotte ed assimila ogni fenomeno spirituale, culturale, umano in genere, generando merci.

Tragica inversione del procedimento alchemico. Dall’oro al piombo, dal broccato agli stracci.

 D’altra parte, proprio in Tibet, nell’VIII secolo, il maestro Padmasambhava aveva profetizzato: “quando voleranno gli uccelli di acciaio e correranno i cavalli con le ruote, il popolo tibetano sarà disperso e il Dharma del Buddha arriverà fino agli uomini con la faccia rossa”. Ovvero agli abitanti di quell’Occidente che ha nel nome il proprio ruolo e il proprio destino…

 Ascoltiamo ancora Franco Battiato (in Magic Shop):

 I Mantra e gli Hare Hare a mille lire / L'Esoterismo di René Guénon / Una Signora vende corpi astrali / I Budda vanno sopra i comodini… / Supermercati coi reparti sacri / Che vendono gli incensi di Dior…

 

mercoledì 10 gennaio 2024

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 9 - Il Dharma del Buddha dall'India alla Cina - I

 

Lezione 9 – Il Dharma del Buddha dall’India alla Cina_I


Che cosa, o Malunkyaputta, ho spiegato? “Questo è il dolore”, o Malunkyaputta, ciò ho spiegato; “questa è l'origine del dolore”, ciò ho spiegato; “questa è la cessazione del dolore”, ciò ho spiegato; “questa è la via che porta alla cessazione del dolore”, ciò ho spiegato.

Così disse il Beato. (Majjhima Nikaya, 63)

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Quell’aspetto dell’antica Tradizione a noi noto come “Buddhismo” ebbe storicamente origine nell’India settentrionale del VI secolo a.C., in un periodo in cui la Tradizione Vedica stava vivendo una profonda crisi: “si era dissolto – scrive Hans Schumann nell’ottimo testo Il Buddha storico (Ed. Salerno) – l’entusiasmo divinatorio che aveva consentito mille anni prima ai veggenti indoariani di ascoltare dagli dèi la voce del sapere (Veda) dentro il proprio cuore e di versare quanto avevano udito (śruti) in inni, era morto l’orgoglio letterario con cui avevano sintetizzato questi ultimi a Veda, a “sapere” sacro (..). Il secolo di Gotama intendeva [gli inni vedici] soltanto come canti magici che operavano meccanicamente. I riti sacrificali erano diventati sempre più complicati e lunghi, sempre più dispendiosi per il sacrificante le offerte e gli onorari dei sacerdoti. Il contenuto numinoso della religione era quasi soffocato dalla proliferazione delle esatte pratiche rituali”.

Tale momento di crisi è riscontrabile nei testi della spiritualità indiana anche dal punto di vista storico: se i Veda riflettono condizioni di vita rurali, negli scritti buddhisti compare invece l’immagine di una nuova civiltà urbana, il che ci dice che  era in atto nell’India dell’epoca una profonda trasformazione economica, sociale e culturale.

 

Fatto non marginale che richiederebbe riflessioni di rado affrontate, la figura stessa del principe Siddharta Gotama Shakyamuni, il Buddha di questa era oscura, non compare nell’ambito della casta sacerdotale, i Brahmani, bensì nella casta dei guerrieri, gli Kṣatriya, a cui appartenevano il padre di Siddharta, il raja Shuddhodana, e la madre Mayadevi.

Così come si svolge interamente nell’ambito della casta degli Ksatriya la vicenda narrata in uno dei testi spirituali più amati e più importanti dell’Induismo, il Canto del Divino (Bhagavadgītā), scritto probabilmente intorno al III secolo a.C.

Infatti i protagonisti, Arjuna e il Signore Kṛṣṇa manifestatosi nella forma dell’auriga di Arjuna, sono entrambi guerrieri.

 

Questa breve premessa  sulla (momentanea) crisi della tradizione vedica indiana e la coeva origine del Buddhadharma ci introduce al tema dell’ingresso in Cina del Buddhismo stesso, che avvenne diversi secoli dopo, in un’epoca durante la quale la società, la politica e la cultura cinese stavano attraversando una altrettanto profonda crisi, in parte simile a quella già vissuta dal mondo indiano.

 

Inizialmente gli insegnamenti del Buddha (in Cinese Fo, in Giapponese Butsu o Nyorai) entrarono in Cina intorno al II secolo d.C. sulle spalle dei mercanti indiani e sul dorso dei loro animali, grazie alla spinta verso l’esterno esercitata dalla dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), la quale aveva occupato le oasi situate lungo la Via della Seta e favorito lo sviluppo dei rapporti commerciali con i popoli “barbari” dell’ovest (tra cui i Romani, attraverso la mediazione dei Parti) e con il ricco e potente impero Kusana, nato nell’India del Nord e nell’Asia centrale.

Fu grazie alla crisi politica e al crollo della dinastia Han che il Buddhismo si rafforzò sul territorio cinese con l’arrivo di monaci e maestri e con la formazione delle prime comunità di praticanti del Dharma, le quali per motivi politici ricevettero l’appoggio dall’una o dall’altra delle dinastie che combattevano tra loro per il potere dopo la fine degli Han.

In parallelo con la crisi politica dell’Impero, anche la crisi delle grandi tradizioni filosofiche e religiose favorì l’affermarsi del Dharma del Buddha in Cina. Il Confucianesimo subiva la trasformazione della ritualità in un rigido formalismo privo di significato ed incapace di operare per la crescita spirituale delle persone e delle istituzioni. Il Daoismo era sempre più intriso di quel pensiero magico latente nelle interpretazioni più superficiali di testi come il Libro dei Mutamenti (Yi Jing), ed era quindi altrettanto incapace di svolgere il ruolo che ad esso avevano assegnato gli insegnamenti di Laozi e di Zhuangzi.

Il vuoto spirituale lasciato dall’inaridirsi delle tradizioni originarie fu così inevitabilmente colmato dal Buddhismo, che grazie alla disciplina delle sue comunità monastiche e al valore indiscutibile degli insegnamenti impartiti dai maestri acquisì un consenso sempre più vasto nel popolo e nella corte imperiale.

Si diffuse anche la pratica del pellegrinaggio da parte dei primi fedeli buddhisti cinesi verso l’India, terra d’origine del Dharma, e i pellegrini ritornavano nella Terra di Mezzo (Zhongguo, la Cina) portando i testi dei Sutra e dei commentari.

Lentamente e pazientemente si cominciò anche a risolvere un problema fondamentale, quello della traduzione dei testi buddhisti dalle lingue originarie in cui erano redatti (soprattutto il pali e il sanscrito) in cinese. Si trattava non solo di tradurre i Sutra e gli altri testi, ma di renderli veramente comprensibili e praticabili cercando “una terminologia che facesse da ponte, dal punto di vista speculativo e religioso, tra i concetti della cultura indiana e quelli della cultura cinese” (Arena, Storia del Buddhismo Ch’an, Ed. Mondadori). Non solo, ma in un primo tempo i Sutra furono tradotti in cinese arcaico, praticamente sconosciuto negli ambienti popolari.

Vennero quindi chiamati in Cina grandi maestri di tradizione indiana, primo tra tutti Kumarajiva, che diedero vita a valide scuole di traduttori. Ma soprattutto ciò che agevolò molto il lavoro dei traduttori e la comprensione degli insegnamenti da parte dei Cinesi fu la loro profonda conoscenza delle pratiche della meditazione, che costituivano il nucleo vivente sia della tradizione buddhista sia di quella daoista. Le metodiche della meditazione e i relativi conseguimenti sul piano spirituale e su quello filosofico costituirono una vera e propria stele di Rosetta che facilitò la reciproca comprensione tra due culture linguisticamente diverse ma affini dal punto di vista della Tradizione.

Ad esempio, se nell’ambito delle pratiche meditative i Cinesi adottarono con favore le tecniche yogiche legate al controllo delle fasi respiratorie, già ben note ai praticanti del Daoismo, dal punto di vista filosofico essi trovarono notevoli affinità fra la nozione buddhista di vacuità, l’assenza di sostanzialità dei fenomeni (śunyata in sanscrito), e il wu daoista, il non-essere, o hsü, vuoto, cavo, inteso come Suprema Realtà.

Un altro importante esempio di affinità tra le due tradizioni è offerto dalla nozione (in verità pre-buddhista) di karma (dalla radice kr-, da cui creazione), l’azione, l’attività umana. L’azione generata dall’ignoranza, avidyā, costituisce per i Buddhisti il “carburante” del meccanismo della ruota del saṃsāra, l’esistenza ciclica condizionata, permeata dalla sofferenza (duḥkha). In maniera non dissimile, i Daoisti proponevano la nozione di wei-wu-wei, l’agire-non-agire, ovvero un’azione che non andasse ad interferire con il corso armonico e spontaneo del Cosmo. In termini buddhisti, un agire che non contribuisca ad alimentare il fuoco della sofferenza, ma anzi porti alla sua estinzione (nir-vana).

Molti elementi facilitavano dunque una reciproca comprensione e arricchimento tra Buddhismo e Daoismo: il Buddhadharma aveva costituito una forma di reazione, un ritorno alle origini rispetto al dogmatismo brahmanico, e poteva quindi proporsi come stimolo per il Daoismo nel reagire al formalismo in cui era caduto il Confucianesimo e nel contrastare la propria stessa deriva verso il pensiero magico. Entrambi rifuggivano dalla pura speculazione fine a sé stessa, e questo aspetto era perfettamente adeguato al pragmatismo tipico della mentalità cinese. 

Anche la storia dell’umanità di quell’epoca contribuiva a tale evoluzione: in India il Buddhismo era praticamente scomparso, a causa delle proprie crisi interne ma soprattutto a causa delle invasioni dei Musulmani, che a partire dall’VIII secolo sterminarono le comunità monastiche, inflissero danni irreparabili alle espressioni artistiche legate alla cultura buddhista e induista, distrussero le grandi università come Nalanda – nelle quali vivevano e studiavano migliaia di monaci – riducendole a cumuli di mattoni ancora oggi visibili. Di conseguenza cessarono del tutto sia i pellegrinaggi cinesi in India sia gli arrivi degli eruditi indiani in Cina.

 

I resti dell'Università di Nalanda

 

A quel punto il Buddhismo in Cina iniziò necessariamente ad assumere una forma propria, indipendente anche se non difforme da quella originaria. Il Canone pali (Tripiṭaka, il Triplice Canestro) e molti fondamentali Sutra sanscriti  e commentari erano stati ormai tradotti e su queste basi teoriche si formarono le diverse scuole che giunsero a comporre una forma sinizzata e “daoistizzata” del Buddhismo. Il che corrisponde peraltro perfettamente alla natura stessa dell’insegnamento del Buddha: non-dogmatico, pragmatico, non istituzionale, finalizzato alla liberazione degli esseri dalla sofferenza e non alla costruzione di nuove categorie o concetti. Infatti se come il Buddha insegna ogni fenomeno è vuoto di esistenza intrinseca, è dipendente da ogni altro fenomeno, è impermanente, allora il Buddhismo stesso non può porsi come categoria speculativa, come catechismo, come opinione ultima da affiancare alle altre o più “vera” delle altre. E men che meno come istituzione immutabile e indiscutibile.

Lo stesso Buddha storico fu equiparato dai Cinesi ai grandi maestri daoisti, come Laozi e Chuangzi (si rammenti che si narra che Laozi al termine della sua vita si sia recato in India e sia diventato il guru del futuro Buddha).

La centrale figura buddhista del Bodhisattva, l’Essere la cui natura è il Risveglio, la personificazione del principio della Compassione o del principio della Saggezza, acquisì in Cina i tratti del Saggio daoista: esseri superiori immersi nell’armonico fluire del Dao,  al di là del pensiero logico e del linguaggio discorsivo, ma non avulsi dalla quotidianità, presenti nel mondo senza essere del mondo, costantemente dediti ad un agire nel non-agire, spontaneamente votati ad aiutare gli esseri senzienti a liberarsi dal dolore, pur consapevoli della fondamentale vacuità della sofferenza e degli stessi esseri sofferenti.

 

Il Bodhisattva della Compassione

A partire dal VII secolo (dinastia T’ang) nacquero e si diffusero in Cina dieci diverse scuole buddhiste, che costituivano spesso il prolungamento nel tempo e nello spazio di altrettante scuole che si erano precedentemente formate in India sulla base dei diversi testi e maestri di riferimento, con differenze di dottrina e di pratica anche importanti che non causavano però fratture insanabili o conflitti.

Alcuni esempi: la Scuola della consistenza del tutto, corrispondente ai Sarvastivadinah indiani, o la Scuola della realtà compiuta (in India erano chiamati Sautrantikah). Unicamente cinese era invece la Scuola della disciplina, che si occupava soprattutto di problematiche disciplinari ed etiche. Un esempio di fusione tra tematiche cinesi, indiane ed elementi della tradizione popolare è la Scuola della retta parola, una scuola esoterica che contribuì allo sviluppo di culti tantrici, con risvolti magici, fino a derive superstiziose. Ebbe molta fortuna in Giappone, con il nome di Shingon.

 

Guan Yin