Nel
corso dell’incontro svoltosi nel corrente anno presso l’Unisabazia in Vado Ligure, dedicato al tema del difficile rapporto
tra il Mahatma Gandhi e la questione ebraica, ho espressamente criticato l’uso
corrente del termine olocausto (con o
senza la maiuscola) per indicare il piano di sterminio degli Ebrei ideato e
messo in pratica dal regime nazionalsocialista tedesco e dai suoi alleati nel
secolo scorso.
La
lettura della più recente opera di Roberto
Calasso, Il libro di tutti i libri, dedicato alla Bibbia, ha confermato
quanto la mia critica fosse corretta, non solo per un mero desiderio di
precisione nella scelta dei termini, ma anche – e soprattutto – perché l’uso di
un termine scorretto, impreciso o fuorviante può profondamente modificare la
comprensione, il ricordo, l’analisi, l’interpretazione di un evento.
E
talvolta può anche accadere che tale uso avvenga scientemente, con cognizione
di causa, per consentire un’operazione di “riduzione” della portata di un fatto
storico senza necessariamente giungere a negarne la veridicità.
Così
come – ad esempio – molti non negano affatto lo sterminio del popolo ebraico,
ma si affrettano comunque ad aggiungere che il progetto dei nazionalsocialisti
del ‘900 non si limitava ai soli Ebrei, ma comprendeva anche i Rom, gli
omosessuali, i Testimoni di Geova, gli oppositori politici ecc. Il che è vero,
ma in certi contesti questo è solo un mezzo per “ridurre”, senza espressamente
negarla, la specificità del genocidio subito dal popolo ebraico.
La
stessa operazione viene altrettanto spesso tentata quando si inserisce lo
sterminio degli Ebrei in un più vasto contesto temporale. E allora si dirà: sì,
certo, gli Ebrei, ma non dimentichiamo i Tibetani, i Nativi americani, gli
Armeni, gli Incas, gli Uiguri, e così via elencando.
Si
tratta in fondo dell’atteggiamento mentale di chi non vuole essere tacciato di “negazionismo”,
ma non può tuttavia evitare di lasciar emergere un antisemitismo di fondo che
non è mai scomparso, ma che al contrario si ripresenta costantemente nascondendosi
magari sotto l’uso di una terminologia apparentemente neutrale ed innocua.
Riporto
qui di seguito il brano dell’ottimo libro di Calasso sul termine olocausto (pag. 381/383):
I
nazisti misero in atto contro gli Ebrei, nella seconda guerra mondiale, un
piano di sterminio sistematico. Gli Ebrei venivano raccolti in campi - di concentramento
o di sterminio. Talvolta venivano passati dagli uni agli altri per essere
uccisi. La maggior parte dei cadaveri venivano inceneriti. Questi i fatti
essenziali, descrivibili con parole del lessico comune.
Un
giorno qualcuno pensò di designare quel piano e la sua attuazione con la
parola «olocausto». Per vie che nessuno potrà chiarire in ogni passaggio, come
sempre avviene nella storia delle parole, il termine si diffuse facilmente,
largamente, sino a diventare il termine specifico per descrivere quegli
eventi. E assunse anche, occasionalmente, la maiuscola. Ma «olocausto» non era
parola nuova - mentre nuova era stata l'impresa nazista. Al contrario era una
parola molto antica, un termine del lessico sacrificale. Di «olocausto», olah,
si parla nella Genesi la prima volta in cui viene nominato un altare. E il
primo degli olocausti fu offerto da Noè, che aveva eretto il primo fra gli
altari. Che cosa sia l'olocausto fu enunciato da Iahvè a Mose: «Iahvè parlò a
Mose dicendo: "Dai ordine ad Aronne e ai suoi figli, dicendo: Ecco la legge
dell'olocausto: l'olocausto sarà sul suo braciere, sull'altare, per tutta la
notte sino al mattino, e il fuoco dell'altare vi brucerà. Poi il sacerdote
indosserà la sua veste di lino e metterà sulla sua carne braghe di lino,
solleverà la carne dell'olocausto che il fuoco dell'altare avrà divorato e la
metterà di lato sull'altare. Poi si toglierà le vesti e indosserà altre vestì,
e porterà la cenere fuori in luogo puro"».
Così
accadde che il sistematico sterminio di un popolo da parte di un altro popolo
venne chiamato col nome di una cerimonia religiosa istituita in tempi remoti
dalla parola del Dio del popolo assassinato. Questo fatto fu un errore immane e
un orrore. Ma, ancora più dell'errore in sé, fu orrendo che non venisse
percepito come tale. Anzi, talvolta rivendicato. Ci furono
occasioni in cui vennero criticati altri termini per sostituirli con il nuovo.
Così un immenso e immeritato onore veniva concesso ai nazisti: si riconosceva
loro di aver condotto per anni una incessante cerimonia religiosa, mentre si
era trattato di uccisioni sistematiche. E, oltre tutto, quella cerimonia
religiosa apparteneva alla più antica tradizione del popolo che si erano
proposti di sterminare. L'acutizzarsi della sensibilità collettiva in rapporto
allo sterminio degli Ebrei si è manifestato in parallelo al progressivo
diffondersi della parola «olocausto». Ma quella maggiore attenzione - e anche
quelle maggiori conoscenze - non sono state sufficienti per rendere palese
l'immane errore che si commetteva ogni giorno nel nominare lo sterminio degli
Ebrei. Intanto, molto si parlava di memoria, spesso celebrandola. Alcuni
pensavano che la memoria in sé fosse l'antidoto più sicuro contro una certa
specie di orrori. Eppure, come applicare questo alla memoria che descrive
l'oggetto del ricordo con una parola che non solo è errata, ma sviante e carica
di significati che sfuggono a chi la pronuncia? E possibile ricordare attraverso
una parola di cui si è dimenticato il senso?
Per
raggiungere la sua perfezione, il male non ha bisogno soltanto di essere
commesso. Almeno altrettanto, ha bisogno di essere nominato con parole errate,
perché questo già garantisce che il male stesso non rischia di giungere nella
sua integrità alla chiarezza della mente. Finché dura un tale stato, il male
potrà sentirsi sicuro di sfuggire a un giudizio che lo consideri per ciò che
esso è stato.
Si veda:
R. Calasso, Il
libro di tutti i libri, Ed. Adelphi
http://zenvadoligure.blogspot.com/2020/03/gandhi-e-gli-ebrei-appunti-su-una.html