sabato 30 gennaio 2016

Draghi d'Oriente e d'Occidente


Se in una limpida notte di primavera-estate si volge lo sguardo verso l’Orsa Minore, è possibile osservare una delle costellazioni settentrionali più grandi della volta celeste, il Dragone, in latino Draco, chiamata Anguis dal poeta Virgilio: “Qui [nell’emisfero boreale] il Serpente striscia con un immenso giro, sinuoso a mo’ di fiume, intorno ed attraverso le due Orse: quelle Orse timorose di tuffarsi nelle acque di Oceano[1], ovvero intramontabili.

La testa del Dragone è formata da quattro stelle, il corpo si snoda attorno al Polo Nord celeste, tra l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore. Nella coda si trova la stella Thuban (nome arabo del Basilisco, mitico re dei serpenti), ovvero Alpha Draconis, che fino al 1793 a.C. era considerata la Stella Polare[2].
Il motivo per cui il Drago si trova nel cielo è narrato dai miti dell’antichità classica: un drago a cento teste, di nome Ladone, era stato posto a guardia del giardino curato dalle ninfe Esperidi, nel quale nascevano mele d’oro, dono di Gea, dea della Terra, alle nozze di Era e Zeus. Dalle bocche di Ladone uscivano grida di cento tonalità diverse, che terrorizzavano gli uomini.
Ma il drago, grazie anche all’aiuto di Atlante, fu ucciso da Eracle, che aveva ricevuto da Euristeo l’incarico di impadronirsi dei pomi d’oro. Era volle allora che Ladone fosse ricordato per l’eternità, e per questo lo pose in cielo tra le due Orse, come narra lo scrittore romano Igino nel De Astronomia[3].
Già il mito di Ladone e del giardino delle Esperidi fa intuire il legame che intercorre tra la figura del drago e l’oro o i tesori in genere.
L’etimologia può aiutare a comprendere tale legame: la parola “drago” deriva dal latino draco e dal greco drakon (drago, serpente), dalla radice DARC-, vedere (greco derkomai, guardo), che è nel sanscrito dṛç, occhio, vista. Così come anche un altro termine greco che significa serpente, ophis, nasce dalla radice OP-, vedere, da cui “ofidi”, serpenti, ma anche “ottico”. Infatti una diffusa credenza popolare riteneva che le serpi e i draghi, loro stretti parenti, avessero una vista eccezionale. In più, ai draghi era attribuita la forza dei leoni e l’agilità delle aquile. Infatti, pur essendo un animale mitologico, il drago è composto da parti di animali reali, che variano a seconda della cultura di origine: il corpo è quello di un rettile (ma a sangue caldo), ed è coperto da scaglie e squame (talvolta piume, come i draghi del Sud America); le ali, quando presenti, sono membranose, come quelle dei pipistrelli; le zampe (due o quattro, talvolta nessuna) sono quelle di un rapace, e come gli uccelli depone le uova…
Per queste loro caratteristiche, i draghi erano considerati ottimi guardiani di tesori, di oggetti preziosi, di luoghi speciali, soprattutto se posti sotto la superficie terrestre o nelle vicinanze di mari, laghi, paludi o sorgenti.
Come il drago Pitone, figlio di Gea, che viveva accanto ad una sorgente sul monte Parnaso e che fu ucciso da Apollo[4]. O quello che venne ucciso da Cadmo, fondatore di Tebe, e che era anch’esso custode di una sorgente.

Il legame tra i draghi e i tesori è ben documentato anche da una favola di Fedro (I sec. d.C.), evidentemente dedicata agli avari (“gioia degli eredi”, li chiama con ironia):
Una volpe, nello scavarsi la tana, mentre tirava via la terra e spingeva sempre più nel profondo vari cunicoli, arrivò nel recesso più interno della spelonca di un drago, che custodiva tesori nascosti. Non appena lo scorse: “Ti prego anzitutto di perdonare la mia sbadataggine; poi, se ben capisci quanto l’oro non si addica alla mia vita, rispondimi gentilmente: quale frutto ricavi da questo lavoro, ovvero quale ricompensa è tanto grande da privarti del sonno e farti trascorrere la vita nelle tenebre?” “Proprio nessuna – disse – ma questo compito mi è stato assegnato dal sommo Giove”. “Allora non prendi nulla per te e non dai nulla a nessuno?” “Così piace al fato”. “Non adirarti se ti parlo francamente: è nato in odio agli dèi chi è simile a te”.[5].

Il mito del drago come custode di tesori si ritrova anche nelle culture del Nord Europa, ad esempio nel principale testo della letteratura islandese medioevale, l’Edda di Snorri, composta intorno al 1200 da Snorri Sturluson. Vi si narra di Fafnir (in islandese “colui che abbraccia il tesoro”), un nano forte e aggressivo che a causa della sua avidità si trasformò in un drago senza ali.
Otr, fratello di Fafnir e di Reginn, era stato ucciso per errore da Loki. Il loro padre Hreidhmarr aveva ricevuto dell’oro quale risarcimento e i due fratelli ne pretendevano una parte. Ma, come si legge nell’Edda, Hreidhmarr negò loro persino un soldo dell'oro. La decisione dei fratelli fu malvagia: uccisero il padre per l'oro. Poi Reginn chiese a Fafnir di dividere l'oro in parti uguali. Fafnir gli rispose di non illudersi, egli non avrebbe diviso l'oro con il fratello che aveva ucciso il padre per averlo, e ordinò a Reginn di andarsene se non voleva che lo spedisse da Hreidhmarr [..]. [Reginn] dunque, [dovette] fuggir via. Fafnir invece salì su Gnitaheidhr dove si preparò una tana nella quale, trasformatosi in serpe, giaceva sull'oro.
Da "I Nibelunghi" di F. Lang - 1924
Reginn si recò a Thòdh dal re Hialprekr e là divenne suo fabbro. Ivi prese a educare Sigurdhr [..] il più famoso fra tutti i re guerrieri per stirpe, forza e coraggio. Reginn gli rivelò dove Fafnir giaceva sull'oro, istigandolo a cercare il tesoro [..]. Sigurdhr e Reginn si recarono a Gnitaheidhr. Là Sigurdhr scavò una buca lungo la via [percorsa] da Fafnir e vi si nascose. Quando Fafnir strisciò verso l'acqua e passò sulla buca, Sigurdhr gli vibrò [un colpo] con la spada e questa fu la sua morte. Allora venne Reginn e disse che egli aveva ucciso suo fratello e che per rifar pace avrebbe dovuto prendere il cuore di Fafnir e arrostirlo sul fuoco. Poi Reginn si sdraiò, bevve il sangue di Fafnir e si pose a dormire. Quando Sigurdhr pensò che il cuore che stava arrostendo fosse cotto, lo toccò con un dito per sentire se era [ancora] duro. Il sangue del cuore gli colò sulla pelle, egli si scottò e si mise il dito in bocca. Quando il sangue del cuore toccò la lingua, egli [divenne capace di] comprendere il linguaggio degli uccelli e intese ciò che stavano dicendo gli uccellini sull'albero sopra di lui[6].
A Fafnir si ispira senza dubbio la figura del drago Smaug, custode del tesoro usurpato ai Nani e ubicato nelle viscere di Erebor, la Montagna Solitaria. Smaug è stato creato dal genio di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), docente universitario, insigne studioso di filologia e soprattutto autore, tra l’altro, del Signore degli Anelli, un’opera erroneamente considerata un romanzo “di genere” e non, come è, letteratura tout court, e di altissimo livello.
Smaug è così descritto nel romanzo Lo Hobbit (1937), da cui ebbe origine la saga dell’Anello:
Un drago enorme color oro rosso lì giaceva profondamente addormentato, e dalle sue fauci e dalle froge provenivano un rumore sordo e sbuffi di fumo, perché, nel sonno, basse erano le fiamme. Sotto di lui, sotto tutte le membra e la grossa coda avvolta in spire, e intorno a lui, da ogni parte sul pavimento invisibile, giacevano mucchi innumerevoli di cose preziose, oro lavorato e non lavorato, gemme e gioielli, e argento macchiato di rosso nella luce vermiglia.
Le ali raccolte come un incommensurabile pipistrello, Smog giaceva girato parzialmente su un fianco, e lo hobbit poteva così vederne la parte inferiore del corpo, e il lungo, pallido ventre incrostato di gemme e di frammenti d'oro per il suo lungo giacere su quel letto sontuoso. Dietro di lui, dove le pareti erano più vicine, si potevano vagamente vedere appese cotte di maglia, elmi e asce, spade e lance; e c'erano file di grossi orci e vasi riempiti di ricchezze inimmaginabili[7].

Tralasciando in questa sede le diverse classificazioni e tipologie di draghi (con o senza ali, terrestri e/o acquatici ecc.), è invece interessante ricercare il significato del ruolo che essi svolgono, quello di custodi di tesori celati nella terra o nell’acqua.
È stato detto che la vicinanza dei draghi alle acque paludose e la loro uccisione da parte dell’eroe rappresenta la progressiva bonifica di zone malsane da parte delle comunità umane, per destinarle alle coltivazioni. Ed è senza dubbio un buon esempio di spiegazione storicistica di alcuni miti.
Meno riduttivo, ed anche più coinvolgente, è vedere invece nel drago, simbolo presente in quasi tutte le culture umane, l’espressione delle più profonde energie interiori dell’uomo, che custodiscono il tesoro della vita spirituale, la natura umana autentica, il Sé, rappresentato dall’oro o dalle gemme. I draghi “non sono in definitiva che le immagini dei nostri desideri e delle nostre passioni[8], che possono ostacolare la conoscenza e l’accesso al tesoro che è in noi, nelle profondità dello spirito, o, per dirlo in termini più “scientifici”, dell’inconscio (ben rappresentato dalle caverne, dagli abissi oceanici, dai palazzi scavati nel sottosuolo). Il drago, quindi, è sì custode di tali ricchezze, ma può diventarne estremamente geloso, e quindi distruttivo, se si è troppo accondiscendenti nei suoi confronti, ovvero nei confronti delle nostre pulsioni più egoistiche e distruttive.
Ad esempio, l’eroe Sigurdhr, dopo essere stato bagnato dal sangue di Fafnir, comprende il canto degli uccelli, acquisisce cioè una Conoscenza superiore che lo pone in totale armonia con l’universo, al di là della falsa concezione di un Io autonomo e separato dagli altri esseri.
Invece Thorin, il re dei Nani del romanzo di Tolkien, riconquista il tesoro grazie ad uno Hobbit, ma ne è talmente ossessionato che ritroverà la sua dignità solo al prezzo della vita, morendo in battaglia.
La realizzazione dell’autentico Sé (le mele d’oro, il tesoro dei Nani, il centro del labirinto, il ritorno ad Itaca…) passa quindi attraverso la lotta interiore dell’Eroe (Ercole, Bilbo Baggins, Teseo, Ulisse…) contro le proprie ombre, il proprio piccolo Ego. Quindi, la spada, la lancia, la freccia, la clava, le armi che uccidono il drago rappresentano allora la saggezza, la discriminazione, il coraggio, la fede, le virtù etiche.

Rispetto ai miti “pagani”, nei testi cristiani in cui compare il simbolo del drago l’accento viene posto con estrema enfasi sul tema etico della lotta tra il Bene e il Male, dove il drago rappresenta evidentemente le forze del Male.
Il mito più popolare in ambito cristiano è la storia di San Giorgio, narrata anche dal Beato Jacopo da Varagine (Varazze) nella sua Leggenda Aurea, della seconda metà del ‘200. Vi si racconta di un drago che viveva in un grande stagno della Libia, e che terrorizzava gli abitanti del luogo. Essi lo rabbonivano dandogli in pasto pecore e poi, finite le pecore, i loro figli, fino a che venne il turno della figlia del re. A quel punto arrivò un coraggioso cavaliere cristiano. “Il beato Giorgio che per caso passava di là vide la fanciulla piangente e le chiese cosa avesse. E quella: “Buon giovane, risali subito sul cavallo se non vuoi morire con me”. E Giorgio: “Non temere, figlia mia, ma dimmi che cosa fai qui in lacrime sotto gli occhi di tutto il popolo, che ti sta ad osservare dalle mura”. E quella: “Vedo che sei un giovane audace e generoso ma perché vuoi morire con me? Fuggi, fuggi senza più aspettare!”. E Giorgio: “Non me ne andrò sino a che tu non mi abbia detto che cosa stai facendo”. Quando la fanciulla gli ebbe raccontato la sua storia disse Giorgio: “Figlia mia non temere, poiché io ti verrò in aiuto nel nome di Cristo”. E quella: “Buon soldato non voler morire, basta la mia morte!”. Mentre così i due parlavano il drago sollevò la testa dall'acqua del lago onde la fanciulla tutta tremante gridò: “Fuggi, fuggi, mio buon signore!”. Giorgio allora salì sul cavallo e fattosi il segno della croce si gettò sul drago, vibrò con forza la lancia e, raccomandandosi a Dio, gravemente lo ferì. Il drago cadde a terra e Giorgio disse alla giovinetta: “Non aver più timore e avvolgi la tua cintura al collo del drago”. Così ella fece e il drago cominciò a seguirla mansueto come un cagnolino. Vedendola in tal guisa avvicinarsi alla città, tutto il popolo atterrito cominciò a gridare: “Ahimè, ora moriremo tutti!”. Ma il beato Giorgio disse loro: “Non abbiate timore poiché Iddio mi ha mandato a voi onde liberarvi da questo drago. Abbracciate la fede di Cristo, ricevete il battesimo ed io ucciderò il mostro”. Allora il re e tutta la popolazione ricevettero il battesimo; dopodiché Giorgio uccise il drago e comandò che fosse portato fuori della città con un carro tirato da quattro paia di bovi[9].

  In un testo più antico, l’Apocalisse di Giovanni, composto verso la fine del I secolo, il drago non solo è malvagio, ma è il Male, è Satana in persona.
Qui, alla conclusione del Nuovo Testamento, tra angeli, demoni, cataclismi, visioni e profezie, compaiono nel cielo due segni:
Una donna avvolta nel sole, e la luna sotto i suoi piedi e sulla sua testa una corona di dodici stelle, ed è incinta e urla, soffrendo le doglie e tormentata per partorire. E fu visto un altro segno nel cielo, ed ecco un drago, grande, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna e sulle sue teste sette diademi, e la sua coda trascina la terza parte delle stelle del cielo e le gettò sulla terra. E il drago sta dritto di fronte alla donna, che sta per partorire, così da inghiottire, quando partorisca, il figlio suo. E partorì un figlio, un maschio, il quale sta per pascere tutte le genti con bastone di ferro. E fu strappato suo figlio verso Dio e verso il suo trono. E la donna fuggì nel deserto, dove ha là un luogo preparato da Dio, perché là la nutrano per mille duecento sessanta giorni.
E fu guerra nel cielo, il Michele e i suoi angeli a combattere col drago. E il drago combatté e i suoi angeli, e non fu forte né fu più trovato il loro luogo nel cielo. E fu gettato giù il drago, quello grande, il serpente antico, chiamato Diavolo e il Satana, colui che inganna il mondo intero, fu gettato sulla terra, e i suoi angeli furono gettati con lui. E udii una voce grande nel cielo, che diceva: Ora fu la salvezza e la potenza e il regno del nostro Dio e il potere del suo Unto, poiché fu gettato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa di fronte al nostro Dio di giorno e di notte[10].
È interessante osservare che San Giorgio non uccide subito il drago, ma lo rende mansueto e lo uccide solo dopo la conversione dei paesani. Ed anche nell’Apocalisse, più oltre, è detto:
Vidi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’abisso e una catena grande sulla sua mano. E tenne saldamente il drago, il serpente antico, che è Diavolo e il Satana, e lo legò per mille anni e lo gettò nell’abisso e lo chiuse e pose un sigillo su esso, affinché non traviasse più le genti fino a che si compissero i mille anni[11]. E dopo i mille anni, “il diavolo [..] fu gettato nella palude del fuoco e zolfo, dove anche si trovano la bestia e lo pseudoprofeta e saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli[12].
L’avvento della Gerusalemme Celeste non implica la morte del drago, di Satana. Satana, che è stato creato da Dio[13] e quindi non è pari a Lui, non viene però distrutto, bensì gettato nella palude di fuoco, dove “rappresenta la potenza latente racchiusa nella materia” (l’Inferno)[14]. Nei termini con cui si è interpretato il mito: l’inconscio non può essere distrutto, è parte integrante dell’uomo, concorre alla realizzazione della sua natura profonda, a condizione che ne vengano dominate le tendenze distruttive e regressive.

A costo di una certa semplificazione, si può comunque dire che nel Cristianesimo “ufficiale” il drago “è privo di sfumature, è colui che sputa tutte le fiamme dell’inferno: è il nemico assoluto[15]. Il drago è stato incorporato nella letteratura e nell’iconografia cristiana (si pensi alle immagini di Maria che calpesta il serpente o il drago), ma al prezzo di un impoverimento della sua complessa simbologia: “nelle altre culture il drago personifica la Potenza. In quanto tale figurava sugli stendardi assiri, parti, sciti, romani, bretoni[16], sulle prue delle navi vichinghe. Nel Cristianesimo il drago è visto soltanto, almeno apparentemente, come il simbolo di ciò che è opposto al Cristianesimo stesso, il Male, Satana, i “barbari”, i culti “pagani”[17].
In generale, l’Occidente tradizionale rimanda comunque ad una immagine del drago come di un nemico da eliminare, un’icona dell’avversione, della paura e del dolore, anche se oggi, a seguito della globalizzazione delle culture e della desacralizzazione della società, tale immagine è molto cambiata: basti pensare alla diffusione della figura del drago nei giochi, nel cinema per bambini, nei tatuaggi, nella pubblicità ecc.

A questo punto si può introdurre una breve analisi del simbolo del drago nelle tradizioni orientali, in quella cinese per tutte, dove il drago (in cinese lóng, in giapponese ryū) ricopre un ruolo egemone, fino a divenire un vero modello archetipico per l’Oriente, nonché il simbolo stesso del Paese (come lo è il leone per il Regno Unito, l’orso per la Russia, l’aquila calva per gli USA, la tigre per l’India ecc.). Qui l’atteggiamento descritto sopra si rovescia: per la Cina tradizionale il drago rappresenta la vita stessa, “è la forza creatrice e vivificante, il simbolo della potenza imperiale[18]. È intermediario tra il Cielo e l’Imperatore, al quale “trasmette la forza cosmica che consente all’ordine di regnare e alla vita di svilupparsi armoniosamente. Se i ritmi sono dimenticati, se la vita cosmica o sociale è disorganizzata, soltanto l’Imperatore, detentore del mandato celeste, ha il potere di rigenerare la sua forza creatrice e di ristabilire l’ordine[19]. In difetto, il drago gli ritira il mandato del Cielo e l’Imperatore è delegittimato.

Non a caso, il drago è presente già nel primo segno dell’I Ching, l’antico Libro dei Mutamenti, testo fondamentale per le origini delle tradizioni taoista e confuciana. Le sei linee intere che compongono Kkienn, il Creativo, il Cielo, raffigurano infatti sei draghi sovrapposti, sei momenti della manifestazione. Il segno rappresenta, recita il commento, la “forza primordiale luminosa [..]. Il segno è unitariamente forte nella sua natura[20]. Di tale forza creatrice i draghi, che incarnano il principio Yang, costituiscono l’elemento trainante. L’analisi delle singole linee nomina esplicitamente il drago: “Nove all’inizio significa: drago coperto. Non agire”. Nell’inverno il drago si ritira nella terra, è opportuno attendere, con forza e pazienza. Ricompare in primavera, ma non ancora nel pieno della sua forza: “Nove al secondo posto significa: drago che compare nel campo. Propizio è vedere il grand’uomo”. E ancora: “Nove al quinto posto significa: drago volante nel cielo. Propizio è vedere il grand’uomo”: è la sfera della celestialità, dalla quale si influenza tutto il mondo. Ma “Nove sopra significa: drago altezzoso avrà da pentirsi”, ovvero il voler salire troppo isola dagli altri e conduce all’insuccesso. Infine: “Quando compaiono tutti nove questo significa: compare una schiera di draghi senza capo. Salute!”: con tutti nove l’intero segno Kkien si trasforma in Kkunn, il Ricettivo, la Terra; la forza del creativo (i sei draghi) e la mitezza del ricettivo (le loro teste nascoste) si uniscono. Mitezza nell’agire e forza della decisione, questo porta al successo[21].
Anche in Cina il drago è associato all’elemento acqua, nei suoi vari aspetti: mari, fiumi, laghi, nuvole, pioggia… Esso ha il potere di far sgorgare sorgenti, di far cadere la pioggia, arginare le inondazioni[22]. È pratica comune nelle campagne richiamare la pioggia nei periodi di siccità costruendo draghi in legno e carta per porli nei letti dei fiumi nel corso di cerimonie accompagnate da tamburi e invocazioni, oppure lanciando in cielo aquiloni con immagini di drago.
È quindi principio legato alla primavera, alla rinascita della vegetazione, ed anche alla fecondità femminile: secondo alcuni miti, una giovane donna rimase incinta con la saliva di un drago.

Fu Xi e Nuwa
Da un drago ebbe origine il matrimonio: si tratta di Fu Xi, uno dei tre mitici sovrani cinesi, vissuto, secondo la tradizione, tra il 2952 e il 2836 a.C.
Si tramanda che avesse quattro occhi e una coda di serpente; veniva rappresentato sempre allacciato, tramite la coda, alla sorella e sposa Nüwa; lei porta in mano un compasso, lui una squadra. Tali strumenti (che rimandano alla simbologia massonica) indicano che i due sovrani inventarono norme e regole.
A lui vengono attribuite l'invenzione dell’I Ching, della metallurgia, della scrittura, del calendario, della musica. Narra la leggenda che sia nato da un palude, nella quale abitavano i draghi[23].

Se all’associazione drago/acqua si aggiunge l’immagine della barca (già vista nel caso delle navi vichinghe), si perviene intuitivamente ad un altro nesso simbolico: drago/morte. Anche nella cultura cinese la barca è associata alla morte, in quanto mezzo per giungere sull’altra sponda, e molto spesso i battelli cinesi (ed estremo orientali in genere) sono costruiti in forma di drago. Si narra in una leggenda buddhista che una monaca coreana, volendo seguire un monaco in partenza per la Cina su una barca, annegò in mare e si trasformò in un drago che protesse il viaggio del monaco.
Una storia popolare taoista riprende diversi elementi del simbolismo del drago (le acque, l’eroe, la donna, la musica…):
Han Hsiang Tzu, mirabile suonatore di flauto[24], giunse un giorno sulle coste del Mare Orientale, dimora delle bellissime Fanciulle Drago, amanti della musica e del canto. Lì iniziò a suonare un motivo dolce e melodioso che giunse alle orecchie delle Fanciulle Drago. Una di esse, la più bella, la settima figlia del Re Drago, volle conoscere colui che suonava, ma dovendo mantenere segreta la propria identità, si trasformò in anguilla. Si avvicinò alla spiaggia, e ben presto il suo liscio corpo argenteo fu perfettamente visibile. Han Hsiang Tzu non aveva mai visto un'anguilla così strana, che sembrava intendere la sua musica e apprezzarla.
Mia preziosa anguilla – le disse – ho sentito parlare della bellezza della settima Principessa Drago. Portale, ti prego, i miei umili omaggi”.
Quando ricominciò a suonare una dolente melodia l'anguilla prese a mutar forma, sotto lo sguardo stupito del giovane.
Nelle ombre del crepuscolo la vide diventare sempre più grande, finché la sua pelle argentata cadde rivelando una pallida e perfetta carnagione. Così apparve una splendida fanciulla dai folti capelli neri, che restò in assoluto silenzio. Han Hsiang Tzu suonò come non aveva mai suonato ed ella danzò e danzò, finché Han Hsiang Tzu chiuse gli occhi per un breve istante. Quando li riaprì si ritrovò solo: la ragazza era sparita, senza aver mai detto una sola parola. La stessa cosa accadde nelle due sere seguenti.
La quarta sera ella mancò all'appuntamento ormai abituale. Il giovane suonò canzoni d'amore e la chiamò nel buio della notte, ma i suoi sforzi furono vani. Disperato lanciò il suo flauto sulle rocce frastagliate rompendolo in cento pezzi. Poi si accasciò e pianse. Era talmente immerso nel suo dolore che non udì una vecchia venire a lui lungo la spiaggia, e sobbalzò quando lo toccò gentilmente sulla spalla.
Mi spiace di averti spaventato – gli disse – ma ti ho visto piangere e sono venuta per offrirti il mio aiuto. Ascolta quanto ho da dirti, ma non mi fare domande. La Principessa non potrà più tornare, suo padre ha scoperto il suo segreto e l'ha incatenata nelle profondità del suo palazzo. Ma ho un dono per te che potrà consolarti: la Principessa mi ha pregata di darti questo pezzo di bambù immortale”.
Han Hsiang Tzu accettò il dono, da cui ricavò un nuovo flauto in grado di suonare una musica ipnotica che ammaliava chiunque l'ascoltasse. Ma ormai aveva perduto interesse per il mondo umano, e conduceva un'esistenza solitaria nelle caverne di inaccessibili montagne.
Quando alla fine grazie alle pratiche taoiste ottenne l'immortalità, continuò a portare con sé quel flauto, la cui musica aveva il potere di sconfiggere gli spiriti maligni e i demoni, ma che non poté ricondurre a lui la Principessa Drago. Ella aveva infatti sottratto l'immortale bambù dalla foresta del bodhisattva Kuan Yin[25], e come punizione fu costretta a servirla per l'eternità[26].

A questo punto, non si può che fare ritorno nel cielo da cui si è partiti, per ritrovarvi lo stesso Dragone, quale segno fondamentale dello zodiaco cinese. L’astrologia cinese, strettamente collegata alla tradizione taoista, si basa su un calendario ciclico lunisolare: uno dei cicli dura dodici anni[27], e ad ogni anno è associato un animale. Il segno dell’anno rappresenta le modalità con cui si viene percepiti dagli altri; in base al mese, giorno e ora si identificano invece i segni interni, segreti, corrispondenti alla reale essenza della persona.
Secondo uno dei miti fondativi dell’astrologia, gli animali zodiacali furono scelti dall’Imperatore di Giada, il sovrano del Cielo, cui corrisponde sulla terra l’Imperatore della Cina, durante una sua discesa sulla Terra. L’animale più bello, il gatto, non si presentò davanti all’Imperatore di Giada, in quanto il topo gli aveva comunicato in maniera volutamente errata il momento della sua venuta (è il motivo dell’inimicizia tra gatti e topi). Così, il Sovrano portò con sé in cielo i dodici animali da cui fu più colpito: topo, bufalo, tigre, coniglio, drago, serpente, cavallo, capra, scimmia, gallo, cane, maiale. Si tratta, come si vede, di animali realmente esistenti, tranne uno, il drago. Significativo esempio di quanto l’immagine del drago sia stata profondamente assimilata dalla cultura cinese.
Anche il fecondo incontro storicamente avvenuto tra le grandi tradizioni spirituali del Buddhismo e del Taoismo è raccontato in chiave simbolica da un mito astrologico: il Buddha, presentendo la propria fine sulla Terra, chiamò a sé tutti gli animali. Solo dodici accorsero (quinto, il drago), e ad ognuno egli assegnò un anno del ciclo lunare. Anche qui il topo dimostrò la sua astuzia, facendo tutto il viaggio sul dorso del bue, che diligentemente era partito molto presto, per poi precederlo alla fine, saltando a terra fresco e riposato, e si prosternò al Buddha per primo. Per questo l’elenco dei dodici segni inizia sempre con il topo[28].





[1]Virgilio, Georgiche, I 244-246.
[2] A causa della precessione degli equinozi fu poi sostituita da Kappa Draconis e successivamente da stelle della costellazione dell’Orsa Minore. Attualmente è Polaris.
[3] In Igino si trova anche un’altra versione del mito, secondo la quale Ladone fu scagliato in cielo da Minerva durante la lotta con i giganti. Cfr Igino, De Astronomia, II.
[4] Il sito divenne la sede dell’oracolo che, dal nome del drago, fu chiamato Pizia.
[5] Fedro, Fabulae, IV 21. In: http://bachecaebookgratis.blogspot.it/2010/10/fedro-tutte-le-favole-ebook.html#.VpJkC_nhC00
[6] Edda di Snorri, Ed. Rusconi, pag. 183-185. La vicenda di Sigurdhr, a noi più noto come Sigfrido, riveste un ruolo centrale nelle mitologie nordiche, e verrà poi ripresa nell’opera di Richard Wagner, l’Anello del Nibelungo (1848-1874), dove Fafnir compare con il nome di Fafner.
[7] J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, o la Riconquista del Tesoro, Ed. Adelphi, pag. 245-246.
[8] D. Beresniak, Il drago, Ed. Mediterranee, pag. 14.
[9] Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina, pag. 266-267.
[10] E. Lupieri (a cura di), L’Apocalisse di Giovanni, XII, 1-10, Ed. Mondolibri, pag. 51-53.
[11] Id., XX, 1-3, pag. 87.
[12] Id., XX, 10, pag. 89.
[13] Cfr il Catechismo della Chiesa Cattolica, 391, Libreria Editrice Vaticana, pag. 111: “La Chiesa insegna che all’inizio [Satana] era un angelo buono, creato da Dio”.
[14] Beresniak, pag. 65.
[15] Id., pag. 57-58.
[16] Id., pag. 56. Nel testo si parla di “sciiti”, ma evidentemente si tratta di un refuso, in quanto gli Sciiti costituiscono uno dei rami principali dell’Islam.
[17] È però doveroso quantomeno menzionare il fatto che nell’Alchimia occidentale, che è intimamente legata al Cristianesimo (anche se non a quello “ufficiale”), l’immagine del drago è assolutamente centrale. In un testo è detto: “Costituisce una grande meraviglia e una astuzia straordinaria fare del drago la medicina suprema”. Cit. in Beresniak, pag. 40.
[18] Beresniak, pag. 71.
[19] Id. pag. 73-74.
[20] I King, trad. italiana dalla versione tedesca di R. Wilhelm, Ed. Astrolabio, pag. 69.
[21] Tutte le citazioni sono tratte da: I King, pag. 69-74. Le linee procedono dal basso verso l’alto. Il valore 9 indica la linea intera mobile, che diviene quindi una linea spezzata.
[22] Cfr Beresniak, pag. 72.
[23] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Fu_Xi.
[24] È uno degli Otto Immortali del Taoismo popolare, considerato il protettore dei musicisti. Rappresenta l’ideale dell’uomo in totale armonia con il Cosmo.
[25] Come già visto in altre occasioni, si tratta del bodhisattva della Compassione (sanscrito Avalokiteshvara, tibetano Cenresig, giapponese Kannon). Nell’iconografia estremo orientale è spesso raffigurata insieme ad un drago.
[26] Il testo è stato tratto da La Fanciulla Drago e il flauto immortale, in: Kwok Man Ho – J. O’Brien (a cura di), Gli otto immortali del Taoismo, Ed. CDE, pag.89-91.
[27] Un altro ciclo è decennale, e ad ogni coppia di anni è associato un elemento: legno, fuoco, terra, metallo, acqua.
[28] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Astrologia_cinese.


venerdì 15 gennaio 2016

Yin e Yang nel T'ai Chi T'u e nell’I Ching


È detto nel Tao te ching (II), il Libro della Via e della Virtù[1], opera del mitico Lao-tzu (VI sec. a.C.):
Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello; in questo modo si ammette il brutto.
Tutti riconoscono il bene come bene; in questo modo si ammette il non-bene.
Difatti: l’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano l’uno dall’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro[2].

Niente potrebbe rappresentare visivamente quanto sopra esposto meglio del simbolo denominato T’ai Chi T’u, ormai universalmente conosciuto, e spesso semplicemente chiamato “il Tao”, o “Yin e Yang”:

Il nome T’ai Chi T’u (o Taiji Tu) è traducibile come: “Diagramma del Fondamento Supremo”. Infatti il termine T’ai Chi (che è lo stesso che si ritrova nel nome dell’arte marziale nota come T’ai Chi Ch’uan, o Taiji Quan, dove ch’uan = pugno) “si riferisce originariamente al colmo di un tetto, al tronco orizzontale situato alla sommità del tetto dove si incontrano le due parti inclinate[3]. La trave centrale del tetto, quindi l’elemento veramente “supremo” e “fondamentale” di una casa o di un tempio.
Si ritiene tradizionalmente che il T’ai Chi T’u abbia origini preistoriche, ma è comunque un fatto che un simbolo circolare già nell’antica Cina raffigurasse il cielo nella sua metà superiore e la terra in quella inferiore. Nella sua interezza avrebbe rappresentato l’uomo, che è costituito da luminosità ed oscurità ed è il tramite tra il cielo e la terra.
Nella sua forma più nota – che richiama alla mente i mandala indiani ed analoghi simboli circolari appartenenti ad altre culture – il T’ai Chi T’u è composto da due figure a forma di pesce all’interno di una circonferenza. La figura nera, che rappresenta la condizione di riposo, è detta Grande Yin; l’altra, bianca, il Grande Yang, rappresenta il movimento. All’interno di ogni porzione si trova un cerchio di minori dimensioni, di colore opposto, una sorta di “occhio del pesce”: quello nero è il Piccolo Yin, quello bianco il Piccolo Yang. Questo significa che “ciascuna delle due polarità, lo Yin e lo Yang, contiene entro di sé il suo proprio opposto, da cui origina continuamente in un ciclo uniforme senza fine[4].
Il filosofo Chou Tun-I (1017-1073) scrisse a questo proposito nella sua opera T’ai Chi T’u Shuo (La Spiegazione del Diagramma del Fondamento Supremo):
Il Fondamento Supremo, attraverso il movimento, produce lo yang. Questo movimento, una volta raggiunto il suo limite, produce la quiete. Per mezzo della quiete Esso produce lo yin. Quando la quiete raggiunge il suo limite vi è un ritorno al movimento. Per questo, movimento e quiete divengono alternativamente l’uno la sorgente dell’altro. In questo modo la distinzione fra yin e yang viene a determinarsi rivelando le loro due rispettive forme[5].
Il simbolismo del T’ai Chi T’u è quindi l’espressione visiva della concezione della polarità Yin/Yang più volte citata. In effetti, i due spioventi del tetto, di cui la trave T’ai Chi è il colmo, rimangono alternativamente esposti alla luce e all’ombra, passando gradualmente dall’una all’altra col trascorrere delle ore, dal mattino al mezzogiorno alla sera, rappresentando così l’aspetto yang e quello yin che si scambiano e si trasformano vicendevolmente l’un l’altro. Così come accade per i versanti di una montagna, ora soleggiati, ora all’ombra.
Nella concezione taoista, che il diagramma sintetizza visivamente, yin e yang sono “le due opposte manifestazioni del Tao, [..] che possiedono una valenza universale e trovano applicazione nei fenomeni cosmici come nelle funzioni del corpo umano[6]. Infatti, come già visto per l’India, anche qui vale il principio dell’analogia tra ciò che è in alto e ciò che è in basso, tra il Cosmo e l’Uomo – principio classico nelle culture tradizionali, al di là delle distinzioni tra Occidente e Oriente.
Così, il cielo e i monti sono yang; la terra, le valli, le acque sono yin. Il giorno, un tempo limpido, il maschile, lo spirito, sono yang; la notte, la luna, il tempo tempestoso, il femminile, il corpo, sono yin. E all’interno del corpo, le arterie e l’espirazione sono yang; le vene e l’inspirazione sono yin.
Il movimento è yang, principio attivo, forza creativa; il riposo è yin, il passivo, la forza ricettiva.
Yin e Yang, i “Due Grandi Poteri”, rappresentano quindi per il Taoismo la sostanza originaria nella sua differenziazione, due aspetti inseparabili di un’unica forza, una polarità che non è però una dualità assoluta. “Dal momento che ogni cosa in questo mondo manifesto [..] nasce dal rapporto tra i due estremi polari [..], prima sollecitudine della vita umana è proprio la loro comprensione e la loro conservazione in uno stato di equilibrio e armonia[7].
Non si deve pertanto pensare la relazione tra le due polarità in termini di antagonismo (come ad esempio Male/Bene), bensì di complementarietà, di interazione, di cooperazione, anche se talvolta l’una esclude l’altra (es. luce/tenebre), ma sempre all’interno di una concezione ciclica dell’esistenza. In altre parole, yin e yangsi autodefiniscono a vicenda da un punto di vista formale e strutturale ma si alternano dal punto di vista temporale poiché, quando uno dei due poli raggiunge il massimo, può solo declinare e trasformarsi nell’opposto[8].
Si dice infatti nel Tao te ching (XL): “Il ritorno è il movimento della Via[9].

Il modello yin/yang esprime quindi una visione unitaria del Tutto, fondata sulle due polarità. Polarità non significa però separazione, la quale è invece l’effetto di un pensiero dualista, dicotomico. Ciò che il modello esprime è una tensione costante verso l’equilibrio e l’armonia, che costituisce il fondamento della cultura tradizionale cinese.

È questo un punto centrale del pensiero e della pratica del Taoismo, il quale “riconosce che gli opposti sono necessari alla vita e al reciproco miglioramento ma insegna che tutto è relativo e impermanente. Esso invita a superare le opposizioni, a evitare gli estremi. Propone un pensiero integrato, non-duale, che conduce verso la visione olistica, globale e unitaria della realtà. Verso l’integrazione e non la separazione[10].

L’ideogramma “Tao” (Dao, in giapponese Do), la Via, esprime e chiarisce il pensiero:

Esso è composto da due parti: una, chuò (camminare), raffigura un piede che lascia delle orme:

.L’altra parte, shou (testa), è a sua volta composta da due elementi: (occhio), ovvero ciò che rende riconoscibile un volto, la consapevolezza di sé:

E, sulla sommità, due segni che richiamano delle ciocche di capelli raccolti sul capo, così come erano portati da persone di alto rango:
.
Nell’insieme, il Tao, la Via, “raffigura una persona speciale perché ha una piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto, lasciando delle tracce per chi intende seguire lo stesso sentiero[11].

Tao è dunque la Via, è metodo, disciplina, dottrina. Ma Tao dal punto di vista metafisico, cosmologico, è Principio generatore e regolatore, sostrato dell’Universo, tuttavia impossibile da definire, da descrivere, da concettualizzare, come è evidente già nei primi versi del Tao te ching (I):
Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao
il nome che può essere nominato non è l’eterno nome
il senza nome è l’inizio del cielo e della terra
il nominato è la madre di tutte le cose[12].

Più oltre, nel capitolo XLII, si legge:

Il Tao produsse l’uno / l’uno produsse il due / il due produsse il tre / e il tre produsse tutti gli esseri[13].

Il che ci conduce a parlare del più antico testo cinese nel quale siano espressi i principi cosmologici che sottostanno al Diagramma del Fondamento Supremo, ovvero il famoso I Ching, il Libro dei Mutamenti.
Si trattava in origine di un testo oracolare, una raccolta di segni utilizzati come oracoli dagli uomini di Stato, che risale ad oltre 3000 anni or sono (già nel 1143 a.C. l’imperatore Wen ne scrisse un commento). Nel tempo acquisì sempre maggiore importanza anche e soprattutto dal punto di vista filosofico-religioso, e divenne oggetto di studi e di commentari da parte dei più grandi maestri di tutte le scuole di pensiero, taoiste e confuciane, a partire da Lao-tzu e Confucio stessi.
Fino ad essere studiato e commentato in tempi recenti (1948) dal più volte citato Carl Gustav Jung, che scrisse la prefazione all’edizione inglese dell’opera[14].
In verità, nell’I Ching non compare il diagramma del T’ai Chi T’u, ma in una appendice, aggiunta al più antico testo base, è detto:
Per questo vi è nei mutamenti il grande inizio primordiale [il T’ai Chi]. Questi genera le due forze fondamentali. Le due forze fondamentali generano le quattro immagini. Le quattro immagini generano gli otto segni[15].
Si tratta dello stesso processo visto nel già citato cap. XLII del Tao te ching: il T’ai Chi genera le due polarità, che saranno poi chiamate yang e yin e che nell’I Ching sono rappresentate da due linee, una intera e una spezzata.
Per raddoppiamento ne nascono le Quattro Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea, gli Otto Segni (trigrammi), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti come “cose” definite, ma come “stati” transitori di ciò che accade in cielo e in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila Cose: gli otto segni si ampliano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), che nell’I Ching vengono raccolti e affiancati da altrettante “sentenze”, da “immagini” e da dettagliati commentari che interpretano ogni esagramma ed ogni singola linea che lo compone, in base alla loro reciproca relazione, alla posizione all’interno del segno, alle loro qualità ecc.

Mentre i trigrammi rappresentano concetti, condizioni, cose, gli esagrammi introducono “il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione[16].


Come si vede, l’idea fondamentale che sottostà all’I Ching è quella del mutamento, della trasformazione vicendevole delle due forze fondamentali, yin e yang, l’una nell’altra. Il titolo stesso dell’opera rende esplicita tale visione: I (o yi), come aggettivo, indica ciò che è facile, agevole; come nome, esprime il processo del mutamento: “non v’è niente di più facile del mutamento, in quanto esso è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il principio della propria trasformazione[17].
Infatti, anche gli esagrammi non sono entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di una linea in quella opposta, può (può, non: deve) mutarsi in un altro, ma in maniera né casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle linee.
Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo, la Terra, il tardo autunno, attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma nell’esagramma Fu, il Ritorno, il tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno della luce:

2 - Kkunnn, il Ricettivo

24 - Fu, il Ritorno
Infine, un’ultima analogia che non può sfuggire alla mente: quella tra l’I Ching e il gioco degli scacchi (che si muovono su una base con 64 riquadri, quanti sono gli esagrammi), nel quale basta spostare un solo pezzo per modifica tutto l’insieme, “bloccando determinate possibilità d’azione ed aprendone altre, indebolendo o rafforzando una tale o una talaltra posizione[18].

In questo contesto, il saggio, il santo, l’illuminato, sarà quindi colui che vive ed opera in totale unità ed armonia con il Tao e con le sue trasformazioni:

Egli risponde ai mutamenti e si piega al movimento del tempo, agendo al momento opportuno e adattandosi alla situazione. Attraverso mille movimenti e diecimila mutamenti, il suo Tao resta uno”.

E poiché “ogni cosa ha radici e rami, gli eventi non finiscono che per ricominciare. Conoscere il buon ordine di successione delle cose equivale ad esser vicini al Tao[19].




[1] Lo si può anche trovare con il titolo Tao te King, Tao-teh Ching, Dao De Jing ecc., a seconda del metodo di translitterazione utilizzato. E la traduzione è altrettanto variabile: il Canone del Tao e del suo Carisma, il Libro del Tao e della Virtù ecc.
[2] J.J.L. Duyvendak (a cura di), Tao te ching, Ed. Adelphi, pag. 31.
[3] Da Liu, Tai Chi Chuan e meditazione, Ed. Ubaldini, pag. 27.
[4] Id., pag. 12.
[5] Cit. in: Da Liu, pag. 13.
[6] Da Liu, pag. 10.
[7] J.C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Ed. Ubaldini, pag. 13.
[8] V. di Ieso, Taoismo in uno sguardo, Ed. Vozza, pag. 20. L’A., Vincenzo di Ieso, è Ecclesiasta Taoista, iniziato nel 1993, 14° generazione, della Scuola Xuan Wu Pai di Wudang, dal G.M. Rev. Wang Guangde con il nome Li Xuan Zong ed il titolo religioso di Chuanfa Huchi, “Discepolo che protegge e diffonde l’Insegnamento Taoista”. Si veda il sito Internet della Chiesa Taoista d’Italia, in: http://www.daoitaly.org/index.html.
[9] Tao te ching, cit., pag.104.
[10] Di Ieso, cit., pag. 21.
[11] Id., pag. 31.
[12] Paolo Siao Sci-Yi (a cura di), Tao Te King, Ed. Laterza, pag. 25.
[13] Tao te ching, cit, pag. 100.
[14] Si veda l’edizione italiana basata sulla versione tedesca del 1923 di R. Wilhelm, in: B. Veneziani e A.G. Ferrara (a cura di), I King, Ed. Astrolabio.
[15] I King, cit., pag. 583.
[16] Cooper, cit., pag. 57.
[17] A. Cheng, Storia del pensiero cinese – Vol. I, Ed. Einaudi, pag. 277.
[18] Id., pag. 283.
[19] Entrambe le citazioni sono tratte da Cheng, cit., pag. 291.


venerdì 1 gennaio 2016

La Parola e le parole

Gennaio, il mese dell’apertura delle porte (ianua), dedicato al dio Ianus, Giano bifronte, custode delle porte e dei ponti, colui che guarda al futuro e al passato, all’interno e all’esterno.
Ed ecco allora un testo la cui lettura può contribuire ad aprire le menti e a gettare dei ponti, a superare la cultura delle mura, delle identità. 
A partire da noi stessi, a qualsiasi tradizione o ideologia si pensi di appartenere. Come se dei provvisori aggregati di energia quali noi siamo, aggrappati ad un Io effimero ed insostanziale lanciato nel vuoto a 107mila km/h, potessero davvero “appartenere” a qualcosa che non sia il puro ed indeterminato Essere.


Nel settembre 2008, nel corso di un viaggio apostolico in Francia, Papa Benedetto XVI tenne un importante discorso nella sede del Collège des Bernardins, sul tema delle radici della cultura europea.
Partendo dalla vera motivazione della scelta della vita monastica nell’età medioevale, cioè quaerere Deum, osserva come la ricerca di Dio, la Via della Parola, comprenda in sé necessariamente l’amore per le parole, l’eruditio nel senso autentico del termine, che non è mera conoscenza intellettuale ma formazione alla comprensione della Parola tra le parole.
Ed evidenzia altresì come la riflessione e la lettura della Parola siano per i monaci attività non solo della mente ma del corpo intero e dell’intero spirito. E quindi come gli atti della preghiera e del canto debbano essere svolti nel modo giusto, per “corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza” – bellezza come Armonia, dunque.

Il testo è stato tratto dal sito Internet della Santa Sede alla pagina:
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2008/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20080912_parigi-cultura.html

"Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea.
Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?

Il Collège des Bernardins di Parigi
Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua.
Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).
E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio.
Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità.
Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.

Icona di Paolo, di Andrej Rublev
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’“ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua Regola, del lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17).
Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita.
Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Il Logos, la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne.
Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura." 

Bernardo di Chiaravalle