domenica 10 agosto 2014

Altre rivelazioni estive su Gandhi

Nello stesso giorno del precedente intervento, 4 agosto 2014, sul quotidiano la Repubblica è comparso un testo di Arundhati Roy (nt. 1961), scrittrice indiana, autrice tra l’altro del romanzo “Il Dio delle piccole cose”. Il testo è un estratto dell’introduzione scritta da Arundhati Roy al saggio “L’eliminazione delle caste” di Bhimrao Ramji Ambedkar (1891 – 1956) politico, filosofo, antropologo, storico, oratore, economista, editore, rivoluzionario e revivalista per il buddhismo indiano. Il saggio di Ambedkar sarà pubblicato nei prossimi mesi in Gran Bretagna e negli USA.

In attesa di leggere per intero l’introduzione, e soprattutto il saggio di Ambedkar, ci si può per ora accontentare delle “rivelazioni” della romanziera indiana sulla figura di Gandhi nei suoi rapporti con le caste e con i fuori-casta, gli Intoccabili.

Arundhati Roy
Per separare la questione delle caste dall'economia politica, dal tema delle condizioni di schiavitù in cui la maggior parte dei Dalit, o Intoccabili, vivevano e lavoravano, e per elidere le questioni del diritto all'assistenza, delle riforme agrarie e della redistribuzione della ricchezza, i riformatori hindu restrinsero abilmente la questione delle caste all'intoccabilità. La inquadrarono come una pratica religiosa e culturale sbagliata che doveva essere riformata.
Gandhi la restrinse ancora di più alla questione dei bhangi, o "spazzini", come amava chiamarli, comunità prevalentemente urbana e quindi in qualche modo politicizzata. Dalla sua infanzia, ripescò il ricordo di Uka, il giovane "spazzino fognario" che aveva il compito di pulire le latrine di casa sua.
Gandhi raccontò spesso di come il trattamento di Uka da parte della sua famiglia lo avesse sempre messo a disagio. Nelle zone rurali, gli Intoccabili (braccianti, vasai, conciatori e le loro famiglie) vivevano in piccole comunità sparse, nelle loro baracche ai margini dei villaggi (a una certa distanza di sicurezza anti-contaminazione). In città, gli Intoccabili — i bhangi, i chuhra e i mehtar — vivevano, invece, in gruppi numerosi e di fatto formavano una realtà politica. Per dissuaderli dal convertirsi al cristianesimo, Lala Mulk Raj Bhalla, un riformatore indù della casta punjabi dei Khatri, nel 1910 li ribattezzò chiamandoli collettivamente balmiki.
Gandhi puntò ai balmiki per mettere in evidenza il tema dell'intoccabilità. Mise in atto nei loro confronti i suoi gesti missionari di bontà e di carità. Predicò loro come amare e come rimanere fedeli alla loro eredità culturale, come non aspirare mai a nulla che andasse oltre le gioie della loro occupazione ereditaria. Per tutta la vita, Gandhi ha scritto molto sull'importanza del "pulire le latrine" come un dovere religioso. Sembrava irrilevante il fatto che nel resto del mondo la gente si occupasse dei propri escrementi senza elaborarci sopra tante storie.
In un discorso pronunciato l'8 gennaio 1925 a Bhavnagar, alla conferenza politica del Kathiawar, Gandhi disse: «Se c'è una posizione che mi piacerebbe occupare questa è quella dei bhangi. Pulire le lordure è un lavoro sacro che può essere svolto tanto da un bramino quanto da un bhangi, sebbene il primo sia conscio della santità di quanto sta compiendo e il secondo no. Li rispetto e li onoro entrambi. In assenza di uno o dell'altro, l'induismo sarebbe destinato all'estinzione. Poiché mi piace la via del servizio, mi piace il bhangi. Non ho nulla in contrario personalmente a condividere con lui il mio pasto, ma non vi sto chiedendo di fare lo stesso o di sposarvi con lui. Come potrei mai dirvi io cosa fare?».
L'attenzione di Gandhi nei confronti dei balmiki, e le sue visite ampiamente pubblicizzate agli insediamenti dei bhangi, furono fruttuose per lui, nonostante il fatto che li trattò con condiscendenza e disprezzo. Quando si trattenne in uno di questi insediamenti, nel 1946, «metà dei residenti fu mandata via prima del suo arrivo, le loro baracche furono demolite e sostituite con piccole capanne pulite. All'ingresso e alle finestre delle capanne misero delle stuoie, che, per tutta la durata della visita di Gandhi, furono spruzzate d'acqua per mantenere freschi gli ambienti. Il tempio locale era stato imbiancato ed erano stati disposti nuovi sentieri di mattoni». In un'intervista con Margaret Bourke-White, una fotoreporter della rivista Life, uno degli uomini incaricati di organizzare la visita di Gandhi, Dinanath Tiang della società Birla, spiegò così i miglioramenti apportati nella colonia degli intoccabili, «Ci occupiamo della comodità di Gandhi da vent'anni».
Nella sua storia dei lavoratori balmiki a Delhi, lo studioso Vijay Prashad dice che quando Gandhi inscenò le sue visite alla colonia balmiki di Mandir Marg (allora Reading Road) nel 1946, si rifiutò di mangiare con la co munità: «Potete offrirmi del latte di capra», disse, «ma io ve lo pagherò. Se invece volete che io mangi del cibo preparato da voi, potete venire qui e cucinare per me le mie provviste». I più anziani tra i balmiki ricordano alcuni episodi dell'ipocrisia di Gandhi, ma sempre manifestando un senso di disagio. Quando un Dalit offrì delle noci a Gandhi, lui le diede da mangiare alla sua capra, dicendo che le avrebbe mangiate più tardi, nel latte di capra. La maggior parte delle provviste di Ghandi, le noci e i cereali, veniva fornita da Casa Birla; non li prendeva dai Dalit. I balmiki più radicali si rifugiarono così nel pensiero di Ambedkar, che affrontava apertamente Gandhi su questi temi.



Per rimanere in tema, può anche essere interessante la lettura di quanto scrisse su Gandhi uno dei maggiori indologi del mondo, il francese Alain Daniélou (1907 – 1994), fratello del cardinale Jean Daniélou. Nella sua “Storia dell’India”, pubblicata in Italia da Ubaldini nel 1984, Daniélou parla di Gandhi in maniera estremamente critica, definendolo “un personaggio enigmatico, astuto e ascetico, ambizioso e devoto, uno di quei guru che sembrano esercitare un incredibile magnetismo sulle folle e che spesso le portano alla rovina.” Fu con Gandhi che “il governo britannico decise dell’avvenire dell’India, il più disastroso che si potesse immaginare, dal momento che si arrivò alla divisione del paese, a uno dei più grandi massacri della storia, all’eliminazione del sistema sociale e della cultura tradizionale, alla soppressione della casta dei principi, al genocidio delle tribù primitive, alla rovina delle caste artigianali e alla loro trasformazione in un miserabile proletariato. Tutto ciò presentato come un progresso.


Alain Daniélou
Gandhi proveniva dal una casta di mercanti, che Daniélou definisce come estremamente puritani, privi di cultura filosofica e di preoccupazioni metafisiche, grossolanamente religiosi e disonesti in tutte le questioni di denaro. A motivo delle sue origini, il Mahatma “ebbe sempre l’appoggio incondizionato del grande capitale indiano (i Birla, i Tata)". Per questo "le riforme sociali che egli intraprese finirono sempre per giovare alla borghesia commerciante e ai possidenti terrieri.” In tal modo la politica del Congresso, il partito cui Gandhi apparteneva, e che era formato da Indiani di educazione e di ideologia anglosassone, portò al trionfo della casta dei commercianti, industriale e capitalista. La copertura di apparenza religiosa fornì al partito l’appoggio delle masse indiane. Quella di Gandhi (o di Tagore) era secondo Daniélou soltanto “anglofilia mascherata all’indiana”. Il suo travestimento “in sant’uomo era solo una maschera abilmente sfruttata per far credere al mondo esterno che egli rappresentasse gli Hindu.”


Per approfondire il pensiero di Danélou sull’India si possono leggere, oltre alla citata “Storia dell’India”, i volumi “Yoga: metodo di reintegrazione” e “Siva e Dioniso”, tutti pubblicati da Ubaldini Editore.




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