Quel grande studioso dell’Oriente che fu Giuseppe Tucci (1894-1984) scrisse in
un suo libro del 1949: “Gli Indiani non
hanno concepito la vita come una lotta fra il bene ed il male, la virtù e il
peccato, ma come opposizione fra [..la]
coscienza luminosa ed il suo contrario, la psiche e il subconscio che essi
chiamano maya”[1].
Maya, ovvero l’illusione magica[2]
che fa apparire come realmente esistenti “i
fenomeni e le loro differenziazioni di ordine nominale e formale”[3].
Maya, “il velo che copre la vera essenza del Brahman così che gli uomini non
riescono a distinguere la fondamentale unità del cosmo e restano ingannati
dalla molteplicità del mondo fenomenico”[4].
La coscienza divina nella quale “non esisteva un io contrapposto a un non io
[..] si offusca”[5].
A causa del velo di maya il Supremo
Essere non riconosce più che soggetto ed oggetto sono identici e si costituisce
così l’io-individuo, racchiuso nelle sue corazze, i cinque kosha (involucri): il corpo fatto di cibo (annamayakosha); la forza vitale, fatta dei soffi che lo abbandonano
alla morte (pranamayakosha); la
mente, fatta di passioni, di emozioni, di volizioni (manomayakosha); l’intellezione, la conoscenza ordinaria (vijñanamayakosha); il corpo di
beatitudine (anandamayakosha),
raggiungibile in certi stati mistici o estatici, ma pur sempre impermanenti, e
che non possono quindi essere l’Atman,
quella più intima essenza che solo la forza di maya fa sì che vediamo come distinta dal Brahman, l’Assoluto non-differenziato.
“L’uomo
è sì coscienza decaduta nel tempo e nello spazio, offuscata, ma la liberazione
[da maya, dall’ignoranza-avidya] dipende da lui medesimo”[6]:
per l’India non esiste alcun Salvatore. I Buddha, gli Avatara, i Guru, possono
solo indicare la Via, non percorrerla al posto dell’uomo. La Conoscenza che
libera (Vidya) è il frutto di una
personale, lunga, faticosa ascesi. E non si tratta di una conoscenza logica,
intellettuale, concettuale, fondata sull’accumulo di nozioni. Questa può essere
al più uno strumento preparatorio – talvolta è invece un ostacolo. “La vera conoscenza [..] è esperienza”[7]
– dice Tucci, che aveva una comprensione diretta, empirica, di ciò di cui
parlava – alla quale si adegua l’azione; è Conoscenza che trasforma la vita,
che espelle l’ignoranza innata, lacera il velo di maya che offusca la Coscienza divina. Tale Conoscenza è nelle
potenzialità dell’uomo: l’uomo è della stessa essenza di Shiva, dicono le
scuole Shaiva; e vi è identità tra i
Buddha e gli esseri, nei quali è già presente il Tathagatagarbha, la natura di Buddha, secondo il Buddhismo Mahayana.
Uno dei mezzi che la plurimillenaria
storia della spiritualità indiana ha messo a disposizione dell’uomo per
aiutarlo nel suo cammino di liberazione dall’ignoranza e quindi dalla
sofferenza è il mandala, visiva rappresentazione schematica del processo di
dis-integrazione nell’illusoria pluralità fenomenica e strumento di
re-integrazione nell’Uno.
Secondo quanto si legge
nell’indispensabile Dizionario del
Buddhismo di Philippe Cornu, il termine sanscrito mandala significa, alla lettera, “la schiuma che si forma alla superficie dell’acqua di cottura del riso”[8]
(manda) e la sua estrazione (la).
Nell’ambito delle tradizioni hindu e buddhiste mandala indica il “centro”, un “contenuto interiore” (manda, visto qui come quintessenza di
ogni cosa), circondato da un elemento che lo racchiude (la). In pratica, si tratta di “un
cerchio che isola una particolare superficie della zona circostante e che, una
volta consacrato, risulta purificato per scopi rituali e liturgici”[9].
Ad una prima osservazione un mandala a due dimensioni è un complesso
diagramma circolare, suscettibile di numerosissime variazioni.
Fondamentalmente è composto da un margine
circolare che racchiude un quadrato diviso in quattro triangoli. Al centro di
ogni triangolo e nel cerchio più piccolo al centro del mandala è rappresentata una divinità, anche in modo simbolico, ad
esempio con lettere sanscrite[10].
I mandala
possono essere dipinti su legno, carta, pietra, tela, oppure tracciati sul
terreno o su altri supporti con sabbie colorate.
|
Il Borobudur |
Tale struttura va osservata anche in
un’ottica tridimensionale: infatti un tempio hindu o uno stupa
buddhista, se visti dall’alto, raffigurano, anzi sono, un mandala. Ne è un classico esempio il Borobudur di Giava.
Ma il mandala
non è un’opera d’arte – sicuramente non nel senso dell’estetica occidentale – e
non è nemmeno soltanto uno spazio consacrato e dedicato ai riti. Come scrive
Tucci, “è di fatto un cosmogramma, è l’universo intero nel
suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e riassorbimento”[11],
quindi esso è l’intero processo della manifestazione, in senso sia spaziale che
temporale.
Ma un mandala
è ancora qualcosa di più di una mera descrizione del processo cosmogonico: è in
realtà, detto ancora con le parole di Tucci, uno “psicocosmogramma”: creare, utilizzare (e distruggere) il mandala nella pratica religiosa,
ovviamente secondo modalità molto precise, significa avere accesso all’essenza
delle percezioni fenomeniche, tornare a quel “centro” che per il buddhista è la
mente di saggezza, bodhicitta, la
Natura di Buddha, e per un hindu è
l’unione con Dio, il samadhi,
identificazione di soggetto e oggetto. Ovvero, per entrambi, liberazione,
risveglio.
È un “rifluire
delle esperienze della psiche alla concentrazione, per ritrovare l’unità della
coscienza, raccolta e non distratta, e per scoprire il principio ideale delle
cose”[12].
Come risulta evidente, i mandala non sono frutto né di scelte
razionali né di casuali fantasie umane. Non sono l’effetto “di un’arbitraria costruzione, ma il riflesso
[..] di intuizioni personali; per virtù quasi nativa, lo spirito umano traduce
visibilmente l’eterno contrasto tra la luminosità essenziale della sua
coscienza e le forze che la occultano”[13].
Gli schemi, il centro, i petali, le forme geometriche, i colori, tutti gli
elementi dei mandala non sono tali
sulla base di astratte teorie teologiche – meno che mai estetiche. Al
contrario, è l’introspezione dei praticanti che li ha scoperti – rivelati, si
può dire –, ne ha fissato le regole, i modelli e le misure, li ha classificati
limitando la spontaneità delle visioni. In tal modo il mandala diviene “a sua volta
sussidio di meditazione, strumento esterno per suscitare e stimolare nel
raccoglimento quelle visioni”[14].
Ma, come si evince da quanto detto, il mandala non è solo un oggetto esterno,
costruito e utilizzato dal praticante come altro-da-sé. Partendo dal punto di
vista dello Yoga e di altre
tradizioni, non solo orientali[15],
secondo cui macro e micro-cosmo, Universo e corpo umano, sono tra loro
analoghi, al mandala esterno
corrisponde il mandala interno, nel nostro
corpo, che contiene in sé gli stessi simboli viventi, gli stessi dei. Un
esempio tra molti: il centro del mandala
corrisponde nel corpo umano al brahmarandhra,
la cavità sulla sommità del capo tra le due ossa parietale e occipitale (la
c.d. “fontanella”). Lì si trova una estremità di sushumna nadi, il canale di energia mediano che attraversa il corpo
lungo la colonna vertebrale, vero e proprio axis
mundi attorno al quale si distribuiscono i centri di energia sottile (chakra), così come i vari piani celesti
della cosmologia indiana sono disposti intorno al mitico monte Sumeru.
A conclusioni fondamentalmente identiche
pervenne in Occidente, per vie diverse ma non così lontane tra loro, lo
svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961),
uno dei padri della psicoanalisi. In seguito alla rottura con Sigmund Freud
(1856-1939), Jung entrò in un periodo di profonda crisi, da cui cercò di uscire
confrontandosi con l’inconscio, anche per mezzo della pittura. Notò così che
stava creando immagini simmetriche e regolari che in seguito identificò come mandala. Soprattutto capì “che quelle figure non erano altro che
immagini della completezza della personalità”[16],
nelle quali vedeva all’opera ciò che gli chiamava il Sé, ovvero l’intero suo
essere.
|
Un "mandala" di C.G. Jung |
All’introspezione personale Jung affiancò
lo studio dei testi e delle dottrine orientali, interpretandone i miti e i
simboli dal punto di vista della nascente psicoanalisi. Capì così che i mandala che comparivano nei suoi disegni
e nei sogni e nelle fantasie di molti suoi pazienti[17]
non erano immagini esterne bensì interiori, fenomeni universali archetipici,
una sorta di “mappe”, di ideogrammi di contenuti inconsci.
Tali mappe costituiscono una guida delle
strutture – cosmologiche e psicologiche, del mondo divino e di quello mentale –
entro cui il praticante percorrerà la sua Via. In tal senso, come intuisce
Jung, il vero mandala non è quello
visibile, dipinto su una pelle di yak o su una tavola di legno, bensì quello
interiore. Il suo scopo è quello di fungere da supporto per le pratiche
meditative di colui che contemplando i “processi
rappresentati nel mandala [prende] coscienza
della divinità, [si riconosce] egli
stesso come dio ed [esce] dall’illusione
dell’unicità individuale per ritornare all’universale totalità dello stato
divino”[18].
Come si vede, mentre Freud valutava la
religione in termini patologici, come una sorta di nevrosi dell’umanità, Jung “non considerava le credenze e le pratiche
religiose fantasie superstiziose o stravaganti né curiosità etnologiche, ma
piuttosto manifestazioni di una predisposizione universale, inconscia”[19],
che esprimono l’universale bisogno umano di totalità.
Restando ancora per un istante nell’ambito
delle tradizioni spirituali dell’Occidente, è inoltre possibile trovare
somiglianze strutturali e funzionali tra il mandala
ed il labirinto. Il labirinto
rappresenta infatti una “discesa agli inferi”, una sorta di “morte iniziatica”
seguita da una “resurrezione” dell’adepto, interiormente rinnovato, purificato.
Non a caso il labirinto ricorda da vicino la struttura anatomica del cervello
umano (e dell’intestino, al quale il cervello stesso è strettamente correlato).
Lo yantra
Nei loro scritti sul mandala Tucci, Jung e molti altri fanno soprattutto riferimento
alla tradizione buddhista, in particolare alle scuole tibetane (il Vajrayana, il Buddhismo tantrico,
esoterico). Ma dei mandala si fa
largo uso anche nell’Induismo (d’altra parte, l’origine del mandala è indiana), ad esempio nelle
scuole tantriche del Kashmir, di tradizione shivaita.
In questo caso si parlerà allora, più
precisamente, di yantra, che rappresenta lo schema essenziale del mandala. Lo yantra è infatti un diagramma lineare, nel quale le immagini delle
divinità vengono sostituite con i mantra (cioè i fonemi)[20]
corrispondenti, oppure con combinazioni di triangoli o con fiori di loto che
riportano sui petali i caratteri sanscriti con i fonemi delle divinità.
“Ciò
avvenne soprattutto – spiega Tucci – per
causa di una intransigenza e quasi ritrosia a rivelarsi che invase le scuole
misteriosofiche scivaite e shakta dell’India medievale cui ripugnava mostrare
ai non iniziati l’immagine delle deità”[21].
Il termine sanscrito yantra è composto dal
suffisso –tra, che si usa nella
formazione di parole indicanti strumenti[22],
e da yam, verbo che significa
dominare, sottomettere, “ottenere il controllo dell’energia insita in un
elemento o in un essere”[23].
Uno yantra è quindi uno strumento “atto a fornire energia per uno scopo
definito dalla volontà umana”[24].
Una diga per canalizzare le acque è uno yantra.
In ambito religioso, una statua del dio o un suo dipinto sono yantra, in quanto mezzi di devozione.
Più precisamente, possiamo dunque dire con
le parole di Heinrich Zimmer che “lo
yantra è uno strumento che serve a controllare le forze psichiche
concentrandole su di un motivo geometrico, in modo tale che il motivo venga riprodotto
dalla capacità di visualizzazione dell’adorante. È una macchina per stimolare
visualizzazioni, meditazioni ed esperienze interiori. Un dato motivo può
suggerire una visione statica della divinità da adorare, della presenza
sovrumana da realizzare, oppure può produrre una serie di visualizzazioni che
procedono e si sviluppano l’una dall’altra come momenti o fasi di un processo.
Quest’ultimo
tipo di yantra è il più ricco e interessante, ed è quello che richiede il
maggiore impegno dall'iniziato. Opera in due direzioni: prima in avanti, come
un movimento evolutivo, poi indietro, come processo di involuzione che annulla
le visioni precedentemente sviluppate. In altre parole esso riproduce in
miniatura gli stadi o aspetti della manifestazione dell’Assoluto
nell’evoluzione e involuzione del mondo[..].
Le
visualizzazioni, meditazioni ed esperienze generate dallo yantra devono essere
considerate [..] non solo come riflessi dell’essenza divina nella sua
produzione e distruzione dell'universo, ma allo stesso tempo (poiché i processi
cosmici e gli stadi evolutivi sono riprodotti nella storia e nella struttura
dell’organismo umano[25])
come emanazioni della psiche del devoto. Quando sono utilizzati in connessione
con la pratica dello yoga, i contenuti dello yantra rappresentano gli stadi di
coscienza che dallo stato quotidiano di ingenua «ignoranza» (avidya) conducono
all’interiorità, attraverso i gradi dell’esperienza yogica, fino alla
realizzazione del Sé Universale (brahman-atman)”[26].
|
Lo Shri Yantra |
Un classico esempio di mandala induista è lo Shri
Yantra (o Shri Chakra), lo Yantra (la Ruota) di Shri, laddove Shri
è la shakti, la divina “potenza motrice dell’Universo in virtù della
quale dio si manifesta e si dispiega nelle cose”[27].
Fondamentalmente,
la figura si compone di 9 triangoli intersecantisi tra loro, di cui 4 col
vertice rivolto verso l'alto (detti vahni,
fuoco: simbolo del principio maschile, linga)
e 5 verso il basso (shakti: il
principio femminile, yoni). I 9
triangoli sono circondati da due ordini circolari di petali, il primo composto
di 8 petali e l'altro di 16. Infine una tripla cinta, orientata nello spazio
secondo i 4 punti cardinali, con 4 porte, racchiude il tutto. È chiamata bhupur (corpo, baluardo terrestre), e rappresenta
un santuario con le sue porte di accesso e con una breve rampa di scale che
sale verso il centro, sede del dio e cuore del devoto. La figura originale è
spesso colorata diversamente secondo l'insieme degli angoli.
Nella meditazione
sistematica di questo yantra si può
andare dal centro verso questa cinta, con una idea di creazione, di espansione;
oppure si può andare dall'esterno verso il punto centrale, in una dissoluzione
continua e progressiva che cancella a poco a poco le illusioni dell'Universo
per dirigere la coscienza verso la realtà ultima.
Nel seguente commento
si partirà dall'esterno verso il centro (processo di dissolvimento).
Bhupur è la tripla
cintura, con 4 porte, che circonda lo yantra.
La linea esterna di bhupur simboleggia
il potere materiale e l'involucro grossolano del corpo umano; la linea
intermedia rappresenta le 8 divinità che presiedono agli 8 poteri che i primi
contatti col mondo spirituale fanno ottenere; la linea interna simboleggia i 10
centri (chakra) di energia sottile
nel corpo umano, che il praticante mette in gioco in questa meditazione.
16 petali formano
la prima corona dello yantra. Ogni
petalo contiene il nome del dio corrispondente, a fianco della lettera sanscrita
a lui consacrata. Vi sono quindi 16 divinità che presiedono a 16 lettere
dell'alfabeto e che agiscono in 16 mantra.
Gli 8 petali più
interni fanno già riferimento ai piani più sottili dell’Essere: gli 8 dei che
presiedono ad ogni petalo agiscono su 5 facoltà di sensazioni e di azione
dell'essere umano che hanno un doppio aspetto: psichico e fisico. Taluni
fenomeni psichici (es. la telepatia e la chiaroveggenza) appartengono a questo
livello.
I 9 triangoli (4 vahni + 5 shakti) rappresentano l’Assoluto che si differenzia, “l’attività creativa dell’energia cosmica
maschile e femminile in stadi successivi dell’evoluzione”[28].
La conquista dei
piani sottili passa innanzitutto attraverso i 14 angoli esterni formati dalle
intersezioni dei triangoli, presieduti dalle Yogini (femminile di Yogi)
del culto tantrico. Ogni angolo corrisponde ad una parte del corpo umano: orecchie,
occhi, spazio fra gli occhi, organi sessuali, piedi, fegato, lingua ecc.
Successivamente,
si incontrano i 10 angoli esterni, presieduti dalle "Yogini Kula", o di gruppo. Poi, i 10 angoli interni e gli
ultimi 8 angoli, governati dalle “Yogini
del Verbo”.
A questo punto,
così terminata la
conquista dei piani sottili, si passa agli stati non-differenziati. Si noti qui
che mentre 4 dei 5 triangoli-shakti
si accoppiano con ognuno dei 4 triangoli-vahni,
il quinto shakti rimane a sé stante,
essendo in unione con il Punto Centrale. Questo triangolo simboleggia la Grande
Illuminazione che dona "tutti i segreti", la Shakti originaria, consorte dello Shiva trascendente.
Infine, il Punto
Centrale, bindu, la goccia, contrassegnato
dal mantra SHRIM, il punto di massima
potenza, il Brahman puro e immobile. Il punto, ente privo di parti e di
dimensioni, l’axis mundi visto
dall’alto, da cui si espande l’intero yantra.
È la Suprema Unione, lo Shiva-Shakti, l’Androgino, lo Hieròs
gamòs (Nozze sacre) alchemico rappresentato in un diagramma astratto che
permette di “comprendere il segreto di
quello straordinario miraggio che è il mondo”[29].
È lo stato di Ananda,
Gioia pura, un riflesso della completa liberazione da ogni stato condizionato
che per il praticante realizzato, essendo ancora fornito di un corpo umano,
sarà raggiungibile solo una volta varcate le soglie della morte.
[1] G. Tucci, Teoria
e pratica del Mandala, Ed. Ubaldini, pag. 22-23.
[2] Maya è anche la dea che personifica
l’illusione. La parola “magia” ha origine dalla stessa radice di maya, ma-, da cui derivano termini che significano “misurare”,
“mostrare”, “costruire”. Maya è
quindi un miracoloso potere creativo, una abilità sovrannaturale che può essere
ingannatrice. Cfr. M. Stutley – J. Stutley, Dizionario dell’Induismo,
Ed. Ubaldini, pag. 275.
[4] V. Sirtori (a cura
di), Dizionario
delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 200.
[8] Ph. Cornu, Dizionario
del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 365.
[15] “Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in
basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto”. Sono parole di
Ermete Trismegisto, il personaggio mitico di età pre-classica, venerato come
maestro di sapienza e ritenuto l'autore del Corpus
Hermeticum.
[16] J. Clarke, Jung
e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 178.
[17] Jung si accertò
costantemente che i pazienti che “creavano” dei mandala non avessero alcun tipo di conoscenza delle dottrine e delle
simbologie orientali.
[18] C.G. Jung, Simbolismo
del mandala, in Opere complete vol. 9*, Ed. Boringhieri,
pag. 349. A proposito del riconoscere se stessi come dio, nelle Upanishad si legge: “Chi venera come distinta [da sé] una divinità pensando ‘Essa è una cosa e io
sono un’altra’, costui non ha verace sapienza, ma è per gli dei come una bestia”.
In: C. Della Casa (a cura di), Upanishad, Ed.UTET pag. 72.
[20] Il mantra
è, molto sinteticamente, “uno strumento
per evocare o produrre qualcosa nella mente e specificamente una formula sacra
o un incantesimo magico per evocare o richiamare alla mente la visione e la
presenza interiore di un dio”. In: H. Zimmer, Miti e simboli dell’India,
Ed. Adelphi, pag. 130.
[22] Ad esempio, khan significa scavare, khanitra è uno strumento per scavare:
una zappa, una vanga ecc.; nello stesso modo, mantra, da man, pensare (manas = mente) + -tra, è uno strumento della (o per la) mente.
[25] In base al
principio secondo cui macro e micro-cosmo, Universo e corpo umano, sono tra
loro analoghi.
[26] Zimmer, pag.
131-132.