domenica 27 dicembre 2015

Dio, kamikaze e neurotrasmettitori


Un articolo piuttosto interessante, a firma di Giuliano Aluffi, pubblicato nel Venerdì allegato a La Repubblica del 24 dicembre.
Superata, un poco a fatica, la lettura del titolo (“La religione è oppio? No, dopamina”) e del sommario (“Sentirsi in contatto con Dio rende temerari. Fino ai terribili ed estremi casi dei kamikaze. La scienza cerca spiegazioni. E segnala il ruolo importante di un neuromediatore”), accettato il senso di impotenza semantica che ci attanaglia ogni volta che i media usano a sproposito il termine kamikaze (cioè quasi sempre), ci si imbatte negli esiti di una ricerca condotta negli USA, secondo la quale i cervelli che producono maggior quantità di dopamina (1) sarebbero più inclini al “pensiero religioso e superstizioso”, ovvero a vedere “schemi” anche inesistenti nelle relazioni tra i fenomeni, ipotizzando forze e cause “dietro” alle cose:
  

Non è un caso che Deus nobiscum, grido di battaglia nel tardo impero romano, sia di­ventato motto di altre culture militari, per esempio dei prussiani - e in seguito dei nazisti - nella traduzione tedesca Gott mit uns. La fede, infatti, può rendere incuranti del pericolo. A confer­marlo non è solo, nelle forme più estreme, la cronaca recente - con terroristi fonda­mentalisti che diventano kamikaze o sono comunque pronti a farsi uccidere, a Parigi come a San Bernardino - ma anche la scienza. In particolare uno studio in­titolato With God on our side: Religious primes reduce the envisioned physical formidability of a menacing adversary (traducibile come “Con Dio al nostro fianco: i condizionamenti religiosi ridu­cono il timore per la minaccia fisica dell'avversario”), pubblicato sulla rivi­sta Cognition da Colin Holbrook, Daniel Fessler e Jeremy Pollack del Center for Behaviour, Evolution and Culture della University of California di Los Angeles.
“Un esperimento condotto su 253 adulti ci ha confermato che pensare a Dio rende temerari” spiega Holbrook al Ve­nerdì. “Abbiamo diviso il nostro campio­ne in due gruppi: al primo abbiamo fatto leggere un testo con riferimenti a Dio, al secondo un testo neutro. Poi abbiamo mostrato a tutti la fotografia di un uomo minaccioso, chiedendo di valutarne la statura e la forza fisica. Il gruppo esposto a stimoli religiosi ha giudicato l'uomo più piccolo e debole rispetto all'altro”. In un secondo test, invece della presenza divi­na, a un gruppo si è suggerita quella di un amico in carne e ossa: e anche in questo caso l'avversario in foto è sembrato meno temibile. “L'idea che Dio sia con noi pro­duce quindi effetti simili alla presenza di un alleato fisico” commenta Holbrook. “Il cervello non tratta in modo diverso le immaginarie presenze soprannaturali e le persone reali. Lo dicono anche le neu­roscienze: quando proviamo a pensare al volere di Dio, si attivano le stesse aree cerebrali che usiamo se cerchiamo di indovinare il pensiero dei nostri simili”.
Non c'è quindi un'area specifica dell'i­stinto religioso che le semplificazioni giornalistiche definirebbero “i neuroni di Dio”: “A oggi non abbiamo trovato una zona del cervello corrispondente alla fe­de. Per le emozioni relative a Dio o alla religione usiamo le stesse aree coinvolte nelle emozioni per i parenti o gli amici” ci conferma Andrew Newberg, direttore della ricerca medica alla Thomas Jeffer­son University di Philadelphia e autore di numerosi studi e libri sul tema (tra questi The Mystical Mind). “Quello che distingue meditazione ed esperienza mistica dai pensieri di altro genere è solo l'intensità con cui usiamo una stessa parte del cer­vello. Prendiamo poi il senso di connes­sione con gli altri: è associato a un calo del senso del sé e quindi a una minore attivi­tà nel lobo parietale. Se parlo con un amico o un collega, quell'area sarà mediamente attiva. Se sono con il partner, ossia con qualcuno con cui ho maggiore con­nessione, il mio lobo parietale sarà un po' meno attivo, e ancora di meno lo sarà se ho un'esperienza mistica e mi sento tutt'uno con Dio”.

 Pensare al divino non spe­gne solo il senso del sé, ma anche il nostro Gps interno: “Abbiamo sottoposto a riso­nanza magnetica sia monaci buddisti in meditazione che suore francescane in preghie­ra: entrambi hanno un calo di attività nell'area dell'orienta­mento spaziale (lobi superiori parietali), come se fossero fuori dal tem­po e dallo spazio” dice Newberg.
Se il pensiero religioso non sembra avere una sua propria sede nel cervello, appare invece correlato all'abbondanza di un neuromediatore: la dopamina. Peter Brugger e Christine Mohr, neuroscienziati dell'Università di Bristol, hanno mo­strato che le persone contraddistinte da alti livelli di dopamina sono più inclini al pensiero superstizioso e religioso, ossia tendono ad attribuire più significato de­gli altri alle coincidenze, e a vedere “sche­mi” anche dove non esistono. Non solo: aumentare artificialmente il livello di dopamina nel cervello degli scettici - co­me hanno fatto Brugger e Mohr - li rende più superstiziosi. Succede perché la do­pamina ha l'effetto di rendere i neuroni più pronti a emettere impulsi e formare sinapsi in risposta al possibile riconosci­mento di uno “schema”. Abbassando la soglia di sforzo necessario alle connes­sioni tra i neuroni, la dopamina ci rende inclini a identificare le relazioni tra le cose - e a vederne anche più di quante ce ne siano in realtà - e a ipotizzare l'esisten­za di forze e “cause” dietro ciò che accade: così una pura coincidenza può apparirci come un segno divino.
La dopamina, inoltre, facilita l'apprendimento dandoci un senso di piacere quando pensiamo di aver riconosciuto uno schema. Una circostanza che rappresenta un indubbio vantaggio evolutivo: cogliere associazioni e relazioni tra le cose che avvengono, ipotizzare cause e prevedere effetti sono capacità fondamentali per la sopravvivenza. Se le possiedo non ho bisogno di essere aggredito da un predatore per capirne la pericolosità: per tenermi lontano dagli orsi mi basta ricordare quello che è successo al mio vicino di caverna. Un altro meccanismo molto utile per sopravvivere è la tendenza a ritrarsi quando si colgono i segni di una malattia contagiosa o di un cibo contaminato. “È’ un processo cognitivo che la selezione naturale ha radicato in noi nel corso di centinaia di migliaia di anni: è come se "sapessimo" da sempre che le malattie si possono trasmettere da per­sona a persona tramite il contatto” osser­va Holbrook. “E questo porta all'idea che attraverso il tatto si trasmettano sostan­ze invisibili. Un altro concetto che si estende al campo della superstizione e della religione: molti credono così che toccare le reliquie o la statua di un santo faccia acquisire, per una sorta di "conta­gio positivo", la sua protezione”.
La credenza nel soprannaturale può anche essere considerata frutto di un conflitto tra più processi cognitivi di ba­se: pensiamo all'enigma della morte: gli antropologi Clark Barrett e Tanya Benne hanno mostrato che fin dall'età di quattro anni associamo al concetto di mor­te la cessazione della capacità di agire. Ma d'altra parte, quando pensiamo a una per­sona cara deceduta tendiamo ad attribuirle ancora indivi­dualità e pensieri: questa ten­denza, secondo lo psicologo Jesse Bering, nasce dal fatto che come esseri coscienti abbiamo esperienza di cosa significhi essere privi di percezione (se per esempio chiudiamo gli occhi) ma ci è impossibile sperimentare e immaginare cosa sia il non essere coscienti. “Questo conflitto interno - dice Holbrook - genera l'idea che i nostri cari siano, in qualche modo, an­cora coscienti in un Altrove”.

Dopamina
Anche il mito della creazione del mon­do si può spiegare come effetto collatera­le dell'affermarsi di convinzioni utili per la sopravvivenza: “Le stesse facoltà che ci avvantaggiano permettendoci di usare degli strumenti radicano nella no­stra mente l'idea della finalità. Ci suggeriscono, ad esempio, l'idea che gli occhi esistano per permetterci di vedere e, più in generale, che tutto ciò che esista abbia un fine” spie­ga Holbrook. “Così ci risulta facile con­vincerci che la natura ci sia perché ri­sponde al desiderio di un creatore”.
Quello di Creatore, del resto, è un con­cetto trasversale, presente nella stra­grande maggioranza delle tradizioni. “Le religioni hanno molti punti in comune perché sono elaborazioni culturali degli stessi meccanismi cognitivi di base, che sono universali” commenta Holbrook. E forse è per questo che i credenti risultano così impermeabili alle idee degli atei: “Un discorso basato solo sulla ragione non può scalfire più di tanto un processo mentale fondato su meccanismi cognitivi intuitivi. Per giunta condivisi, inconscia­mente, anche da atei e agnostici”. Questo Holbrook ha potuto constatarlo di perso­na: “Nel nostro esperimento leggere un testo su Dio rende meno timorosi di un avversario sia i credenti che gli atei” spie­ga lo psicologo. “Sorprendente? Nemme­no troppo: già diversi studi mostrano che agnostici e atei hanno impulsi verso cre­denze soprannaturali simili a quelli di tutti gli altri. L'unica differenza è che la loro mente si sforza attivamente di resi­stere a questa propensione”.

Quale unica glossa marginale critica, vogliamo proporre una lettura molto più faticosa (480 pagine) ma ben più significativa, opera di uno studioso italiano:

Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Ed. Astrolabio


  
(1) Secondo quanto si legge nel sito:
http://www.news-medical.net/health/Dopamine-Functions-(Italian).aspx,
"la dopamina è un neurotrasmettitore rilasciato dal cervello che svolge una serie di ruoli in esseri umani ed in altri animali. Alcune delle sue funzioni notevoli sono: movimento, memoria, ricompensa piacevole, comportamento e cognizione, attenzione, inibizione di produzione della prolactina, sonno, umore, apprendimento.
L'eccesso e la carenza di questo prodotto chimico vitale è la causa di parecchi stati di malattia. La Malattia del Parkinson e la tossicodipendenza sono alcuni degli esempi dei problemi connessi con i livelli anormali della dopamina
".

Libertà, doveri e mercatini di Natale

Sera di Vigilia, a Bologna. Tra gli affannati dell’ultimo minuto, un uomo, solo, distribuisce volantini. Pochi sono accettati, quanti letti, non so.
Aveva qualcosa da dire, lo ha detto. Ciclinprop (quelli del secolo vecchio sanno).
Parla di vita, in tempi di morte. Di dono, nell'era del baratto. Di libertà e di doveri, nei regni del desiderio e dell'arbitrio.
Senza chiedere nulla in cambio. Nemmeno accordo o disaccordo. Anche per questo, lo propongo:


A proposito dell'esistenza

Di fronte alle innumerevoli e gravi violazioni dei diritti umani nel mondo contemporaneo, di fronte al tedio e allo scetticismo delle nostre società, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di una impotenza insuperabile.
Ci troviamo tuttora al cospetto di un'enorme minaccia contro la vita e la vera libertà, non solo di singoli individui ma dell'intero corpo sociale: una minaccia che sta diventando sempre più reale, vicina e diffusa.
Eppure è questo il tempo nel quale ciascuno è chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo "il Verbo della vita" (I Gv., l,l).
E' anche il tempo per ciascun uomo e per ogni donna, di fare appello a tutte le istanze della ragione e alle risorse di umanità e di coraggio che certamente ognuno possiede.
Ciascuno di noi è venuto all'esistenza grazie ad un atto di amore e di gratuita accettazione, compiuto da nostro padre e da nostra madre. Tale accettazione è avvenuta superando, anche allora, dubbi, difficoltà, temporanei disagi economici o abitativi, a motivo di una energia positiva, di una istintiva generosità, di un atto leale di sincera donazione.
E' stata assecondata la tendenza naturale, inscritta nella corporeità e nell’animo di ciascuno, a trasmettere la vita, la propria vita, ad altri.
E' stato dato lo stesso giudizio che fu ed è del Padre: "Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò, maschio e femmi­na li creò, ... E vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen.,1,27; 1,31).
Tale spontaneo sentimento della positività dell'esistenza ha prevalso sul­le difficoltà reali e sui dubbi, sui timori e sulle prospettive di sacrificio che un evento nuovo e impegnativo suscita.
Ha prevalso altresì sulle chiusure mentali, sui calcoli egoistici, sulle suggestioni infantili e narcisistiche e sulle paure, reali o immaginarie, del futuro.
E' stato dato un giudizio di valore positivo sul creato, sulla natura, sull'esserci, sul tempo presente e quello futuro e sulla pur faticosa avventura umana.
Si è affermata così una nuova e più vera idea di libertà.
Libero infatti, non è chi fa ciò che gli pare e piace ma colui che si vincola nell'amore e accetta di portare nel proprio cuore un'altra persona umana per generarla nella vita.
                                                                                           A.D. 2015






venerdì 18 dicembre 2015

Mandala e Yantra


Quel grande studioso dell’Oriente che fu Giuseppe Tucci (1894-1984) scrisse in un suo libro del 1949: “Gli Indiani non hanno concepito la vita come una lotta fra il bene ed il male, la virtù e il peccato, ma come opposizione fra [..la] coscienza luminosa ed il suo contrario, la psiche e il subconscio che essi chiamano maya[1].
Maya, ovvero l’illusione magica[2] che fa apparire come realmente esistenti “i fenomeni e le loro differenziazioni di ordine nominale e formale[3]. Maya, “il velo che copre la vera essenza del Brahman così che gli uomini non riescono a distinguere la fondamentale unità del cosmo e restano ingannati dalla molteplicità del mondo fenomenico[4].
La coscienza divina nella quale “non esisteva un io contrapposto a un non io [..] si offusca[5]. A causa del velo di maya il Supremo Essere non riconosce più che soggetto ed oggetto sono identici e si costituisce così l’io-individuo, racchiuso nelle sue corazze, i cinque kosha (involucri): il corpo fatto di cibo (annamayakosha); la forza vitale, fatta dei soffi che lo abbandonano alla morte (pranamayakosha); la mente, fatta di passioni, di emozioni, di volizioni (manomayakosha); l’intellezione, la conoscenza ordinaria (vijñanamayakosha); il corpo di beatitudine (anandamayakosha), raggiungibile in certi stati mistici o estatici, ma pur sempre impermanenti, e che non possono quindi essere l’Atman, quella più intima essenza che solo la forza di maya fa sì che vediamo come distinta dal Brahman, l’Assoluto non-differenziato.
L’uomo è sì coscienza decaduta nel tempo e nello spazio, offuscata, ma la liberazione [da maya, dall’ignoranza-avidya] dipende da lui medesimo[6]: per l’India non esiste alcun Salvatore. I Buddha, gli Avatara, i Guru, possono solo indicare la Via, non percorrerla al posto dell’uomo. La Conoscenza che libera (Vidya) è il frutto di una personale, lunga, faticosa ascesi. E non si tratta di una conoscenza logica, intellettuale, concettuale, fondata sull’accumulo di nozioni. Questa può essere al più uno strumento preparatorio – talvolta è invece un ostacolo. “La vera conoscenza [..] è esperienza[7] – dice Tucci, che aveva una comprensione diretta, empirica, di ciò di cui parlava – alla quale si adegua l’azione; è Conoscenza che trasforma la vita, che espelle l’ignoranza innata, lacera il velo di maya che offusca la Coscienza divina. Tale Conoscenza è nelle potenzialità dell’uomo: l’uomo è della stessa essenza di Shiva, dicono le scuole Shaiva; e vi è identità tra i Buddha e gli esseri, nei quali è già presente il Tathagatagarbha, la natura di Buddha, secondo il Buddhismo Mahayana.

 Uno dei mezzi che la plurimillenaria storia della spiritualità indiana ha messo a disposizione dell’uomo per aiutarlo nel suo cammino di liberazione dall’ignoranza e quindi dalla sofferenza è il mandala, visiva rappresentazione schematica del processo di dis-integrazione nell’illusoria pluralità fenomenica e strumento di re-integrazione nell’Uno.
Secondo quanto si legge nell’indispensabile Dizionario del Buddhismo di Philippe Cornu, il termine sanscrito mandala significa, alla lettera, “la schiuma che si forma alla superficie dell’acqua di cottura del riso[8] (manda) e la sua estrazione (la).
Nell’ambito delle tradizioni hindu e buddhiste mandala indica il “centro”, un “contenuto interiore” (manda, visto qui come quintessenza di ogni cosa), circondato da un elemento che lo racchiude (la). In pratica, si tratta di “un cerchio che isola una particolare superficie della zona circostante e che, una volta consacrato, risulta purificato per scopi rituali e liturgici[9].
Ad una prima osservazione un mandala a due dimensioni è un complesso diagramma circolare, suscettibile di numerosissime variazioni.
Fondamentalmente è composto da un margine circolare che racchiude un quadrato diviso in quattro triangoli. Al centro di ogni triangolo e nel cerchio più piccolo al centro del mandala è rappresentata una divinità, anche in modo simbolico, ad esempio con lettere sanscrite[10].
I mandala possono essere dipinti su legno, carta, pietra, tela, oppure tracciati sul terreno o su altri supporti con sabbie colorate.
Il Borobudur
Tale struttura va osservata anche in un’ottica tridimensionale: infatti un tempio hindu o uno stupa buddhista, se visti dall’alto, raffigurano, anzi sono, un mandala. Ne è un classico esempio il Borobudur di Giava.
Ma il mandala non è un’opera d’arte – sicuramente non nel senso dell’estetica occidentale – e non è nemmeno soltanto uno spazio consacrato e dedicato ai riti. Come scrive Tucci, “è di fatto un cosmogramma, è l’universo intero nel suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e riassorbimento[11], quindi esso è l’intero processo della manifestazione, in senso sia spaziale che temporale.
Ma un mandala è ancora qualcosa di più di una mera descrizione del processo cosmogonico: è in realtà, detto ancora con le parole di Tucci, uno “psicocosmogramma”: creare, utilizzare (e distruggere) il mandala nella pratica religiosa, ovviamente secondo modalità molto precise, significa avere accesso all’essenza delle percezioni fenomeniche, tornare a quel “centro” che per il buddhista è la mente di saggezza, bodhicitta, la Natura di Buddha, e per un hindu è l’unione con Dio, il samadhi, identificazione di soggetto e oggetto. Ovvero, per entrambi, liberazione, risveglio.
È un “rifluire delle esperienze della psiche alla concentrazione, per ritrovare l’unità della coscienza, raccolta e non distratta, e per scoprire il principio ideale delle cose[12].

Come risulta evidente, i mandala non sono frutto né di scelte razionali né di casuali fantasie umane. Non sono l’effetto “di un’arbitraria costruzione, ma il riflesso [..] di intuizioni personali; per virtù quasi nativa, lo spirito umano traduce visibilmente l’eterno contrasto tra la luminosità essenziale della sua coscienza e le forze che la occultano[13]. Gli schemi, il centro, i petali, le forme geometriche, i colori, tutti gli elementi dei mandala non sono tali sulla base di astratte teorie teologiche – meno che mai estetiche. Al contrario, è l’introspezione dei praticanti che li ha scoperti – rivelati, si può dire –, ne ha fissato le regole, i modelli e le misure, li ha classificati limitando la spontaneità delle visioni. In tal modo il mandala diviene “a sua volta sussidio di meditazione, strumento esterno per suscitare e stimolare nel raccoglimento quelle visioni[14].

Ma, come si evince da quanto detto, il mandala non è solo un oggetto esterno, costruito e utilizzato dal praticante come altro-da-sé. Partendo dal punto di vista dello Yoga e di altre tradizioni, non solo orientali[15], secondo cui macro e micro-cosmo, Universo e corpo umano, sono tra loro analoghi, al mandala esterno corrisponde il mandala interno, nel nostro corpo, che contiene in sé gli stessi simboli viventi, gli stessi dei. Un esempio tra molti: il centro del mandala corrisponde nel corpo umano al brahmarandhra, la cavità sulla sommità del capo tra le due ossa parietale e occipitale (la c.d. “fontanella”). Lì si trova una estremità di sushumna nadi, il canale di energia mediano che attraversa il corpo lungo la colonna vertebrale, vero e proprio axis mundi attorno al quale si distribuiscono i centri di energia sottile (chakra), così come i vari piani celesti della cosmologia indiana sono disposti intorno al mitico monte Sumeru.

A conclusioni fondamentalmente identiche pervenne in Occidente, per vie diverse ma non così lontane tra loro, lo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), uno dei padri della psicoanalisi. In seguito alla rottura con Sigmund Freud (1856-1939), Jung entrò in un periodo di profonda crisi, da cui cercò di uscire confrontandosi con l’inconscio, anche per mezzo della pittura. Notò così che stava creando immagini simmetriche e regolari che in seguito identificò come mandala. Soprattutto capì “che quelle figure non erano altro che immagini della completezza della personalità[16], nelle quali vedeva all’opera ciò che gli chiamava il Sé, ovvero l’intero suo essere.
Un "mandala" di C.G. Jung
All’introspezione personale Jung affiancò lo studio dei testi e delle dottrine orientali, interpretandone i miti e i simboli dal punto di vista della nascente psicoanalisi. Capì così che i mandala che comparivano nei suoi disegni e nei sogni e nelle fantasie di molti suoi pazienti[17] non erano immagini esterne bensì interiori, fenomeni universali archetipici, una sorta di “mappe”, di ideogrammi di contenuti inconsci.
Tali mappe costituiscono una guida delle strutture – cosmologiche e psicologiche, del mondo divino e di quello mentale – entro cui il praticante percorrerà la sua Via. In tal senso, come intuisce Jung, il vero mandala non è quello visibile, dipinto su una pelle di yak o su una tavola di legno, bensì quello interiore. Il suo scopo è quello di fungere da supporto per le pratiche meditative di colui che contemplando i “processi rappresentati nel mandala [prende] coscienza della divinità, [si riconosce] egli stesso come dio ed [esce] dall’illusione dell’unicità individuale per ritornare all’universale totalità dello stato divino[18].
Come si vede, mentre Freud valutava la religione in termini patologici, come una sorta di nevrosi dell’umanità, Jung “non considerava le credenze e le pratiche religiose fantasie superstiziose o stravaganti né curiosità etnologiche, ma piuttosto manifestazioni di una predisposizione universale, inconscia[19], che esprimono l’universale bisogno umano di totalità.

Restando ancora per un istante nell’ambito delle tradizioni spirituali dell’Occidente, è inoltre possibile trovare somiglianze strutturali e funzionali tra il mandala ed il labirinto. Il labirinto rappresenta infatti una “discesa agli inferi”, una sorta di “morte iniziatica” seguita da una “resurrezione” dell’adepto, interiormente rinnovato, purificato. Non a caso il labirinto ricorda da vicino la struttura anatomica del cervello umano (e dell’intestino, al quale il cervello stesso è strettamente correlato).


Lo yantra

Nei loro scritti sul mandala Tucci, Jung e molti altri fanno soprattutto riferimento alla tradizione buddhista, in particolare alle scuole tibetane (il Vajrayana, il Buddhismo tantrico, esoterico). Ma dei mandala si fa largo uso anche nell’Induismo (d’altra parte, l’origine del mandala è indiana), ad esempio nelle scuole tantriche del Kashmir, di tradizione shivaita.
In questo caso si parlerà allora, più precisamente, di yantra, che rappresenta lo schema essenziale del mandala. Lo yantra è infatti un diagramma lineare, nel quale le immagini delle divinità vengono sostituite con i mantra (cioè i fonemi)[20] corrispondenti, oppure con combinazioni di triangoli o con fiori di loto che riportano sui petali i caratteri sanscriti con i fonemi delle divinità.
Ciò avvenne soprattutto – spiega Tucci – per causa di una intransigenza e quasi ritrosia a rivelarsi che invase le scuole misteriosofiche scivaite e shakta dell’India medievale cui ripugnava mostrare ai non iniziati l’immagine delle deità[21].
Il termine sanscrito yantra è composto dal suffisso –tra, che si usa nella formazione di parole indicanti strumenti[22], e da yam, verbo che significa dominare, sottomettere, “ottenere il controllo dell’energia insita in un elemento o in un essere”[23]. Uno yantra è quindi uno strumento “atto a fornire energia per uno scopo definito dalla volontà umana[24]. Una diga per canalizzare le acque è uno yantra. In ambito religioso, una statua del dio o un suo dipinto sono yantra, in quanto mezzi di devozione.
Più precisamente, possiamo dunque dire con le parole di Heinrich Zimmer che “lo yantra è uno strumento che serve a controllare le forze psichiche concentrandole su di un motivo geometrico, in modo tale che il motivo venga riprodotto dalla capacità di visualizzazione dell’adorante. È una macchina per stimolare visualizzazioni, meditazioni ed esperienze interiori. Un dato motivo può suggerire una visione statica della divinità da adorare, della presenza sovrumana da realizzare, oppure può produrre una serie di visualizzazioni che procedono e si sviluppano l’una dall’altra come momenti o fasi di un processo.
Quest’ultimo tipo di yantra è il più ricco e interessante, ed è quello che richiede il maggiore impegno dall'iniziato. Opera in due direzioni: prima in avanti, come un movimento evolutivo, poi indietro, come processo di involuzione che annulla le visioni precedentemente sviluppate. In altre parole esso riproduce in miniatura gli stadi o aspetti della manifestazione dell’Assoluto nell’evoluzione e involuzione del mondo[..].
Le visualizzazioni, meditazioni ed esperienze generate dallo yantra devono essere considerate [..] non solo come riflessi dell’essenza divina nella sua produzione e distruzione dell'universo, ma allo stesso tempo (poiché i processi cosmici e gli stadi evolutivi sono riprodotti nella storia e nella struttura dell’organismo umano[25]) come emanazioni della psiche del devoto. Quando sono utilizzati in connessione con la pratica dello yoga, i contenuti dello yantra rappresentano gli stadi di coscienza che dallo stato quotidiano di ingenua «ignoranza» (avidya) conducono all’interiorità, attraverso i gradi dell’esperienza yogica, fino alla realizzazione del Sé Universale (brahman-atman)[26].

Lo Shri Yantra
Un classico esempio di mandala induista è lo Shri Yantra (o Shri Chakra), lo Yantra (la Ruota) di Shri, laddove Shri è la shakti, la divina “potenza motrice dell’Universo in virtù della quale dio si manifesta e si dispiega nelle cose[27].
Fondamentalmente, la figura si compone di 9 triangoli intersecantisi tra loro, di cui 4 col vertice rivolto verso l'alto (detti vahni, fuoco: simbolo del principio maschile, linga) e 5 verso il basso (shakti: il principio femminile, yoni). I 9 triangoli sono circondati da due ordini circolari di petali, il primo composto di 8 petali e l'al­tro di 16. Infine una tripla cinta, orientata nello spazio secondo i 4 punti cardinali, con 4 porte, racchiude il tutto. È chiamata bhupur (corpo, baluardo terrestre), e rappresenta un santuario con le sue porte di accesso e con una breve rampa di scale che sale verso il centro, sede del dio e cuore del devoto. La figura originale è spesso colorata diversamente secondo l'insieme degli angoli.

Nella meditazione sistematica di questo yantra si può andare dal centro verso questa cinta, con una idea di creazione, di espansione; oppure si può andare dall'esterno verso il punto centrale, in una dissoluzione continua e progressiva che cancella a poco a poco le illusioni dell'Universo per dirigere la coscienza verso la realtà ultima.
Nel seguente commento si partirà dall'esterno verso il centro (processo di dissolvimento).

Bhupur è la tripla cintura, con 4 porte, che circonda lo yantra. La linea esterna di bhupur simboleggia il potere materiale e l'involu­cro grossolano del corpo umano; la linea intermedia rappresenta le 8 divinità che presiedono agli 8 poteri che i primi contatti col mondo spirituale fanno ottenere; la linea interna simboleggia i 10 centri (chakra) di energia sottile nel corpo umano, che il praticante mette in gioco in questa medi­tazione.
16 petali formano la prima corona dello yantra. Ogni petalo contiene il nome del dio corrispondente, a fianco della lettera sanscri­ta a lui consacrata. Vi sono quindi 16 divinità che presiedono a 16 lettere dell'alfabeto e che agiscono in 16 mantra.
Gli 8 petali più interni fanno già riferimento ai piani più sottili dell’Essere: gli 8 dei che presiedono ad ogni petalo agiscono su 5 facoltà di sensazioni e di azione dell'essere umano che hanno un doppio aspetto: psichico e fisico. Taluni fenomeni psichici (es. la telepatia e la chiaroveggenza) appartengono a questo livello.
I 9 triangoli (4 vahni + 5 shakti) rappresentano l’Assoluto che si differenzia, “l’attività creativa dell’energia cosmica maschile e femminile in stadi successivi dell’evoluzione[28].
La conquista dei piani sottili passa innanzitutto attraverso i 14 angoli esterni formati dalle interse­zioni dei triangoli, presieduti dalle Yogini (femminile di Yogi) del culto tantrico. Ogni angolo corrisponde ad una parte del corpo umano: orecchie, occhi, spazio fra gli occhi, organi sessuali, piedi, fegato, lingua ecc.
Successivamente, si incontrano i 10 angoli esterni, presieduti dalle "Yogini Kula", o di gruppo. Poi, i 10 angoli interni e gli ultimi 8 angoli, governati dalle “Yogini del Verbo”.
A questo punto, così terminata la conquista dei piani sottili, si passa agli stati non-differenziati. Si noti qui che mentre 4 dei 5 triangoli-shakti si accoppiano con ognuno dei 4 triangoli-vahni, il quinto shakti rimane a sé stante, essendo in unione con il Punto Centrale. Questo triangolo simboleggia la Grande Illuminazione che dona "tutti i segreti", la Shakti originaria, consorte dello Shiva trascendente.
Infine, il Punto Centrale, bindu, la goccia, contrassegnato dal mantra SHRIM, il punto di massima potenza, il Brahman puro e immobile. Il punto, ente privo di parti e di dimensioni, l’axis mundi visto dall’alto, da cui si espande l’intero yantra.
È la Suprema Unione, lo Shiva-Shakti, l’Androgino, lo Hieròs gamòs (Nozze sacre) alchemico rappresentato in un diagramma astratto che permette di “comprendere il segreto di quello straordinario miraggio che è il mondo[29].
È lo stato di Ananda, Gioia pura, un riflesso della completa liberazione da ogni stato condizionato che per il praticante realizzato, essendo ancora fornito di un corpo umano, sarà raggiungibile solo una volta varcate le soglie della morte.





[1] G. Tucci, Teoria e pratica del Mandala, Ed. Ubaldini, pag. 22-23.
[2] Maya è anche la dea che personifica l’illusione. La parola “magia” ha origine dalla stessa radice di maya, ma-, da cui derivano termini che significano “misurare”, “mostrare”, “costruire”. Maya è quindi un miracoloso potere creativo, una abilità sovrannaturale che può essere ingannatrice. Cfr. M. Stutley – J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 275.
[3] Id. pag. 275.
[4] V. Sirtori (a cura di), Dizionario delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 200.
[5] Tucci, pag. 23.
[6] Id. pag. 27.
[7] Id. pag. 28-29.
[8] Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 365.
[9] Stutley, pag. 260.
[10] Id. pag. 260.
[11] Tucci, pag. 37.
[12] Id. pag. 40.
[13] Id. pag. 51.
[14] Id. pag. 52.
[15]Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto”. Sono parole di Ermete Trismegisto, il personaggio mitico di età pre-classica, venerato come maestro di sapienza e ritenuto l'autore del Corpus Hermeticum.
[16] J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 178.
[17] Jung si accertò costantemente che i pazienti che “creavano” dei mandala non avessero alcun tipo di conoscenza delle dottrine e delle simbologie orientali.
[18] C.G. Jung, Simbolismo del mandala, in Opere complete vol. 9*, Ed. Boringhieri, pag. 349. A proposito del riconoscere se stessi come dio, nelle Upanishad si legge: “Chi venera come distinta [da sé] una divinità pensando ‘Essa è una cosa e io sono un’altra’, costui non ha verace sapienza, ma è per gli dei come una bestia”. In: C. Della Casa (a cura di), Upanishad, Ed.UTET pag. 72.
[19] Clarke, pag. 184.
[20] Il mantra è, molto sinteticamente, “uno strumento per evocare o produrre qualcosa nella mente e specificamente una formula sacra o un incantesimo magico per evocare o richiamare alla mente la visione e la presenza interiore di un dio”. In: H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi, pag. 130.
[21] Tucci, pag. 61.
[22] Ad esempio, khan significa scavare, khanitra è uno strumento per scavare: una zappa, una vanga ecc.; nello stesso modo, mantra, da man, pensare (manas = mente) + -tra, è uno strumento della (o per la) mente.
[23] Zimmer, pag. 130.
[24] Id.
[25] In base al principio secondo cui macro e micro-cosmo, Universo e corpo umano, sono tra loro analoghi.
[26] Zimmer, pag. 131-132.
[27] Tucci, pag. 61.
[28] Zimmer, pag. 135.
[29] Id. pag. 136.

lunedì 14 dicembre 2015

Il ritorno della Luce

Ieri, 13 dicembre, Santa Lucia: a partire da qui, dal mito della Santa martire e dal suo stesso nome, e dalla “realtà” astronomica che del mito è pallido riflesso materiale, la lunga notte comincia a declinare.
La Luce, che nessuna tenebra per quanto profonda può mai velare, si ritrova intatta: dapprima nella duplice illusione di un sole che muove e che sta, e poi, compiutamente, con la sempre rinnovata Natività.

Oggi, 14, San Giovanni della Croce, che della Notte Oscura, la “gioiosa notte”, è stato il Cantore, e che ha mostrato l’accessibilità del Cammino.

Proponiamo qui, quale momento di riflessione, la lettura delle sue Strofe dell’Anima, massima espressione della Mistica dell’Occidente.


1. In una notte oscura,
con ansie, dal mio amor tutta infiammata,
oh, sorte fortunata!,
uscii, né fui notata,
stando la mia casa al sonno abbandonata.

2. Al buio e più sicura,
per la segreta scala, travestita,
oh, sorte fortunata!,
al buio e ben celata,
stando la mia casa al sonno abbandonata.

3. Nella gioiosa notte,
in segreto, senza esser veduta,
senza veder cosa,
né altra luce o guida avea
fuor quella che in cuor mi ardea.

4. E questa mi guidava,
più sicura del sole a mezzogiorno,
là dove mi aspettava
chi ben io conoscea,
in un luogo ove nessuno si vedea.

5. Notte che mi guidasti,
oh, notte più dell’alba compiacente!
Oh, notte che riunisti
l’Amato con l’amata,
amata nell’Amato trasformata!

6. Sul mio petto fiorito,
che intatto sol per lui tenea serbato,
là si posò addormentato
ed io lo accarezzavo,
e la chioma dei cedri ei ventilava.

7. La brezza d’alte cime,
allor che i suoi capelli discioglievo,
con la sua mano leggera
il collo mio feriva
e tutti i sensi mie in estasi rapiva.

8. Là giacqui, mi dimenticai,
il volto sull’Amato reclinai,
tutto finì e posai,
lasciando ogni pensier
tra i gigli perdersi obliato.

Salvador Dalì - Cristo di San Giovanni della Croce

Si legga:
S. Giovanni della Croce, Opere, Ed. Postulazione Generale O.C.D.