Di Umberto Eco, che pochi giorni
or sono ha lasciato il corpo, è assolutamente inutile dire altro. Val meglio
leggere, e rileggere.
Eco ha scritto, nel lontano 1959,
anche di Zen, e qui proponiamo il suo breve saggio, lasciando al tempo, e a chi
ne sentisse il bisogno, l’onere del giudizio.
Il testo in formato pdf è leggibile qui:
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/ecozen.pdf
Si veda anche:
http://www.lastelladelmattino.org/altro-materiale/lo-zen-e-i-68
|
Padre Jorge, uno dei personaggi de Il nome della rosa |
LO
ZEN E L’OCCIDENTE
di Umberto Eco
Questo saggio
risale al 1959, quando in Italia cominciavano ad agitarsi le prime curiosità
sullo zen. Siamo stati incerti se inserirlo in questa seconda edizione per due
motivi:
1)
La
“vague” dello zen non ha poi lasciato segni degni di nota sulla produzione
artistica fuori d'America, e il discorso e oggi molto meno urgente di otto anni
fa.
2)
Benché
il nostro saggio circoscrivesse molto esplicitamente l'esperienza zen tra i
fenomeni di una “moda” culturale, ricercandone ma non propagandandone le
ragioni, è accaduto che lettori frettolosi (o in malafede) lo denunciassero
come un manifesto, come l'incauto tentativo di un trapianto – che è invece
chiaramente criticato nell'ultimo capoverso del saggio.
Abbiamo comunque
deciso di conservare il capitolo perché:
1) I fenomeni
culturali che la moda zen simboleggiava permangono validi negli Stati Uniti – e ovunque si instaurano forme di reazione a-ideologica, mistico-erotica alla
civiltà industriale (magari attraverso il ricorso agli allucinogeni).
2)
Non
bisogna mai farsi ricattare dalla stupidità altrui.
“Durante gli ultimi anni in America una piccola parola giapponese, con
un suono ronzante e pungente, ha cominciato a farsi sentire con casuali o
esatti riferimenti nei più svariati luoghi, nelle conversazioni delle signore,
nelle riunioni accademiche, ai cocktail parties... Questa piccola eccitante
parola è Zen”. Così verso la fine degli anni cinquanta una diffusa rivista
americana nel fare il punto su uno dei fenomeni culturali e di costume più
curiosi degli ultimi tempi. Intendiamoci: il buddismo Zen oltrepassa i limiti
del “fenomeno di costume”, perché rappresenta una specificazione del buddismo
che affonda le sue radici nei secoli e che ha profondamente influenzato la
cultura cinese e giapponese; basti pensare che le tecniche della scherma, del
tiro all’arco, le arti del tè e della disposizione dei fiori, l’architettura,
la pittura, la poesia nipponica hanno subito l’influenza di questa dottrina,
quando non ne sono state l’espressione diretta. Ma per il mondo occidentale lo
Zen è diventato fenomeno di costume da pochi anni e da pochi anni il pubblico
ha cominciato a rilevare i richiami allo Zen che appaiono in una serie di
discorsi critici apparentemente indipendenti: lo Zen e la beat generation, lo
Zen e la psicoanalisi, lo Zen e la musica di avanguardia in America, lo Zen e
la pittura informale, e infine lo Zen e la filosofia di Wittgenstein, lo Zen e
Heidegger, lo Zen e Jung... I richiami cominciano a divenire sospetti, il filologo
subodora la truffa, il lettore comune perde l’orientamento, qualsiasi persona
assennata si inalbera decisamente quando apprende che R. L. Blyth ha scritto
un libro sullo Zen e la letteratura inglese, identificando situazioni “Zen”
nei poeti inglesi da Shakespeare e Milton a Wordsworth, Tennyson, Shelley,
Keats, sino ai preraffaelliti. Tuttavia il fenomeno esiste, persone degne della
massima considerazione se ne sono occupate, Inghilterra e Stati Uniti stanno
sfornando una massa di volumi sull’argomento, che vanno dalla semplice
divulgazione allo studio erudito, e specie in America gruppi di persone vanno
ad ascoltare le parole di maestri Zen emigrati dal Giappone, e specialmente del
dottor Daisetz Teitaro Suzuki, un vegliardo che ha dedicato la sua vita alla divulgazione
di questa dottrina in Occidente scrivendo una serie di volumi e qualificandosi
come la massima autorità sull’argomento.
Ci sarà dunque da chiedersi quali possano essere i
motivi della fortuna dello
Zen in Occidente: perché lo Zen e perché ora.
Certi fenomeni non accadono a caso. In questa scoperta
dello Zen da parte dell’Occidente ci può essere molta ingenuità e parecchia
superficialità nel mutuare idee e sistemi: ma se il fatto è avvenuto è perché
una certa congiuntura culturale e psicologica ha
favorito l’incontro.
Non è in questa sede che si dovrà dare una giustificazione
interna dello Zen: esiste in proposito una letteratura assai ricca, più o meno
specializzata, alla quale rifarsi per i necessari approfondimenti e le
verifiche organiche del sistema.[1]
Quello che piuttosto ci interessa qui è di vedere quali elementi dello Zen
abbiano potuto affascinare gli occidentali e trovarli preparati ad accoglierlo.
C'è nello Zen un atteggiamento fondamentalmente
antintellettualistico, di elementare, decisa accettazione della vita nella sua
immediatezza, senza tentare di sovrapporvi spiegazioni che la irrigidirebbero
e la ucciderebbero, impedendoci di coglierla nel suo fluire libero, nella sua
positiva discontinuità. E forse abbiamo detto la
parola esatta. La discontinuità è, nelle scienze come
nei rapporti comuni, la categoria del nostro tempo: la cultura occidentale moderna
ha definitivamente distrutto i concetti classici di continuità, di legge
universale, di rapporto causale, di prevedibilità dei fenomeni: ha insomma
rinunciato ad elaborare formule generali che pretendano di definire il
complesso del mondo in termini semplici e definitivi. Nuove categorie hanno
fatto il loro ingresso nel linguaggio contemporaneo: ambiguità, insicurezza,
possibilità, probabilità. È pericolosissimo far di ogni erba un fascio e
assimilare come stiamo facendo idee provenienti dai più diversi settori della
cultura contemporanea con le loro accezioni precise e distinte, ma il fatto
stesso che un discorso come questo sia vagamente possibile e che qualcuno
possa indulgentemente accettarlo come corretto, significa che tutti questi
elementi della cultura contemporanea sono unificati da uno stato d'animo
fondamentale: la coscienza che l’universo ordinato e immutabile di un tempo,
nel mondo contemporaneo rappresenta al massimo una nostalgia: ma non è più il
nostro. Di qui – c'è bisogno di dirlo? – la problematica della crisi, perché occorre
una salda struttura morale e molta fede nelle possibilità dell’uomo per accettare
a cuor leggero un mondo in cui pare impossibile introdurre moduli d'ordine
definitivi.
Improvvisamente qualcuno ha incontrato
lo Zen; fatta autorevole dalla sua età venerabile questa dottrina veniva ad
insegnare che l’universo, il tutto, è mutevole, indefinibile, sfuggente,
paradossale; che l’ordine degli eventi è una illusione della nostra
intelligenza sclerotizzante, che ogni tentativo di definirlo e fissarlo in
leggi è votato allo scacco... Ma che appunto nella piena coscienza e nella
accettazione gioiosa di questa condizione sta l’estrema saggezza, l’illuminazione
definitiva; e che la crisi eterna dell’uomo non nasce perché egli deve definire
il mondo e non vi riesce, ma perché vuole definirlo mentre non deve. Estrema
proliferazione del buddismo mahayana, lo Zen sostiene che la divinità è
presente nella viva molteplicità di tutte le cose, e che la beatitudine non consiste
nel sottrarsi al flusso della vita per svanire nell’incoscienza del Nirvana
come nulla, ma nell’accettare tutte le cose, nel vedere in ciascuna l’immensità
del tutto, nell’essere felici della felicità del mondo che vive e pullula di
eventi. L’uomo occidentale ha scoperto nello Zen l’invito a realizzare questa
accettazione rinunciando ai moduli logici e operando solo prese di contatto
diretto con la vita.
Per
questo in America oggi si usa distinguere tra Beat Zen e Square Zen. Lo Square
Zen è lo Zen “quadrato”, regolare, ortodosso, a cui si rivolgono quelle persone
che avvertono confusamente di aver trovato una fede, una disciplina, una “via”
di salvezza (e quante non sono, irrequiete, confuse, disponibili, in America,
pronte ad andare dalla Christian Science all’Esercito della Salvezza ed ora,
perché no, allo Zen), e sotto la guida dei maestri giapponesi partecipano a
veri e propri corsi di esercizi spirituali, apprendendo la tecnica del “sitting”,
passano lunghe ore di meditazione silenziosa controllando la propria
respirazione per arrivare a rovesciare, come insegnano alcuni maestri, la
posizione cartesiana affermando: “Respiro, tuttavia esisto”. II Beat Zen è
invece lo Zen di cui si sono fatti una bandiera gli hypsters del
gruppo di San Francisco, i Jack Kerouac, i Ferlinghetti, i Ginsberg, trovando
nei precetti e nella logica (anzi nella “illogica”) Zen le indicazioni per un
certo tipo di poesia, nonché i moduli qualificati per un rifiuto della american way of life; la beat generation si
rivolta all’ordine esistente non cercando di cambiarlo ma ponendosene ai
margini e “cercando il significato della
vita in una esperienza, soggettiva piuttosto che in un risultato oggettivo”.[2]
I beatniks usano
lo Zen come qualificazione del proprio individualismo anarchico: e come ha
fatto notare Harold E. McCarthy in un suo studio sul “naturale” e lo “innaturale”
nel pensiero di Suzuki[3]
hanno accettato senza troppe discriminazioni certe affermazioni del maestro
giapponese per cui i principi e i modi dell’organizzazione sociale sono
artificiali. Questo spontaneismo è suonato suggestivo alle orecchie di una
generazione già educata da certo tipo di naturalismo e nessuno degli hypsters ha
posto mente al fatto che lo Zen non rifiuta la socialità tout court, ma rifiuta
una socialità conformizzata per cercare una socialità spontanea i cui rapporti
si fondino su di una adesione libera e felice, ciascuno riconoscendo l’altro
come parte di uno stesso corpo universale. Senza accorgersi di non aver fatto
altro che adottare i modi esteriori di un conformismo orientale, i profeti
della generazione battuta hanno sbandierato lo Zen come la giustificazione dei
loro religiosi vagabondaggi notturni e delle loro sacrali intemperanze. La
parola a Jack Kerouac:
“La nuova poesia americana tipizzata
dalla San Francisco Renaissance – vale a dire Ginsberg, io, Rexroth,
Ferlinghetti, Mc-Clure, Corso, Gary Snyder, Phil Lamantia, Philip Whalen,
almeno penso – è un genere di vecchia e nuova follia poetica Zen, lo scrivere
tutto quello che vi salta in testa cosi come viene, poesia tornata alle
origini, veramente ORALE, come dice Ferlinghetti, non un barboso cavillo
accademico... Questi nuovi puri poeti si confessano per la semplice gioia
della confessione. Sono FANCIULLI... Essi CANTANO, cedono al ritmo. Il che è
diametralmente opposto alla sparata di Eliot che ci consiglia le sue
costernanti e desolanti regole come il ‘correlativo’ e così via, nient’altro
che un insieme di stitichezza e infine di castrazione del maschio bisogno di cantare
liberamente... Ma la San Francisco Renaissance è la poesia di una nuova Santa
Follia come quella dei tempi antichi (Li Po, Hanshan, Tom O Bedlam, Kit Smart,
Blake), ed è anche una disciplina mentale tipizzata nello haiku, vale a dire il metodo di puntare
direttamente alle cose, puramente, concretamente, senza né astrazioni né
spiegazioni, wham wham the true blue song of man”.[4]
Cosi Kerouac nel Dharma Bums descrive
i suoi vagabondaggi nei boschi, colmi di meditazioni e aspirazioni alla
completa libertà; la sua è l’autobiografia di una presunta illuminazione (di
un satori, come
direbbero i maestri Zen) raggiunta in una serie di estasi silvestri e solitarie:
“...sotto la luna io vidi la verità: qui,
questo è Cio' … il mondo com’è il Nirvana, io sto
cercando il Cielo al di fuori mentre il Cielo è qui, il Cielo è nient'altro che
questo povero pietoso mondo. Ah, se potessi comprendere, se potessi dimenticare
me stesso, e dedicare le mie meditazioni alla liberazione, alla coscienza e
alla beatitudine di tutte le creature viventi, io comprenderei che tutto quel
che c’è è estasi”.
Ma sorge il dubbio che questo sia appunto Beat Zen, uno Zen personalissimo, che
quando Kerouac afferma: “Non so. Non me
ne importa. Non fa alcuna differenza”, in questa dichiarazione non ci sia
tanto del distacco quanto una certa ostilità, una autodifesa irosa, molto
lontana dal sereno e affettuoso disimpegno del vero “illuminato”.
Nelle sue estasi boscherecce Kerouac scopre che “ogni cosa è buona per sempre, e per sempre e
per sempre”; e scrive I WAS FREE in tutte maiuscole: ma questa è pura
eccitazione, e infine è un tentativo di comunicare agli altri una esperienza
che lo Zen ritiene incomunicabile, e di comunicarla attraverso artifici
emotivi là dove lo Zen offre al neofita la lunga, decennale meditazione su di
un problema paradossale per depurare la mente sovraccarica nel pieno scacco dell’intelligenza.
Non sarà allora il Beat Zen uno Zen molto facile, fatto per individui inclini
al disimpegno che lo accettano come i fegatosi di quarant’anni fa eleggevano
il superuomo nietzschiano a bandiera della loro intemperanza? Dove è finita
la pura silenziosa serenità del maestro Zen e “il virile bisogno di cantare liberamente”
nella imitazione catulliana di Allen Ginsberg (Malest Cornifici tuo Catullo) che
domanda comprensione per la sua onesta propensione verso gli adolescenti, e
conclude: “ You’re angry at me. For all my lovers? – It’s hard to eat shit, without having vision – &
when they have eyes for me it’s Heaven”?
Ruth Fuller Sasaki, una signora americana che nel '58
fu ordinata prete Zen (grande onore per una occidentale e donna per giunta),
rappresentante di uno Zen molto square,
afferma: “In
Occidente lo Zen sembra stia attraversando una fase cultuale. Lo Zen non è un
culto.Il problema con gli occidentali è che vogliono credere a qualcosa e
contemporaneamente vogliono farlo nel modo più facile. Lo Zen è un lavoro di
autodisciplina e studio che dura tutta la vita”. Questo non è certo il
caso della beat generation, ma c'è chi si domanda se anche l’atteggiamento
dei giovani anarchici individualisti non rappresenti un aspetto complementare
di un sistema di vita Zen; il più comprensivo è Alan Watts, che nell’articolo
citato si rifà ad
un apologo indiano, per cui esistono due “vie”, quella del gatto e quella
della scimmia: il gattino non fa sforzi per vivere, perché la madre lo porta in
bocca; la scimmia segue la via dello sforzo perché si tiene stretta al dorso
della madre afferrandola per i peli del capo. I beatniks seguirebbero
la via del gattino. E con molta indulgenza Watts conclude, nel suo articolo su
Beat e Square Zen, che se qualcuno vuole passare alcuni anni in un monastero
giapponese, non c'è ragione, perché non lo faccia; ma se altri preferisce rubare
automobili e girare tutto il santo giorno dischi di Charlie Parker, l’America è
infine un paese libero.
Vi sono però altre zone dell’avanguardia
dove possiamo trovare influenze Zen più interessanti ed esatte: più
interessanti perché qui lo Zen non serve tanto a giustificare un atteggiamento
etico quanto a promuovere delle strategie stilistiche; e più esatte, appunto,
perché il richiamo può essere controllato su particolarità formali di una
corrente o di un artista. Una caratteristica fondamentale sia dell’arte che
della non-logica Zen è il rifiuto della simmetria. La ragione ne è intuitiva,
la simmetria rappresenta pur sempre un modulo d'ordine, una rete gettata
sulla spontaneità, l’effetto di un calcolo: e lo Zen tende a lasciar crescere
gli esseri e gli eventi senza preordinare gli esiti. Le arti della scherma e
della lotta non fanno altro che raccomandare un atteggiamento di flessibile
adattabilità al tipo di attacco portato, una rinuncia alla risposta calcolata,
un invito alla reazione come assecondamento dell’avversario. E nel teatro
Kabuki la disposizione a piramide rovesciata, che caratterizza i rapporti
gerarchici dei personaggi in scena, è sempre parzialmente alterata e “sbilanciata”,
in modo che l’ordine suggerito abbia sempre qualcosa di naturale, spontaneo,
imprevisto.[5]
La pittura classica Zen non solo accetta tutti questi presupposti enfatizzando l’asimmetria,
ma valorizza anche lo spazio come entità positiva in sé, non come ricettacolo
delle cose che vi si stagliano, ma come matrice di esse: c'è in questo
trattamento dello spazio la presunzione dell’unità dell’universo, una
onnivalorizzazione di tutte le cose: uomini, animali e piante sono trattati con
stile impressionistico, confusi con il fondo. Ciò significa che in questa
pittura vi è una prevalenza della macchia sulla linea; certa pittura giapponese
contemporanea ampiamente influenzata dallo Zen è vera e propria pittura tachiste, e
non è un caso se nelle attuali esposizioni di pittura informale i giapponesi
sono sempre ben rappresentati. In America pittori come Tobey o Graves sono
esplicitamente considerati come rappresentanti di una poetica abbondantemente
imbevuta di zenismo, e nella critica corrente il richiamo all’asimmetria Zen
per qualificare le attuali tendenze dell’art brut appare
con una certa frequenza.[6]
D’altra parte è evidente – ed è stato detto più volte
– come nelle produzioni dell’arte “informale” vi sia una chiara tendenza all'apertura, una
esigenza di non conchiudere il fatto plastico in una struttura definita, di
non determinare lo spettatore ad accettare la comunicazione di una data
configurazione; e di lasciarlo disponibile per una serie di fruizioni libere,
in cui egli scelga gli esiti formali che gli appaiono congeniali. In un quadro
di Pollock non ci viene presentato un universo figurativo conchiuso: l’ambiguo,
il vischioso, l’asimmetrico
vi intervengono proprio per far sì che lo spunto plastico-coloristico
proliferi continuamente in una incoatività di forme possibili. In questa
offerta di possibilità, in questa richiesta di libertà fruitiva sta una
accettazione dell’indeterminato e un rifiuto della casualità univoca. Non potremmo
immaginarci un seguace dell’action painting che
cerca nella filosofia aristotelica della sostanza la giustificazione della sua
arte. Quando un critico si richiama all’asimmetria e all’apertura Zen possiamo
anche avanzare riserve filologiche; quando un pittore esibisce giustificazioni
in termini Zen possiamo sospettare della chiarezza critica del suo
atteggiamento: ma non possiamo negare una fondamentale identità di atmosfera,
un comune richiamo al movimento come non-definizione della nostra posizione
nel mondo. Una autorizzazione dell’avventura nell’apertura.
Ma dove l’influenza dello Zen si è
fatta sentire nel modo più sensibile e paradossale è
nell’avanguardia musicale d'oltre oceano. Ci
riferiamo in particolare a John Cage, la figura più
discussa della musica americana (la più paradossale
senz'altro di tutta la musica contemporanea), il musicista col quale molti
compositori post-weberniani ed elettronici sono spesso in polemica senza poter
fare a meno di subire comunque il fascino e l’inevitabile magistero del suo
esempio. Cage è il profeta della disorganizzazione musicale, il
gran sacerdote del caso: la disgregazione delle
strutture tradizionali che la nuova musica seriale persegue con una decisione
quasi scientifica, trova in Cage un eversore privo del minimo ritegno. Sono
noti i suoi concerti in cui due esecutori, alternando le emissioni dei suoni a
lunghissimi periodi di silenzio, traggono dal pianoforte le più eterodosse
sonorità pizzicandone le corde, percotendone i fianchi e infine alzandosi e
sintonizzando una radio su di una lunghezza d'onda scelta a caso in modo che
qualsiasi apporto sonoro (musica, parola o disturbo indistinto) si possa
inserire nel fatto esecutivo. A chi lo interpella circa le finalità della sua
musica Cage risponde citando Lao Tzu e avvertendo il pubblico che solo urtando
nella piena incomprensione e misurando la propria stoltezza esso potrà cogliere
il senso profondo del Tao. A chi gli oppone che la sua non è musica, Cage
risponde che in effetti non intende far della musica; a chi pone questioni
troppo sottili risponde pregando di ripetere la domanda: a domanda ripetuta
prega ancora di rinnovare l’interrogazione; alla terza preghiera di ripetere, l’interlocutore
si rende conto che: “Prego, vuole
ripetere la domanda?” non costituisce una preghiera ma la risposta alla
domanda stessa. Il più delle volte Cage prepara per i suoi contraddittori
risposte prefabbricate, buone per qualsiasi domanda, dal momento che vogliono
essere prive di senso. L’ascoltatore superficiale ama pensare a Cage come ad un
fumista neppure troppo abile, ma i suoi continui riferimenti alle dottrine
orientali dovrebbero mettere in guardia sul suo conto: prima che come musicista
di avanguardia egli deve essere visto come il più inopinato dei maestri Zen, e
la struttura dei suoi contraddittori è perfettamente identica a quella dei mondo, le
tipiche interrogazioni dalle risposte assolutamente casuali con le quali i
maestri giapponesi conducono il discepolo alla illuminazione. Sul piano
musicale si può utilmente discutere se il destino della nuova musica stia nel
completo abbandono alla felicità del caso oppure nella disposizione di
strutture “aperte” ma tuttavia orientate secondo moduli di possibilità formale[7]:
ma sul piano filosofico Cage è intoccabile, la sua dialettica Zen perfettamente
ortodossa, la sua funzione di pietra dello scandalo e di stimolatore delle
intelligenze assopite, impareggiabile. E c'è da chiedersi se egli stia
portando acqua al mulino della soteriologia Zen o al mulino musicale,
perseguendo un lavaggio delle menti dalle abitudini musicali acquisite. Il
pubblico italiano ha avuto occasione di conoscere John Cage nelle vesti di
concorrente di Lascia o Raddoppia impegnato a rispondere sui funghi; ha riso
di fronte a questo eccentrico americano che organizzava concerti per
caffettiere sotto pressione e frullatori elettrici davanti agli occhi
esterrefatti di Mike Bongiorno, e ha probabilmente concluso che ci si trovava
di fronte ad un pagliaccio capace di sfruttare l’imbecillità delle folle e la
compiacenza dei mass media. Ma in effetti Cage affrontava questa
esperienza con lo stesso disinteressato umorismo con cui il seguace dello Zen
affronta qualsiasi evento della vita, con cui i maestri Zen si chiamano l’un l’altro
“vecchio sacco di riso”, con cui il professor Suzuki, interrogato sul significato
del suo primo nome — Daisetz — impostogli da un prete Zen, risponde che
significa “grande stupidità” (mentre in effetti significa “grande semplicità”).
Cage si divertiva a mettere Bongiorno e il pubblico di fronte al non-senso dell’esistenza,
cosi come il maestro Zen obbliga il discepolo a riflettere sul koan, l’indovinello
senza soluzione dal quale dovrà scaturire la sconfitta dell’intelligenza e l’illuminazione.
È dubbio che Mike Bongiorno sia rimasto illuminato, ma Cage avrebbe potuto
rispondergli come rispose alla anziana signora che, dopo un suo concerto a
Roma, si alzò per dirgli che la sua musica era scandalosa, ripugnante e
immorale: “C'era una volta in Cina una signora bellissima che faceva impazzire
d'amore tutti gli uomini della città; una volta cadde nel profondo del lago e
spaventò i pesci”. E infine, al di fuori di questi atteggiamenti pratici la
musica stessa di Cage rivela – se pure il suo autore non ne parlasse
esplicitamente – molte e precise affinità con la tecnica dei No e
delle rappresentazioni del teatro Kabuki, non foss’altro che per le
lunghissime pause alternate da momenti musicali assolutamente puntuali. Chi
poi ha potuto seguire Cage nel montaggio della banda magnetica con rumori
concreti e sonorità elettroniche per il suo Fontana Mix (per
soprano e banda magnetica), ha visto come egli abbia assegnato a diversi
nastri già registrati una linea di diverso colore; come poi abbia condotto su
di un modulo grafico queste linee ad interallacciarsi casualmente su di un foglio
di carta; e come infine, fissati i punti in cui le linee si intersecavano,
abbia scelto e montato le parti del nastro che corrispondevano ai punti
prescelti dallo hasard, ottenendone
una sequenza sonora retta dalla logica dell’imponderabile. Nella consolante
unità del Tao ogni suono vale tutti i suoni, ogni incontro sonoro sarà il più
felice e il più ricco di rivelazioni: all’ascoltatore non rimarrà che abdicare
alla propria cultura e perdersi nella puntualità di un infinito musicale
ritrovato.
Questo per Cage; autorizzati a rifiutarlo o a contenerlo
nei limiti di un neodadaismo di rottura; autorizzati a pensare, e non è
impossibile, che il suo buddismo non sia che una scelta metodologica che gli
permette di qualificare la propria avventura musicale. Tuttavia ecco un altro
filone per cui lo Zen appartiene di diritto alla cultura occidentale
contemporanea.
Si è detto neo-Dada: e occorre domandarsi se uno dei
motivi per cui lo Zen è riuscito congeniale all’Occidente non consista nel
fatto che le strutture immaginative dell’uomo occidentale sono state rese
ormai agili dalla ginnastica surrealistica e dalle celebrazioni dell’automatismo.
C'è molta differenza tra questo dialogo: “Cosa
è il Buddha? Tre libbre di lino”, e quest'altro: “Cos'è il violetto? Una doppia mosca”? Formalmente no. I motivi sono
diversi, ma è certo che viviamo in un mondo disposto ad accettare con colta e
maligna soddisfazione gli attentati alla logica.
Ionesco avrà letto i dialoghi della tradizione Zen?
Non risulta, ma non sapremmo quale differenza di struttura vi sia tra un mondo e
questa battuta del Salon de l'Automobile: “Quanto
costa questa macchina? Dipende dal prezzo”.
C'è qui la stessa circolarità aporetica che esiste nei koan, la
risposta ripropone la domanda e cosi via all’infinito sinché la ragione non
firmi un atto di resa accettando l’assurdo come tessuto del mondo. Lo stesso
assurdo di cui sono imbevuti i dialoghi di Beckett. Con una differenza,
naturalmente: che la beffa di Ionesco e Beckett trasuda angoscia – e quindi non
ha nulla a che vedere con la serenità del saggio Zen. Ma proprio qui sta il
sapore di novità del messaggio orientale, l’indubbio perché del suo successo:
attacca un mondo con gli stessi schemi illogici cui lo sta abituando una
letteratura della crisi e lo avverte che proprio nel fondo degli schemi illogici,
nella loro piena assunzione, sta la soluzione della crisi, la pace. Una certa
soluzione, una certa pace: non la nostra, direi, non quella che cerchiamo, ma
alfine, per chi ha i nervi logori, una soluzione e una pace.
Comunque, autorizzati o meno che
fossero i filoni, lo Zen conquistando l’Occidente ha invitato a riflettere anche
le persone criticamente più agguerrite. La psicoanalisi in America si è talora
impadronita dei metodi Zen, la psicoterapia in genere ha trovato in certe sue
tecniche un ausilio particolare[8].
Jung si è interessato agli studi del professor Suzuki[9],
e questo accettare con perfetta serenità il non-senso del mondo risolvendolo in
una contemplazione del divino può apparire una via di sublimazione della
nevrosi del nostro tempo. Uno dei motivi a cui i maestri Zen ricorrono più sovente
nell’accogliere i discepoli, è quello dello svuotamento della propria coscienza
da tutto ciò che può turbare l’iniziazione. Un discepolo si presenta ad un
maestro Zen per chiedere dei lumi: il maestro lo invita a sedersi e gli offre
quindi una ciotola di tè secondo il complesso rituale che presiede alla
cerimonia. Come l’infuso è pronto egli lo versa nella ciotola del visitatore e
continua anche quando il liquido comincia a debordarne. Alla fine il discepolo
allarmato tenta di fermarlo avvertendolo che la ciotola "è piena".
Allora il maestro risponde: “Come questa
ciotola tu sei pieno delle tue opinioni e dei tuoi ragionamenti. Come posso
mostrarti lo Zen sinché tu non avrai vuotato la tua tazza?” Notiamo che
questo non è l’invito di Bacone a sbarazzarsi degli idola, o
quello di Cartesio a disfarsi delle idee confuse: è l’invito a liberarsi di
tutte le turbe e i complessi, meglio, dell’intelligenza sillogizzante come
turba e come complesso; tanto che la mossa successiva non consisterà nell’esperimento
empirico e nella ricerca di nuove idee, ma nella meditazione sul koan, dunque
in un'azione nettamente terapeutica. Non c'è da stupirsi se psichiatri e
psicanalisti abbiano qui trovato delle indicazioni avvincenti.
Ma le analogie sono state trovate anche in altri
settori. Quando usci nel 1957 il Der Satz vom Grund di Heidegger da varie parti furono
notate le implicazioni orientali della sua filosofia e vi fu chi si rifece
espressamente allo Zen osservando come lo scritto del filosofo tedesco facesse
pensare ad un dialogo con un maestro Zen di Kioto, Tsujimura[10].
Quanto ad altre dottrine filosofiche, Watts stesso,
nell’introduzione al suo libro, parla di connessioni con la semantica, il
metalinguaggio, il neopositivismo in genere[11].
Alla radice, i riferimenti più espliciti sono stati fatti per la filosofia di
Wittgenstein. Nel suo saggio Zen and the Work of Wittgenstein[12] Paul
Wienpahl osserva: “Wittgenstein ha
raggiunto uno stato spirituale simile a quello che i maestri Zen chiamano satori, e ha elaborato un metodo educativo
che sembra il metodo dei mondo e dei koan”. A
prima vista questo trovare la mentalità Zen alla radice del neopositivismo
logico può sembrare almeno tanto stupefacente quanto trovarla in Shakespeare:
ma occorre pur sempre ricordare che, almeno ad incoraggiare tali analogie, vi è
in Wittgenstein la rinuncia alla filosofia come
spiegazione totale del mondo. Ce una primalità conferita al fatto atomico (e
quindi “puntuale”) in quanto irrelato, il rifiuto della filosofia come
posizione di relazioni generali tra questi fatti e la sua riduzione a pura
metodologia di una descrizione corretta di essi. Le proposizioni linguistiche
non interpretano il fatto e nemmeno lo spiegano: esse lo “mostrano”, ne
indicano, ne riproducono specularmente le connessioni. Una proposizione
riproduce la realtà come una sua particolare proiezione, ma nulla può essere
detto circa l’accordo tra i due piani: esso può solo venire mostrato. Né
la proposizione, se pure in accordo con la realtà, può venire comunicata:
perché in tal caso non avremmo più una affermazione verificabile circa la
natura delle cose, ma circa il comportamento di chi ha fatto l’affermazione
(insomma “oggi piove” non può venire comunicata come “oggi piove”, ma come “X
ha detto che oggi piove”).
Che se poi della proposizione si
volesse esprimere la forma logica, neppur questo sarebbe possibile:
“Le proposizioni possono
rappresentare l’intera realtà ma non possono rappresentare ciò che debbono
avere in comune con essa per poterla rappresentare: la forma logica. Per poter
rappresentare la forma logica dovremmo essere capaci di porre noi stessi, con
le proposizioni, al di fuori della logica, cioè al di fuori del mondo”
(4.12).
Questo rifiutarsi di uscire dal
mondo e irrigidirlo in spiegazioni giustifica i riferimenti allo Zen. Il Watts
cita l’esempio del monaco che, al discepolo che lo interrogava sul significato
delle cose, risponde alzando il proprio bastone; il discepolo spiega con molta
sottigliezza teologica il significato del gesto, ma il monaco ribatte che la
sua spiegazione è troppo complessa. Il discepolo domanda allora quale sia la
spiegazione esatta del gesto. Il monaco risponde alzando di nuovo il bastone.
Si legga ora Wittgenstein: “Ciò che può
essere mostrato non può essere detto”. (4.1212) L’analogia è ancora
esteriore, ma affascinante; cosi come è affascinante l’impegno fondamentale
della filosofia wittgensteiniana, di dimostrare cioè come tutti i problemi
filosofici siano irresolubili perché privi di senso: i mondo e
i koan non
hanno altro obiettivo.
Il Tractatus Logico-Philosophicus può
essere visto come un crescendo tale di affermazioni da colpire chi abbia
familiarità con il linguaggio Zen:
"Il mondo è tutto ciò che accade [1]. Le maggiori tra le proposizioni e
i problemi che sono stati esposti intorno ad argomenti filosofici non sono
falsi, ma sono privi di senso. Quindi non possiamo rispondere a domande di
questo genere, ma soltanto affermare la loro mancanza di senso. La maggior
parte delle proposizioni e dei problemi dei filosofi risultano dal fatto che
noi non conosciamo la logica del nostro linguaggio... E quindi non c'è da meravigliarsi
se i problemi più profondi in realtà non sono affatto problemi [4.003]. Non come il mondo è, è il mistico (das Mystische), ma che è [6.44]. La soluzione del problema
della vita si vede nello, svanire di questo problema [6521]. C’è davvero l’inesprimibile.
Esso si mostra; è il mistico [6.522]. Le mie proposizioni sono esplicative in
questo modo: chi mi comprende alla fine le riconosce prive di significato,
quando è salito attraverso di esse, su di esse, al di là di esse. (Egli deve
per così dire gettar via la scala dopo esservi salito sopra.) Deve passare al
di sopra di queste proposizioni: allora vede il mondo al modo giusto [654]”.
Non c'è bisogno di molti commenti.
Quanto all’ultima affermazione, ricorda stranamente, come è stato notato, il
fatto che la filosofia cinese usi l’espressione “rete di parole” per indicare l’irrigidimento
dell’esistenza nelle strutture della logica; e che i cinesi dicono: “La rete serve a prender il pesce: fate che
si prenda il pesce e si dimentichi la rete”. Gettare la rete, o la scala, e
vedere il mondo: coglierlo in una presa diretta in cui ogni parola sia
d'impaccio: questo è il satori.
Chi rapporta Wittgenstein allo Zen pensa che ci sia
solo la salvezza del satori per chi ha pronunciato sulla scena della filosofia
occidentale queste terribili parole: “Di
ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Occorre ricordare come i maestri Zen, quando il discepolo
arzigogola con troppa sottigliezza, gli appioppino un bel ceffone, non per
punirlo, ma perché uno schiaffo è una presa di contatto con la vita sulla quale
non si può ragionare: lo si sente, e basta. Ora Wittgenstein, dopo aver
esortato parecchie volte i propri discepoli a non occuparsi di filosofia,
abbandonò l’attività scientifica e l’insegnamento accademico, per dedicarsi
alle attività ospedaliere, all’insegnamento spicciolo nelle scuole elementari
dei villaggi austriaci. Scelse insomma la vita, l’esperienza, contro la
scienza.
Tuttavia è facile lavorare di illazioni e analogie su
Wittgenstein e uscire dai limiti dell’esegesi corretta. Wienpahl ritiene che il
filosofo austriaco si sia avvicinato ad uno stato d'animo di tale distacco da
teorie e concetti da credere che tutti i problemi fossero risolti perché
dissolti. Ma
il distacco di Wittgenstein è del tutto uguale a quello buddista? Quando il
filosofo scrive che la necessità di accadere, per una cosa, perché un'altra è
accaduta, non esiste perché si tratta solo di una necessità logica, Wienpahl
ha buon gioco ad interpretare: la necessità è dovuta alle convenzioni del
linguaggio, non è reale, il mondo reale si risolve in un mondo di concetti e
quindi in un falso mondo. Ma per Wittgenstein le proposizioni logiche
descrivono l’impalcatura del mondo (6.124). È vero che sono tautologiche e non
dicono assolutamente nulla circa la conoscenza effettiva del mondo empirico,
ma non sono in contrasto con il mondo e non negano i
fatti: si muovono in una dimensione che non è quella dei fatti ma consentono di
descriverli [13].
Insomma, il paradosso di una intelligenza sconfitta, da buttar via dopo che è
servita, da buttar via quando si è scoperto che non serve, è presente in
Wittgenstein come nello Zen: ma per il filosofo occidentale sussiste, malgrado
la scelta apparente del silenzio, il bisogno di usare pur sempre l’intelligenza
per ridurre a chiarezza almeno una parte del mondo. Non si deve tacere su
tutto: solo su ciò di cui non si può parlare, e cioè sulla filosofia. Ma
rimangono aperte le vie della scienza naturale. In Wittgenstein l’intelligenza
si sconfigge da sola perché si nega nel momento stesso che si adopera a
offrirci un metodo di verifica: ma il risultato finale non è il silenzio
completo, almeno nelle intenzioni.
È peraltro vero che le analogie si fanno più serrate –
e il discorso di Wienpahl più persuasivo – con le Philosophische Untersuchungen. Viene
fatta notare una impressionante analogia tra una affermazione di quest'opera (“La chiarezza che stiamo cercando è chiarezza completa . Ma ciò significa semplicemente che
i problemi filosofici devono sparire completamente” [133])
e il dialogo tra il maestro Yao-Shan e un discepolo che gli chiedeva cosa mai
stesse facendo a gambe incrociate (risposta: “Pensavo a ciò che è al di là del pensiero”. Domanda: “Ma come fai a pensare a ciò che sta al di là
del pensiero?” Risposta: “Non
pensando”). Certe frasi delle Indagini filosofiche — quella ad esempio per cui il compito
della filosofia sarebbe “insegnare alla mosca la via della bottiglia” — sono di
nuovo espressioni da maestro Zen. E nelle Lecture Notes di
Cambridge, Wittgenstein ha indicato il compito della filosofia come una “lotta contro il fascino esercitato dalle
forme di rappresentazione”, come un trattamento psicoanalitico per liberare
“chi soffra di certi crampi mentali prodotti dall’incompleta coscienza
delle strutture del proprio linguaggio”.
È inutile ricordare l’episodio del maestro che versa il tè. Questo di
Wittgenstein è stato definito un “positivismo terapeutico” e appare come un
insegnamento che, invece di dare la verità, mette sulla strada per ottenerla
personalmente.
A tirare le somme non si può non
concludere che in Wittgenstein vi sia effettivamente lo svanire della filosofia
nel silenzio, nel momento stesso in cui si ha l’instaurazione di un metodo di
rigorosa verifica logica di pretta tradizione occidentale. Non si dicono cose
nuove. Wittgenstein ha questi due volti, e il secondo è quello che è stato
accolto dal positivismo logico. Dire del primo, quello del silenzio che
è un volto Zen significa in realtà fare un abile gioco di parole per dire che
si tratta di un volto mistico.
E Wittgenstein fa parte indubbiamente della grande
tradizione mistica germanica, e si allinea coi celebratori dell’estasi, dell’abisso
e del silenzio, da Eckhart a Suso e a Ruysbroek. C'è chi — come Ananda
Coomaraswamy — ha scritto a lungo sulle analogie tra pensiero indiano e mistica
tedesca, e Suzuki ha detto che per Meister Eckhart occorre parlare di vero e
proprio satori .[14]
Ma qui le equazioni diventano fluide e tanto vale dire che il momento mistico
dell’abbandono dell’intelligenza classificante è un momento ricorrente nella
storia dell’uomo. E per il pensiero orientale è una costante.
Dato Zen = misticismo allora si possono instaurare molti
paragoni. Le ricerche di Blyth sullo Zen nella letteratura anglosassone sono
di questo tipo, mi pare. Si veda ad esempio l’analisi di una poesia di Dante
Gabriele Rossetti, in cui si descrive un uomo in preda all’angoscia che cerca
una qualsiasi risposta al mistero dell’esistenza. Mentre erra per i campi alla
vana ricerca di un segno o di una voce, a un certo punto, abbattutosi ginocchia
a terra, in posa di preghiera, il capo piegato contro le gambe, gli occhi fissi
a pochi centimetri dalle erbe, scorge ad un tratto una euforbia selvatica (euphorbia amigdaloydes) dalla
caratteristica triplice infiorescenza a coppa: The woodspurge flowered, three cups in one.
A quella vista l’anima
si apre in un lampo, come in una illuminazione repentina, e il poeta comprende:
“From perfect grief there need not be / Wisdom or even memory / One thing then learnt remains to me, / The woodspurge has a cup of three".
Di tutto il complesso problema che lo piegava, ora rimane
una sola verità, semplice ma assoluta, inattaccabile: l'euforbia ha un triplice calice. È
una proposizione atomica, e il resto è silenzio. Non v'è dubbio. Ed è una scoperta
molto Zen, come quella del poeta P'ang Yun che canta: “Quale meraviglia soprannaturale / quale miracolo è questo! / Tiro l’acqua
dal pozzo / e porto la legna!”. Ma siccome lo stesso Blyth ammette che
questi momenti Zen sono involontari, tanto vale dire che nei momenti di
comunione panica con la natura, l’uomo è portato a scoprire l’assoluta e
puntuale importanza di ogni cosa. Su questo piano si potrebbe fare una analisi
di tutto il pensiero occidentale, e andare a finire, ad esempio, al concetto di
complicatio in
Niccolò Cusano. Ma sarebbe appunto un altro discorso.
Di tutte queste “scoperte” e analogie ci rimane tuttavia
un dato di sociologia culturale: lo Zen ha affascinato alcuni gruppi di
persone e ha offerto loro una formula per ridefinire i momenti mistici della
cultura occidentale e della loro storia psicologica individuale.
E ciò è avvenuto anche perché, indubbiamente, tra
tutte le sfumature del pensiero orientale, spesso cosi estraneo alla nostra
mentalità, lo Zen è quello che poteva riuscire più familiare all’Occidente, per
il fatto che il suo rifiuto del sapere oggettivo non è un rifiuto della vita,
ma è anzi una accettazione gioiosa di essa, un invito a viverla più
intensamente, una rivalutazione della stessa attività pratica come
condensazione, in un gesto perseguito con amore, di tutta la verità dell’universo
vissuta nella facilità e nella semplicità. Un richiamo alla vita vissuta, alle
cose stesse; zu den Sachen selbst.
Il riferimento a una espressione husserliana viene
istintivo di fronte a espressioni come quella usata da Watts nell’articolo
citato: “…Lo Zen vuole che abbiate la
cosa stessa, the thing itself, senza
commento.” Occorre ricordare come nel
perfezionarsi in un certo “atto”, ad esempio il tiro all’arco, il discepolo
dello Zen ottiene il Ko-tsu,
vale a dire una certa facilità di contatto con la cosa
stessa nella spontaneità dell’atto; il Ko-tsu viene interpretato come un tipo di satori e
il satori è
visto in termini di “visione” del noumeno (e potremmo dire visione delle essenze);
un intenzionare, diremmo, a tal punto la cosa conosciuta da divenire tutt'uno
con essa.[15]
Chi abbia qualche familiarità con la filosofia di Husserl potrà rilevare certe
innegabili analogie; e al postutto nella fenomenologia vi è un richiamo alla
contemplazione delle cose al di qua degli irrigidimenti delle abitudini percettive
e intellettuali, un “mettere tra parentesi” la cosa quale si è abituati a
vederla e interpretarla comunemente per cogliere con assoluta e vitale
freschezza la novità e l’essenzialità di un suo “profilo”. Per la fenomenologia
husserliana noi dobbiamo rifarci all’evidenza indiscutibile dell’esperienza
attuale, accettare il flusso della vita e viverlo prima di separarlo e fissarlo
nelle costruzioni dell’intelligenza, accettandolo in quella che è, come è
stato detto, “una complicità primordiale
con l’oggetto”. La filosofia come modo di sentire e come “guarigione”. Guarire,
in fondo, disapprendendo, ripulendo il pensiero dalle pre-costruzioni,
ritrovando l’intensità originaria del mondo della vita (Lebenswelt). Sono
parole di un maestro Zen mentre versa il tè al discepolo? “Il rapporto al mondo, come si pronuncia
infaticabilmente in noi, non è nulla che possa essere reso più chiaro da una
analisi: la filosofia non può che rimetterlo sotto il nostro sguardo, offrirlo
alla nostra constatazione... Il solo Logos che preesista è il mondo stesso...”
Sono parole di Maurice Merleau-Ponty nella sua Phénoménologie de la perception...
Se per i testi husserliani il riferimento allo Zen può
avere il valore di un richiamo dovuto a una certa agilità di associazioni, per
altre manifestazioni della fenomenologia possiamo basarci su accenni
espliciti. Basti citare Enzo Paci che in alcune occasioni si è rifatto a certe
posizioni del taoismo e dello zenismo per chiarire taluni suoi atteggiamenti[16].
E chi vada a leggere o rileggere gli ultimi due capitoli di Dall'esistenzialismo al relazionismo troverà un atteggiamento di contatto
immediato con le cose, un sentire gli oggetti nella loro epifanicità immediata,
che ha molto del “ritorno alle cose” dei poeti orientali che sentono la
profonda verità del gesto in cui attingono acqua dal pozzo. E anche qui è
interessante vedere come la sensibilità occidentale possa avvertire in queste
epifanie-contatto della mistica Zen qualcosa di molto simile alla visione degli
alberi apparsa al Narratore della Recherche
dietro una svolta di strada, alla ragazza-uccello di
James Joyce, alla falena impazzita dei Vecchi versi di Montale...
Vorrei tuttavia che il lettore
avvertisse esattamente che qui si tenta sempre di spiegare perché lo Zen ha
affascinato l’Occidente. Quanto a parlare di una validità assoluta del
messaggio Zen per l’uomo occidentale, avanzerei le più ampie riserve. Anche di
fronte ad un buddismo che celebra la accettazione positiva della vita, l’animo
occidentale se ne distaccherà sempre per un bisogno ineliminabile di
ricostruire questa vita accettata secondo una direzione voluta dall’intelligenza.
Il momento contemplativo non potrà che essere uno stadio di ripresa, un
toccare la madre terra per riprendere energia: mai l’uomo occidentale accetterà
di smemorare nella contemplazione della molteplicità, ma si perderà sempre tentando
di dominarla e ricomporla. Se lo Zen gli ha riconfermato con la sua voce
antichissima che l’ordine eterno del mondo consiste nel suo fecondo disordine
e che ogni tentativo di sistemare la vita in leggi unidirezionali è un modo di
perdere il vero senso delle cose, l’uomo occidentale accetterà criticamente di
riconoscere la relatività delle leggi, ma le reintrodurrà nella dialettica
della conoscenza e dell’azione sotto forma di ipotesi di lavoro.
L’uomo occidentale ha appreso dalla
fisica moderna che il Caso domina la vita del mondo subatomico e che le leggi e
le previsioni da cui ci facciamo guidare per comprendere i fenomeni della vita
quotidiana sono valide solo perché esprimono delle medie statistiche approssimative.
L’incertezza è diventata il criterio essenziale per la comprensione del mondo:
sappiamo che non possiamo più dire “all’istante X l’elettrone A si troverà nel
punto B”, ma “all’istante X vi sarà una certa probabilità che l’elettrone A si
trovi nel punto B”. Sappiamo che ogni nostra descrizione dei fenomeni atomici
è complementare, che una descrizione può opporsi ad una altra senza che una sia
vera e l’altra falsa.
Pluralità ed equivalenza delle
descrizioni del mondo. È vero, le leggi causali sono crollate, la probabilità
domina la nostra interpretazione delle cose: ma la scienza occidentale non si
è lasciata cogliere dal terrore della disgregazione. Noi non possiamo
giustificare il fatto che possano valere delle leggi di probabilità: ma
possiamo accettare il fatto che esse funzionano, afferma Reichenbach. L’incertezza
e l’indeterminazione sono una oggettiva proprietà del mondo fisico. Ma la
scoperta di questo comportamento del microcosmo e l’accettazione delle leggi di
probabilità come l’unico mezzo atto a conoscerlo, devono venire intesi come un
risultato di altissimo ordine.[17]
C'è in questa accettazione la stessa gioia con cui lo
Zen accetta il fatto che le cose siano elusive e mutevoli: il taoismo chiama
questa accettazione Wu.
In una cultura sotterraneamente fecondata da questa forma mentis, lo
Zen ha trovato orecchie pronte ad accoglierne il messaggio come un sostitutivo
mitologico di una coscienza critica. Vi si è trovato l’invito a godere il
mutevole in una serie di atti vitali anziché ammetterlo soltanto come freddo
criterio metodologico. E tutto questo è positivo. Ma l’Occidente, anche quando
accetta con gioia il mutevole e rifiuta le leggi causali che lo immobilizzano,
non rinuncia tuttavia a ridefinirlo attraverso le leggi provvisorie della
probabilità e della statistica, perché – sia pure in questa nuova plastica
accezione – l’ordine e l’intelligenza che “distingue” sono la sua vocazione.
[1] Citeremo
in particolare: H. Dumoulin, Zen Geschichte und Gestalt, München,
Francke Verlag, 1959; Ch. Humphreis, Zen Buddhism, London, Allen &
Unwin, 1958; N. Senzaki e P. Reps, Zen Flesh, Zen Bones, Tokio, Tuttle,
1957; Chen-Chi-Chang, The Practice of Zen, N. Y., Harper,
1959; D. T. Suzuki, Introduction to Zen Buddhism, London, Rider, 1949; R. Powell, Zen
and Reality, London, Allen & Unwin, 1961; A. W. Watts, La
via dello Zen, Milano, Feltrinelli, 1960; per una bibliografia più
vasta cfr. A. W. Watts, Lo Zen, Milano, Bompiani, 1959.
[2] Cfr. A.W. Watts, Beat Zen, Square Zen and Zen in “Chicago
Review”, Summer 1958 (numero unico sullo Zen). Sui rapporti tra Zen e beat
generation cfr. anche R. M. Adams, Strains of Discords, Ithaca, Cornell
Un. Pr. 1958, pag. 188.
[3] H.E. McCarthy, The Natural and Unnatural in Suzuki's Zen
in “Chic Rev.”, cit.
[4] The Origins of Joy in Poetry, in “Chicago Review”, Spring 1958.
[5] Cfr. ad es. E. Ernst, The Kabuki Theatre, London,
1956 (pagg. 182-184).
[6] Si veda la nota di
G. Dorfles in Il divenire delle arti, Torino, Einaudi, 1959, pag. 81 (Il
tendere verso l'Asimmetrico). Dorfles ha poi ripreso il tema in un
ampio saggio dedicato allo Zen, pubblicato prima sulla “Rivista di Estetica” e
poi in Simbolo, Comunicazione, Consumo, Torino, Einaudi, 1962.
[7] Come esempio di
due opposti atteggiamenti critici, si vedano nel n. 3 (agosto 1959) di
“Incontri Musicali” i saggi di P. BOULEZ (Alea) H.K. Metzger (J.
Cage o della liberazione).
[8] Cfr. ad es. A. Kondo, Zen in Psychotherapy: The Virtue
of Sitting, in “Chicago Review”, Summer 1958. Si veda pure E. Fromm,
D.T. Suzuki, De Martino, Zen Buddhims and Psychoanalysis, N.
Y., Harper & Bros., 1960.
[9] Cfr. la prefazione
di C.G. Jung a D. T. Suzuki, Infroduction to Zen Buddhism,
London, Rider, 1949.
[10] Cfr. l’articolo di
E. Vietta, Heidegger e il maestro Zen, in “Frankfurter Allgemeinc Zeitung”,
17 aprile 1957. Cfr. anche N.C. Nielsen Jr., Zen Buddhism and the Philosophy
of M. Heidegger, Atti del XII Congresso Int. di Filosofia, vol. X, pag.
131.
[11] Citiamo pure la
discussione svoltasi sulla rivista Philosophy East and West della Università di
Honolulu: Van Meter Ames, Zen and American Philosophy (n. 5, 1955-56,
pagg. 305-320); D.T. Suzuki, Zen: a Reply to V. M. Ames (ib.);
Chen-Chi-Chang, The Nature of Zen Buddhism (n. 6, 1956-57, pag. 333).
[12] “Chicago Review”,
Summer 1958.
[13] “In opposizione ad atteggiamenti di stampo
bergsoniano abbiamo in lui la più alta valorizzazione della pura struttura
logica dell'espressione: comprendere questa... significa giungere ad una
autentica comprensione della realtà” (F. Barone, Il solipsismo linguistico di L.
Wittgenstein, in “Filosofia”, ottobre 1951).
[14] D.T. Suzuki, Mysticism Christian and Buddhist,
London, Allen & Unwin, 1957, pag. 79. Cfr. pure Sohaku Ogata, Zen
for the West, London, Rider & Co., 1959, pagg. 17-20: dove viene
svolta una comparazione fra testi Zen e pagine di Eckhart.
[15] Si veda sulla
natura del Ko-tsu l'articolo di Shiniki
Hisamatsu, Zen and the Various Acts, in “Chicago Review”, Summer 1958.
[16] Cfr. Esistenzialismo
e storicismo, Milano, Mondadori, 1950, Pagg. 273-280; e, più
esplicitamente, la conversazione radiofonica La crisi dell'indagine critica
andata in onda per il ciclo “La crisi dei valori nel mondo contemporaneo”
nell'agosto 1957.
[17] H. Reichenbach,
Modern
Philosophy of Science, London, 1959, pagg. 67-78.