Tratta dal quotidiano Il Foglio, una meditazione sulla Natività ricca di spunti di riflessione.
In particolare, si segnalano per la loro pressante attualità gli inviti a fare il presepe e a non dimenticare la tradizione.
Pubblichiamo
in esclusiva un’anticipazione di “Prediche corte, tagliatelle lunghe. Spunti
per l’anima” (208 pp., 13 euro), il volume edito da Edizioni Studio Domenicano
che contiene una selezione di brevi brani tratti da discorsi, relazioni e
omelie del cardinale Carlo Caffarra, scomparso lo scorso settembre a 79 anni.
La prefazione è firmata da mons. Matteo Maria Zuppi, attuale arcivescovo di
Bologna.
Il
Natale non è un mito
di
Carlo Caffarra
Fate
il presepe
Il
presepio è rappresentazione della nascita del Salvatore, e anche di come fu
accolto, o rifiutato. E’ quindi rappresentazione del primo incontro degli
uomini con Cristo, e in quel primo incontro nella storia subito si vide chi Lo
accoglieva e lo riconosceva come senso della vita, e Lo adorava orientando a
Lui la sua vita, e chi Lo rifiutava e anche Lo combatteva. Le semplici figure
dei presepi da sempre annunciano la presenza di Cristo e mettono in guardia
contro il sempre ricorrente rischio di non accoglierlo. Ma fare il presepio è
già una dichiarazione e un annuncio: far posto a Gesù Bambino nei luoghi dove
quotidianamente si vive vuol dire che si intende far posto a Lui nella vita, e
che si intende portargli i doni delle nostre opere.
Oblio
della tradizione
Immaginiamo
che in una scuola si voglia celebrare il Natale. Può essere che ci sia qualche
insegnante nelle scuole che… per rispetto a qualche bambino musulmano presente
in aula parli e presenti il Natale come la festa del solstizio, con
l’inevitabile presenza di Babbo Natale, e gli immancabili sermoni sulla pace e
la solidarietà. Si trasforma cioè una narrazione storica in un “mito” che offre
lo spunto per esortazioni moralistiche. Si compie in realtà un’operazione
ideologica, che viene imposta al bambino, sradicandolo dalla tradizione in cui
vive. […] L’oblio della tradizione o la sua trascuratezza ci fa ripartire dal
niente, costringendoci a costruzioni ideologiche dettate dal momento.
Il
cristianesimo è incontrare Gesù
Vogliamo
vedere Gesù (Gv 12,21). Il cristianesimo [...] prima di essere una dottrina da
apprendere e una regola da osservare, è l’avvenimento di un incontro:
l’incontro della nostra persona colla persona di Cristo. E’ lasciare che la sua
presenza occupi sempre più la nostra intelligenza, la nostra coscienza, la
nostra libertà, fino al punto che possiamo dire con san Paolo: per me vivere è
Cristo (Fil 1,21). E dove finalmente potete vedere, incontrare Gesù? Nella
Chiesa: “E’ in essa e per mezzo di essa che Gesù continua a rendersi visibile
oggi e a farsi incontrare dagli uomini” (Messaggio di Giovanni Paolo II, 5,3).
E la Chiesa si rende concretamente presente vicino a voi, davanti a voi, nella
vostra parrocchia, nei movimenti ed associazioni da essa riconosciuti. Perché
nella Chiesa e per mezzo della Chiesa voi potete incontrare Gesù? Perché nella
Chiesa voi potete sperimentare realmente la sua forza rigeneratrice della
vostra umanità mediante il sacramento della Confessione. Perché voi potete
entrare in una pienezza indicibile di comunione con Cristo mediante
l’Eucaristia. E’ l’Eucaristia il luogo in cui voi potete soprattutto incontrare
Cristo. E da questo incontro eucaristico voi ricevete la capacità di amare,
cioè di donare voi stessi. E’ per questo che solo nell’incontro eucaristico con
Cristo voi potete risolvere pienamente il problema, l’enigma della vita. L’uomo
infatti “rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di
senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non
lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente” (Lett. Enc.
Redemptor hominis 10,1, EE 8/28). E’ precisamente nell’incontro eucaristico con
Cristo che tu ti incontri con l’amore, lo fai tuo, vi partecipi vivamente:
l’amore di Cristo; l’amore con cui Cristo ha amato. E’ in questo che voi,
carissimi giovani, ritrovate la grandezza, la dignità propria della vostra
persona: diventate capaci di amare come Cristo ha amato.
Due
esperienze per capire cosa significa seguire Cristo
Prima
esperienza: l’arrivo del primo figlio a una coppia sposata. Che cosa succede
quando ad una coppia nasce il primo bambino? E’ sostanzialmente l’ingresso e
l’instaurarsi di una nuova presenza dentro la loro vita. E’ arrivata una nuova
persona! Di conseguenza la vita dei due sposi non può più essere come prima:
ormai devono “fare i conti” con lui. Abitudini che forse duravano da anni
dovranno essere cambiate. Il lavoro acquista un nuovo senso: lavorano
soprattutto per lui, per assicurare il suo futuro. Potremmo dire che la loro
giornata viene vissuta e la loro vita interpretata in larga misura alla luce
della presenza del bambino. Seconda esperienza: un giovane si innamora di una
ragazza o viceversa. Che cosa succede nella vita del giovane/della giovane?
Ancora una volta: una persona entra con inaspettata potenza nella vita. C’è
come un “urto”: i latini parlavano di “passio”, di passione. E’ un avvenimento
che accade e che ti colpisce: ne sei “preso”. Ed in modo tale che tutte le
energie – intelligenza e libertà – ne sono coinvolte, perché la persona
intuisce che le si apre davanti una nuova possibilità di esistenza. E’ una
presenza carica di attrattiva che la spinge a una risposta. Queste due
esperienze così umane ci possono aiutare a capire cosa significa seguire
Cristo.
Incontrare
Cristo non è una questione principalmente morale
Qualcuno
potrebbe pensare: seguire Cristo significa vivere come Lui ci ha insegnato a
vivere. Significa cambiare la propria vita in senso morale. E pensiamo alla
vita immorale e sregolata di una persona che decide di… rientrare nell’ordine
della legge morale. Pensare la sequela di Cristo in questi termini non è
sbagliato. Anzi, come vedremo, questo modo di pensarla ne coglie un aspetto
imprescindibile. Ma non è questo il nucleo centrale. Per convincervene andate a
leggere con attenzione due pagine bibliche: Lc 19,1-10, l’incontro di Gesù con Zaccheo;
e Fil 3,7-14. Voi costatate un fatto un po’ singolare. E’ vero che Zaccheo
cambia la sua vita dal punto di vista morale: decide non solo di non rubare
più, ma restituisce il mal tolto con una misura superiore a quella richiesta
dalla legge. Ma se guardiamo alla storia di Paolo, le cose non stanno proprio
in questi termini. Egli, prima dell’avvenimento decisivo (quello appunto che
egli descrive in Fil 3,7-14), non teneva – a differenza di Zaccheo – condotte
moralmente riprovevoli. Anzi, egli dice di se stesso che era irreprensibile
quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge (Fil 3,6b).
Dunque: si può essere malfattori e ladri, come Zaccheo, e non essere ancora
alla sequela di Cristo, e questo è abbastanza facile da capire. Si può essere
persone oneste e molto giuste, come Paolo, e non essere ancora alla sequela di
Cristo, e questo è abbastanza difficile da capire. E non è neppure sempre vero
che i secondi siano più vicini al Vangelo dei primi. Gesù una volta disse a chi
era o si riteneva giusto: I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel
Regno di Dio [Mt 21,31]. Partire dalla considerazione morale dell’esistenza non
è la partenza migliore per capire la sequela di Cristo. Ed allora che cosa
significa seguire Cristo?
Incontrare
Cristo non significa cambiare il modo di interpretare il reale
Qualcuno
a questa domanda potrebbe essere tentato di rispondere: cambiare il proprio
modo di pensare, di valutare le cose, cioè, e di interpretare la realtà. Ancora
una volta, devo dire che sicuramente non esiste vera sequela senza questo
cambiamento. Ma ancora una volta non è questo il nucleo centrale. Abbiamo anche
al riguardo un esempio nella storia della Chiesa. La conversione di Agostino,
come è noto a tutti, fu lunga ed assai faticosa. Egli dovette superare due
enormi difficoltà (assai attuali!): la difficoltà di una visione materialista;
la difficoltà di una visione fatalista. Egli pensava che esistessero solo
realtà materiali; egli pensava, da manicheo quale era, che l’uomo quando agiva
male non fosse libero. Egli superò questi due formidabili errori soprattutto
attraverso la lettura di libri neo-platonici. Fu la sua conversione? Non
proprio. Essa può accadere quando incontra Ambrogio che, scrive egli stesso, lo
“accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo”
(Confessioni V, 13,23). Ed allora che cosa significa seguire Cristo? Che cosa
succede a Zaccheo di così diverso dalla sua vita ordinaria? Incontrò Cristo che
chiese di entrare in casa sua. Che cosa è successo a Paolo di così
straordinario che cominciò da quel momento a considerare una perdita tutto ciò
che fino a quel momento poteva essere per lui un guadagno? Abbiamo due testi
che in maniera molto suggestiva ce lo dicono. Il primo dice: E Dio che disse:
rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la
conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2 Cor 4,6).
L’altro testo dice: Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e
mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo
annunciassi in mezzo ai pagani… (Gal 1,15-16). Ha avuto un incontro con Cristo
nel quale egli, Paolo, ha visto la Presenza: la presenza stessa di Dio, colla
gloria del suo amore. Il profeta (Is 9,1) aveva preannunciato: Il popolo che
camminava nelle tenebre vide una grande luce: su coloro che abitavano in terra
tenebrosa, una luce rifulse. Nella vita di Paolo questa parola si è compiuta:
una luce si è accesa nella sua esistenza perché ha incontrato Cristo; ha visto
in Lui la presenza stessa di Dio che si prende cura dell’uomo.
Incontro
che coinvolge le radici della mia esistenza
Per
capire meglio che cosa significa qui la parola “incontro”, è necessario tener
presente che quando esso accade veramente, sono le radici stesse della nostra
esistenza ad essere coinvolte. E quali sono le radici della nostra vita? Che
cosa nutre il nostro quotidiano esistere? Che cosa ci fa lavorare, ci fa
studiare, ci fa prendere moglie/marito, ci fa desiderare e pensare? Come ha
visto bene Agostino, è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le
nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine
ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale
da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro
sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura
disumana e superficiale come in larga misura è la nostra poteva tentare di
estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben
navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui
dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.
L’incontro
con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è “sentito” come la risposta
vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: “Mio Signore e
mio tutto”, pregava san Francesco. Zaccheo ha capito che non nel denaro,
ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta
era Lui, lo stare a tavola con Lui. Paolo ha capito che la glorificazione di
Dio non consisteva in primo luogo nello sforzo morale dell’uomo, ma che tutta
la sua felicità ormai era nel conoscere Lui, nell’essere con Lui. Pietro ha
capito che non sarebbe più riuscito ad andare da nessun’altra parte, poiché
sapeva che solo Lui aveva parole di vita eterna.
L’incontro
con Cristo è un fatto che ha tutti i connotati propri dei fatti che accadono in
questo mondo: in un tempo preciso ed in un luogo determinato; mentre Zaccheo è
su una pianta, mentre Andrea e Pietro stavano pescando, mentre una donna
samaritana va ad attingere acqua al pozzo, e così via. Ma nello stesso tempo è
un fatto che è imprevedibile [Zaccheo mai si sarebbe aspettato!], incalcolabile
[proprio nel momento in cui Paolo andava ad imprigionare i cristiani!], non
programmato [la samaritana faceva ciò tutti i giorni], ma così corrispondente
alle attese più profonde della persona da farle esclamare: “Tardi ti ho amato,
o Bellezza tanto nuova e tanto antica!”.