giovedì 14 settembre 2017

René Guénon e il Buddhismo - I

Non curandoci ulteriormente di ciò che a proposito di un presunto Guénon mistico fascista afferma certa nostrana intelligencija, usa forse a discettare se sia più di sinistra fare la doccia o il bagno, oppure mangiare kebab o sushi, ci pare invece più interessante leggere ciò che Guénon scrisse a proposito del Buddhismo. Non dedicò all’argomento molte pagine della sua vasta produzione, ma quelle poche meritano di essere studiate con attenzione, in quanto ricche di spunti e indicazioni non presenti nelle opere di tanti “specialisti”.
Soprattutto è completamente diverso il punto di vista da cui si pose, inteso non come "opinione" ma proprio come punto di osservazione, ovvero il riconoscimento del “valore tradizionale di qualsiasi dottrina”, in questo caso dell’insegnamento del Buddha.
Qui ci limitiamo solo a proporre, nella versione definitiva, il più lungo degli interventi di Guénon sul Buddhismo, cioè la Parte Terza, capitolo IV, della sua fondamentale opera del 1921, la Introduzione generale allo studio delle dottrine indù.
In un successivo post cercheremo di approfondire l’argomento delle modifiche apportate dall’A. al suo pensiero, e quindi al testo, cosa di cui egli stesso parla nella importantissima nota [1].


Scrive Guénon:

"Sulla questione del Buddismo [1]

Abbiamo detto che il Buddismo sembra più vicino, o piuttosto meno lontano dalle concezioni occidentali, che non le altre dottrine orientali, per conseguenza di più facile studio per gli Occidentali; ed è senz’altro questo che spiega l’accentuata predilezione che per esso dimostrano gli orientalisti. Costoro in effetti pensano di trovarvi qualcosa che rientri negli schemi della loro mentalità, o che almeno non vi sfugga completamente; in tutti i casi essi non si sentono imbarazzati, come nelle altre dottrine, dalla totale impossibilità di comprensione che, senza volerlo confessare a se stessi, devono sentire più o meno confusamente. Per lo meno è questa l’impressione che essi provano di fronte a certe forme del Buddismo, giacché, come diremo, a questo riguardo, occorre che si facciano molte distinzioni; con tutta naturalezza essi vogliono vedere in queste forme, ad essi più accessibili, il Buddismo vero e primitivo, mentre le altre non sarebbero, secondo loro, che alterazioni più o meno tardive. Se non che il Buddismo, anche negli aspetti più “semplicistici” da esso rivestiti in qualcuno dei suoi rami, è tuttavia ancora orientale; per tanto gli orientalisti spingono veramente troppo lontano l’assimilazione con i punti di vista occidentali quando, per esempio, vogliono farne l’equivalente di una religione nel senso europeo della parola, ciò che del resto li mette talvolta in singolare imbarazzo: non ha forse dichiarato qualcuno, senza arretrare davanti alla possibilità di una contraddizione in termini, che si tratta di una “religione atea”? In realtà il Buddismo non è più “ateo” di quanto sia “teista” o “panteista”; semplicemente esso non si pone dall’angolo visuale in cui questi termini hanno un senso; ma se così fa, è precisamente perché non è affatto una religione. In questo modo gli orientalisti riescono a snaturare con le loro interpretazioni anche ciò che sembrerebbe meno estraneo alla loro mentalità, e ciò in diversi modi, giacché anche quando vogliono vedere in esso una filosofia non lo snaturano certo meno di quando vogliono farne una religione: parlando per esempio di “pessimismo”, come spesso si fa, non è certo il Buddismo che si caratterizza, o per lo meno è soltanto uno speciale Buddismo, visto attraverso la filosofia di Schopenhauer. Il Buddismo autentico non è né “pessimista” né “ottimista”, poiché in esso le cose non sono viste in questa prospettiva; ma c’è da credere che per certa gente sia terribilmente imbarazzante non poter applicare ad una dottrina le etichette in corso in Occidente.
La verità è che il Buddismo non è né una religione né una filosofia, benché quelle delle sue forme a cui vanno le preferenze degli orientalisti siano sotto certi aspetti più vicine all’una e all’altra di quel che non siano le dottrine tradizionali indù. Di fatto si tratta di scuole che, essendosi poste fuori della tradizione regolare, e con ciò stesso avendo perduto di vista la vera metafisica, dovevano inevitabilmente esser condotte a sostituire a quest’ultima qualcosa che in certa misura assomiglia alla prospettiva filosofica, ma in certa misura soltanto. Talvolta vi si trovano addirittura delle speculazioni che, quando siano osservate in superficie, possono far pensare alla psicologia, ma è evidente che non si tratta di psicologia in realtà, cosa del tutto occidentale e, anche in Occidente, recentissima, giacché risale di fatto soltanto a Locke; e non è proprio il caso di attribuire ai Buddisti una mentalità che procede in modo specialissimo dal moderno empirismo anglosassone. Per essere legittimo l’accostamento non deve essere spinto fino all’assimilazione; e, analogamente, parlando della religione, il Buddismo non è ad essa paragonabile di fatto se non in un punto, importante senza dubbio, ma insufficiente a far concludere per un’identità di pensiero: si tratta dell’introduzione di un elemento sentimentale, il quale in ogni caso può spiegarsi come un adattamento alle condizioni particolari del periodo in cui ebbero origine le dottrine che ne sono afflitte, ed è di conseguenza lungi dall’implicare necessariamente che queste ultime siano tutte della stessa specie. La differenza reale dei punti di vista può essere molto più essenziale d’una somiglianza, tutto sommato, riferentesi principalmente alla forma d’espressione delle dottrine; ecco quanto sfugge in particolare a coloro che parlano di “morale buddista”: ciò che essi prendono per morale, e tanto più facilmente in quanto il suo aspetto sentimentale può in effetti prestarsi a tale confusione, è di fatto inteso in tutt’altro modo, e ha una ragion d’essere molto diversa, la quale non è neppure di carattere equivalente. Basterà un esempio a permettere di rendersene conto: la ben nota formula “Che gli esseri siano felici”, riguarda l’universalità degli esseri senza alcuna restrizione, e non gli esseri umani in modo esclusivo; è questa una estensione di cui il punto di vista morale è in qualche modo incapace per definizione. La “compassione” buddista non è per nulla la “pietà” di Schopenhauer; essa potrebbe piuttosto essere comparabile alla “carità cosmica” dei Musulmani, la quale è del resto perfettamente trasferibile fuori d’ogni sentimentalismo. Ciò non toglie però che il Buddismo sia incontestabilmente rivestito di una forma sentimentale che, senza spingersi fino al “moralismo”, costituisce per altro un elemento caratteristico di cui bisogna tenere il dovuto conto, tanto più che si tratta d’uno di quelli che più nettamente lo differenziano dalle dottrine indù, facendolo apparire sicuramente più lontano di esse dalla “primordialità” tradizionale.
Un altro punto che è importante mettere in rilievo a questo proposito, è che esiste un legame abbastanza stretto fra la forma sentimentale d’una dottrina e la sua tendenza alla diffusione, tendenza che è presente tanto nel Buddismo quanto nelle religioni, com’è provato dalla sua espansione nella maggior parte dell’Asia; ma anche a questo proposito la rassomiglianza non deve venir spinta fino all’esagerazione, e forse non è così giusto parlare dei “missionari” buddisti che si spinsero fuori dell’India in determinate epoche, perché, a parte che si trattò di fatto soltanto di qualche figura isolata, questo termine fa troppo inevitabilmente pensare ai metodi di propaganda e di proselitismo propri degli Occidentali. Comunque sia, è particolarmente notevole che a mano a mano che si produceva questa diffusione, il Buddismo in India declinava, finendo con lo spegnervisi compiutamente, non prima però di aver dato origine a scuole degenerate e nettamente eterodosse, contro le quali sono dirette le opere indù contemporanee di questa ultima fase del Buddismo indiano, in particolare quelle di Shankarāchārya, che se ne occupano soltanto per confutarne le teorie in nome della dottrina tradizionale, senza mai però imputarle al fondatore del Buddismo, ciò che dimostra come si trattasse, di fatto, d’una degenerazione; e la cosa più strana è che sono proprio queste forme parziali e deviate ad apparire, agli occhi della maggior parte degli orientalisti, come ciò che con la più grande approssimazione si avvicina al vero Buddismo originario. Su questo argomento ritorneremo fra poco; prima di continuare è però importante precisare che in realtà l’India non fu mai buddista, contrariamente a ciò che pretendono in generale gli orientalisti, i quali vogliono in certo modo fare del Buddismo il vero e proprio centro di tutto ciò che riguarda l’India e la sua storia: l’India prima del Buddismo, l’India dopo il Buddismo, è questo il taglio più netto che essi immaginano di poter stabilire, intendendo con ciò che il Buddismo abbia lasciato, anche dopo la sua totale scomparsa, una profonda impronta nel suo paese d’origine; il che è completamente falso, per la ragione da noi indicata. Vero è che gli orientalisti, cosi come si immaginano che gli Indù abbiano tratto ispirazione dalla filosofia greca, potrebbero anche tranquillamente sostenere, senza maggior offesa per la verosimiglianza, che gli Indù hanno pure copiato dal Buddismo; e non è detto che il fondo del pensiero di qualcuno di essi non si riduca a questo. Tuttavia bisogna riconoscere che in questo campo esistono pure delle onorevoli eccezioni, come il Barth, per esempio, il quale sostiene che “il Buddismo ebbe solamente l’importanza di un episodio”, ciò che, almeno per quanto riguarda l’India, non è che la pura verità; ciò non ostante l’opinione opposta non ha mai cessato di avere la preminenza, per non parlare naturalmente della grossolana ignoranza della massa, che in Europa si immagina volentieri un Buddismo ancora imperante in India! V’è da dire soltanto che, pressappoco all’epoca del re Ashoka, vale a dire verso il III secolo prima dell’era cristiana, il Buddismo ebbe in India un periodo di grande affermazione, contemporaneo all’inizio della sua espansione fuori dell’India, e seguito però rapidamente dal suo declino; ma anche a quest’epoca, qualora se ne volesse tentare l’accostamento con qualcosa di occidentale, si dovrebbe piuttosto dire che tale estensione fu più simile a quella d’un ordine monastico che a quella di una religione che si rivolga a tutto l’insieme della popolazione; un tale paragone, senza tuttavia essere perfetto, è certamente uno dei meno inesatti.
Ma qui non si fermano le fantasie degli orientalisti: eccone qualcuno, come Max Müller, darsi da fare per scoprire “i germi del Buddismo”, cioè (stando al suo modo di concepirlo), i germi dell’eterodossia, fin nelle Upanishad le quali, poiché fanno parte integrante del Veda, sono uno dei fondamenti essenziali dell’ortodossia indù; sarebbe certo difficile spingere più lontano l’assurdità e dar prova di un’incomprensione più completa. Quale che sia l’idea che ci si fa del Buddismo, è tuttavia facile capire che, nato in ambiente indù e originato in qualche modo dall’Induismo, esso dovette sempre, pur se se ne allontanò, conservarne qualcosa in comune, che è l’unico modo di spiegare ciò che di simile si trova da una parte e dall’altra; il Roussel ha senza dubbio esagerato in senso contrario, insistendo sull’assoluta mancanza d’originalità di tale dottrina, ma la sua opinione, per lo meno, è più plausibile di quella di Max Müller, e in ogni caso non implica nessuna contraddizione; aggiungeremo per parte nostra che essa esprime piuttosto un elogio che non una critica, almeno per coloro che, come noi, si attengono al punto di vista tradizionale, poi che le differenze tra dottrine, per essere legittime, non possono essere che una semplice questione di adattamento, riferendosi semplicemente, come fanno, a forme d’espressione più o meno esteriori che non giungono mai a influenzare i princìpi in se stessi; la stessa introduzione della forma sentimentale appartiene a quest’ordine di cose, per lo meno finché lasci sussistere intatta la metafisica al centro della dottrina.
Detto questo, ci sarebbe ora da chiedersi fino a qual punto si possa parlare di Buddismo in generale, come comunemente si fa, senza esporsi a molteplici confusioni; per evitarle bisognerebbe invece aver cura di precisare sempre di quale Buddismo si tratta, giacché di fatto il Buddismo incorporò e ancora comprende un gran numero di branche o di scuole diverse, e non si deve cadere nell’errore di attribuire a tutte indistintamente quanto appartiene in proprio soltanto all’una o all’altra di esse. Nel loro insieme queste scuole possono venir sceverate in due grandi corpi portanti i nomi di Mahāyāna e Hinayāna, che vengono abitualmente tradotti come “Grande veicolo” e “Piccolo veicolo”, ma che sarebbe più chiaro e più esatto rendere con “Gran Via” e “Piccola Via”; è molto meglio conservare questi termini, che autenticamente le designano, che sostituirli con denominazioni quali “Buddismo del Nord” e “Buddismo del Sud” le quali hanno un valore esclusivamente geografico, per di più abbastanza vago, e non caratterizzano in nulla le dottrine in questione. Il solo Mahāyāna può essere considerato costituente una dottrina completa, compresovi l’aspetto propriamente metafisico che di esso è la parte superiore e centrale; il Hinayāna invece, ha le caratteristiche d’una dottrina in qualche modo ridotta al suo aspetto più esteriore, e non va oltre ciò che è comprensibile alla maggioranza degli uomini, ciò che giustifica la sua denominazione; è naturalmente in questo ramo ristretto del Buddismo, di cui il Buddismo di Ceylon è attualmente il più tipico rappresentante, che si sono prodotte le deviazioni alle quali abbiamo prima accennato. Ed è qui che gli orientalisti effettivamente capovolgono i rapporti normali; essi pretendono che le scuole più deviate, quelle cioè che più lontano hanno spinto l’eterodossia, siano l’espressione più autentica del Hinayāna il quale, secondo loro, sarebbe semplicemente il prodotto d’una serie di alterazioni e di aggiunte più o meno tardive. Cosi comportandosi essi non fanno in fondo che seguire le tendenze antitradizionali della loro mentalità, dalle quali sono naturalmente portati a simpatizzare con tutto ciò che è eterodosso, e si conformano anche più particolarmente a quel falso concetto, pressoché generale negli Occidentali moderni, secondo cui quanto è più semplice, diremmo volentieri più rudimentale, dev’essere di conseguenza più antico; con simili pregiudizi non gli passa certo nemmeno per il capo che le cose possano stare esattamente al contrario. In queste condizioni è permesso chiedersi quale strana caricatura abbia potuto venir presentata agli Occidentali come il vero Buddismo, quello, per intendersi, formulato dal suo fondatore, ed è difficile reprimere un sorriso quando si pensa che è proprio questa caricatura ad esser diventata oggetto di ammirazione per tanti di essi, seducendoli al punto di indurne alcuni a proclamare la loro adesione, tuttavia soltanto teorica e “ideale”, a tale Buddismo cosi straordinariamente conforme alla loro forma mentis “razionalista” e “positivista”.
S’intende che la nostra affermazione riguardante il Mahāyāna come incluso nel Buddismo fin dall’origine va riferita a ciò che potremmo chiamare la sua essenza, indipendente dalle forme più o meno speciali proprie delle sue diverse scuole; d’accordo che queste forme sono soltanto secondarie, ma il “metodo storico” non permette di vedere altro, e ciò dà un’apparenza di giustificazione alle affermazioni degli orientalisti quando dicono che il Mahāyāna è “tardivo” o che rappresenta esclusivamente un Buddismo “alterato”. A complicare ulteriormente le cose s’aggiunge il fatto che il Buddismo uscendo dall’India si è in una certa misura modificato, ed in modi diversi, cosa che d’altronde era indispensabile perché potesse adattarsi ad ambienti tra loro diversissimi; l’intera questione riposa dunque sul fatto di sapere fin dove queste modificazioni si spingono, questione che non pare di soluzione troppo facile, soprattutto per coloro che non hanno se non una idea estremamente vaga delle dottrine tradizionali con le quali il Buddismo è venuto in contatto. Cosi è in particolare dell’Estremo Oriente, nel quale il Taoismo ha manifestamente influenzato, almeno nelle loro modalità di espressione, certe branche del Mahāyāna; la scuola Zen, in particolare, ha adottato metodi la cui ispirazione taoista è evidentissima. Tale fatto può ricevere una spiegazione dal particolare carattere della tradizione estremo-orientale, e dalla profonda separazione esistente fra i suoi due aspetti interiore ed esteriore, vale a dire fra il Taoismo e il Confucianesimo; in tali condizioni il Buddismo poteva in un certo modo venire ad occupare il suo posto in una zona intermedia, ed effettivamente si può dire che esso sia in certi casi servito di “copertura esterna” al Taoismo, ciò che permise a quest’ultimo di mantenersi sempre estremamente chiuso, cosa che gli sarebbe stata altrimenti molto più difficile. È questa la ragione per cui il Buddismo estremo-orientale assimilò certi simboli d’origine taoista, identificando ad esempio in alcuni casi, a causa della funzione “provvidenziale” che è loro propria, Kuan-yin a un Bodhisattva, o più precisamente a un aspetto femminile di Avalokiteshvara; di sfuggita faremo notare che ciò ha causato un’altra confusione agli orientalisti, i quali nella loro maggioranza conoscono il Taoismo quasi soltanto di nome; costoro hanno pensato che Kuan-yin appartenga propriamente al Buddismo, e sembrano invece ignorarne la provenienza essenzialmente taoista. Fa d’altronde parte delle loro abitudini, quando si trovano davanti a qualcosa di cui non sanno determinare l’esatto carattere o l’origine, di cavarsela con l’applicargli l’etichetta di “buddista”; si tratta d’un mezzo alquanto comodo per nascondere un imbarazzo più o meno cosciente, e tanto più volentieri ad esso fanno ricorso in quanto, grazie al monopolio di fatto che essi sono riusciti a costituire a proprio favore, sono pressoché sicuri che nessuno insorgerà a contraddirli; cos’ha infatti da temere sotto questo riguardo chi abbia stabilito come principio che nel campo di studi di cui si tratta l’unica vera competenza è quella che si acquista alla sua scuola? Non c’è bisogno di dire naturalmente che tutto ciò che viene cosi, secondo la loro fantasia, dichiarato “buddista”, ed anche ciò che effettivamente lo è, per gli orientalisti non è che “Buddismo alterato”; in un manuale di storia delle religioni già da noi ricordato, e nel quale il capitolo riguardante la Cina testimonia inoltre, nel suo insieme, d’una incomprensione particolarmente sgradevole, si dichiara che “in Cina non restano più tracce del Buddismo primitivo”, e che le dottrine che vi permangono attualmente “di buddista non hanno che il nome”; se si intende per “Buddismo primitivo” quel che gli orientalisti presentano come tale, ciò è del tutto esatto, ma bisognerebbe prima accertare se è da accettare il concetto che essi se ne fanno, o se non sia piuttosto quest’ultimo che, al contrario, rappresenta effettivamente un Buddismo degenerato.
La questione dei rapporti del Buddismo con il Taoismo è ancora relativamente facile da chiarire, a condizione, beninteso, che si sappia cos’è il Taoismo; ma bisogna riconoscere che ce ne sono di più complicate; ed è soprattutto quando si tratta non più di elementi appartenenti a tradizioni estranee all’India, ma di elementi indù, riguardo ai quali può essere difficile dire se siano sempre stati più o meno strettamente connessi al Buddismo a causa dell’origine indiana di quest’ultimo, o non si siano piuttosto integrati in un secondo tempo a qualcuna delle sue forme. Così è per esempio degli elementi shivaiti che tanta importanza hanno nel Buddismo tibetano, denominato comunemente, in modo assai poco corretto, “lamaismo”; e ciò non è nemmeno esclusivamente proprio del Tibet, giacché anche a Giava si ritrova uno Shiva-Buddha, prova irrefutabile di un’associazione dello stesso genere spinta al massimo delle sue possibilità. Di fatto la soluzione di tale questione si potrebbe trovare nello studio delle relazioni del Buddismo, sia pure quello originale, col Tantrismo; se non che quest’ultimo è cosi mal conosciuto in Occidente che sarebbe quasi inutile parlarne senza scendere a considerazioni lunghissime che non hanno ragione di essere esposte in una trattazione come questa; ci conterremo perciò a quest’unica indicazione per la stessa ragione che ci ha spinti a ricordare solo incidentalmente la civiltà tibetana, non ostante la sua importanza, al momento della nostra enumerazione delle grandi divisioni dell’Oriente.
Ci resta ora da trattare, almeno sommariamente, un ultimo punto: come mai il Buddismo si è espanso in modo così rilevante al di fuori del suo paese d’origine e quivi ha riscosso un cosi notevole successo, mentre in tale paese d’origine è degenerato in modo piuttosto rapido finendo con l’estinguersi? o non è forse precisamente in questa diffusione che risiede la vera ragion d’essere del Buddismo? Quel che intendiamo dire è che il Buddismo apparve realmente destinato fin dall’origine a popoli non indiani; e tuttavia fu necessario che esso avesse origine dall’Induismo per ricevervi gli elementi da trasmettere altrove dopo il necessario adattamento; ma questo compito una volta assolto, era in fondo normale che esso scomparisse dall’India, nella quale non aveva vera ragion d’essere. A tal proposito si potrebbe fare un paragone abbastanza giusto fra la situazione del Buddismo nei confronti dell’Induismo e quella del Cristianesimo nei confronti del Giudaismo, a condizione però che si tenga sempre ben conto delle differenze di prospettiva sulle quali abbiamo già insistito. In ogni caso è questa considerazione la sola che permetta di riconoscere al Buddismo, senza pericolo di commettere delle illogicità, il carattere di dottrina tradizionale che è impossibile rifiutare per lo meno al Mahāyāna, cosi come l’eterodossia non meno evidente delle forme ultime e derivate del Hinayana; ed è anch’essa che può spiegare quale ha potuto essere in realtà la missione del Buddha. Se quest’ultimo infatti avesse insegnato la dottrina eterodossa che gli attribuiscono gli orientalisti, sarebbe del tutto inconcepibile che numerosi Indù ortodossi non esitino, come fanno, a considerarlo un Avatara, vale a dire una “manifestazione divina”, di cui in verità quanto di lui si riferisce presenta tutti i caratteri; vero è che gli orientalisti, i quali per partito preso intendono eliminare tutto ciò che ha carattere “non umano”, vogliono che ciò sia soltanto “leggenda”, qualcosa cioè di privo d’ogni valore storico, ed estraneo anch’esso al “Buddismo primitivo”, ma se si eliminano questi fatti “leggendari”, cosa rimane del fondatore del Buddismo come individualità puramente umana? Certo è quanto mai difficile da dire, ma la “critica” occidentale non s’inquieta per così poco, e per riuscire a scrivere una vita del Buddha arrangiata a suo gusto, arriva fino a escogitare, con l’Oldenberg, il principio secondo il quale gli “Indo-germani non ammettevano il miracolo”; come fare a restar seri davanti ad affermazioni simili? Una simile “ricostruzione storica” della vita del Buddha ha lo stesso valore di quella della sua dottrina “primitiva”, e discende in blocco dagli stessi pregiudizi; sia nell’una che nell’altra si tratta principalmente di sopprimere tutto quel che mette in imbarazzo la mentalità moderna; e sarebbe in grazia di un procedimento cosi grossolanamente “semplicista” che questa gente pensa di raggiungere la verità!
Di più non occorre dire, non essendo il Buddismo che ci preme di studiare in questa occasione, il quale però ci interessava “situare” da un lato in rapporto alle dottrine indù, e dall’altro nei confronti dei punti di vista occidentali ai quali si tenta di identificarlo più o meno indebitamente. Dopo questa digressione possiamo perciò ritornare alle concezioni propriamente indù, cosa che faremo non senza aver prima formulato un ultimo pensiero che potrà servire in qualche modo da conclusione a tutto quel che abbiamo detto finora: se gli orientalisti, i quali si sono per così dire “specializzati” nel Buddismo, commettono nei suoi confronti errori di tale gravità, cosa potrà valere quel che dicono delle altre dottrine, le quali per essi sono sempre e soltanto state argomento di studi secondari e quasi “ accidentali”?



[1] Per i lettori che siano venuti a conoscenza della prima edizione di questo libro, riteniamo opportuno indicare brevemente le ragioni che ci hanno spinto a modificare il presente capitolo. Quando apparve la prima edizione non avevamo nessun motivo di mettere in dubbio che, come abitualmente si pensa, le forme più ristrette e più nettamente antimetafisiche del Hinayana rappresentassero l’insegnamento stesso di Shakya-Muni; non avevamo il tempo di intraprendere le lunghe ricerche che sarebbero state necessarie per andare più a fondo in questa questione, e d’altronde quel tanto che allora conoscevamo del Buddismo non era tale da invogliarci a farlo. Se non che le cose hanno preso in seguito tutto un altro aspetto in conseguenza dei lavori di A. K. Coomaraswamy (la cui qualità di Indù e non di Buddista garantisce sufficientemente la sua imparzialità) e della sua reinterpretazione del Buddismo originale, il cui vero significato è estremamente difficile da scindere da tutte le eresie che in seguito sono venute a sovrapporvisi, eresie che noi avevamo soprattutto in mente al momento della prima redazione di questo libro; è sottinteso che, per quanto riguarda tali forme deviate, ciò che avevamo scritto allora resta pienamente valido. Approfittiamo dell’occasione per aggiungere che siamo sempre disposti a riconoscere il valore tradizionale di qualsiasi dottrina, purché ne abbiamo prove sufficienti; ma, sfortunatamente, se le nuove informazioni da noi avute sono state interamente a favore della dottrina di Shakya-Muni (che non vuol dire di tutte indistintamente le scuole buddiste), ben diversamente accade di tutte le cose di cui abbiamo denunciato il carattere anti-tradizionale."



Si veda:

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, trad. di P. Nutrizio, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965

mercoledì 13 settembre 2017

Origine degli Śākya

Il testo che segue si trova alle pagine 375/377, quale appendice della già citata edizione del Lalitavistara tradotta dal sanscrito da P.E. De Foucaux, pubblicata nel 1884 dall’editore Leroux e ristampata nel 1988 da Les Deux Océans di Parigi.
L’argomento è l’origine della stirpe Śākya, dalla quale nacque il Buddha della nostra epoca, Siddhārtha Gautama Śākyamuni.  
Le note e la traduzione dal francese sono del curatore del blog.


Scrive De Foucaux:

Ecco ciò che Csoma de Körös [1] ha estrapolato, a proposito dell’origine degli Śākya, dal XXVI volume della sezione mdo del Kanjur [2] tibetano. L’originale sanscrito Abhiniskramana Sutra non è stato fino ad oggi [3] ritrovato:

“Gli Śākya, che abitavano la città di Kapilavastu, si rivolsero al Buddha per ricevere da lui informazioni in merito all’origine della loro stirpe. Egli diede incarico al suo discepolo, il Venerabile Maudgalyāyana [4], affinché narrasse loro la storia. Ed egli lo fece in questo modo:
Dopo che la terra fu ripopolata dagli uomini ed essi ebbero a poco a poco perduto le facoltà superiori di cui erano dapprima dotati, sorsero tra loro frequenti dispute. Essi scelsero quindi al loro interno un capo, chiamato Mahāsammata (Onorato dalle moltitudini). Uno dei suoi discendenti fu Karṇa, che risiedette a Potala [5]. Egli aveva due figli, Gautama e Bharadhvadja. Il primo divenne monaco; ma essendo stato ingiustamente accusato di aver ucciso una prostituta, fu impalato a Potala e suo fratello divenne il successore di Karṇa. Poiché Bharadhvadja era morto senza aver avuto figli, i due figli di Gautama, che erano nati in maniera sovrannaturale, ereditarono il trono. È proprio a causa delle circostanze della loro nascita che essi e i loro discendenti sono chiamati con diversi nomi, quali Aṇgirasa, Sūryavaṇśa, Gautama e Ikshvaku. Uno dei fratelli morì senza eredi; l’altro regnò quindi con il nome di Ikshvaku. Egli ebbe come successore il proprio figlio, i cui discendenti, in numero di cento, occuparono il trono di Potala. L’ultimo fu Ikshvaku Viruṭhaka. Egli aveva quattro figli. Dopo la morte della sua prima moglie si risposò con la figlia di un re, la cui mano ottenne a condizione di trasmettere il trono al figlio che avrebbe avuto da lei. Spinto dai consiglieri di corte, esiliò i suoi primi quattro figli per assicurare la successione al loro giovane fratello minore. I quattro principi portarono insieme con loro le proprie sorelle e, accompagnati da una grande moltitudine, lasciarono Potala, si diressero verso l’Himalaya e giunsero sulle rive del fiume Bhagirathī [6], dove si stabilirono, nelle vicinanze del Ṛṣi Kapila, che viveva in capanne costruite con i rami degli alberi. Essi si nutrivano cacciando e talvolta visitavano il romitaggio del Ṛṣi Kapila. Questi, vedendo che avevano un brutto aspetto, domandò loro perché fossero così pallidi. Essi gli raccontarono allora quanto stessero soffrendo a causa delle ristrettezze forzate nelle quali vivevano. Il Ṛṣi consigliò loro di sposare quelle tra le loro sorelle che non erano nate dalla loro stessa madre.
Grande Ṛṣi, dissero, questo ci sarà consentito?
Sì, Signori, rispose il Ṛṣi, dei principi esiliati possono agire in questo modo.
Così, seguendo l’indicazione del Ṛṣi, essi vissero insieme con le sorelle che non erano della loro stessa madre ed ebbero da esse molti figli. Il rumore che i bambini facevano disturbava il Ṛṣi durante le sue meditazioni, ed egli sentì il bisogno di andare a vivere altrove. Tuttavia lo pregarono di rimanere lì, e di indicare loro un'altra zona dove vivere. Il Ṛṣi mostrò loro un luogo in cui avrebbero dovuto costruire una città; e poiché il terreno era stato loro donato da Kapila chiamarono la città Kapilavastu (il terreno di Kapila, o il terreno del Giallo). Quando il loro numero aumentò considerevolmente, gli dei indicarono loro un altro luogo, nel quale costruirono una città chiamata Lhasbstan (mostrata da un dio).
Ricordando il motivo del loro esilio, emanarono una legge in base alla quale non avrebbero potuto sposare una seconda moglie dello stesso clan e avrebbero dovuto invece accontentarsi di una sola moglie.
A Potala il re Ikshvaku Viruṭhaka, essendosi ricordato un giorno di avere quattro figli, chiese ai suoi consiglieri quale fosse stata la loro sorte. Essi gli risposero che commettendo un errore egli stesso li aveva espulsi dal paese, che si erano stabiliti nei pressi dell’Himalaya, che avevano sposato le loro sorelle e che si erano considerevolmente moltiplicati. Il re, molto sorpreso da quel racconto, gridò più volte: Śākya! Śākya! (Com’è possibile! Com’è possibile!)
Dopo la morte di Ikshvaku Viruṭhaka gli succedette il figlio più giovane. Essendo questi morto senza figli, i principi esiliati ricevettero quindi l’eredità. I primi tre non ebbero discendenti. I discendenti del quarto, in numero di cinquantacinquemila, furono i regnanti di Kapilavastu.
È da loro che discendevano gli Śākya dell’epoca del Buddha Śākyamuni.”

Kapilavastu, oggi. La porta est


NdT

[1] Sándor Csoma de Körös (1784–1842) è stato un filologo e orientalista ungherese. Fu autore del primo dizionario tibetano-inglese.
[2] La raccolta delle parole del Buddha tradotte. Riunisce tutti i testi attribuiti al Buddha. Insieme con il Tanjur (La raccolta degli insegnamenti tradotti, che riunisce i commentari) forma il Canone tibetano.
[3] Ovvero nel 1884.
[4] In lingua pali Mogallāna. Uno dei principali discepoli del Buddha.
[5] Attualmente è nota come Thatta, una città del Pakistan con oltre 200mila abitanti. Il suo antico nome Potala non va confuso con il Potala, il palazzo del Dalai Lama di Lhasa, in Tibet.
[6] È il tratto iniziale del Gange.