Non
curandoci ulteriormente di ciò che a proposito di un presunto Guénon mistico fascista afferma certa nostrana intelligencija, usa
forse a discettare se sia più di sinistra fare la doccia o il bagno, oppure
mangiare kebab o sushi, ci pare invece più interessante leggere ciò che Guénon
scrisse a proposito del Buddhismo. Non dedicò all’argomento molte pagine della
sua vasta produzione, ma quelle poche meritano di essere studiate con
attenzione, in quanto ricche di spunti e indicazioni non presenti nelle opere di
tanti “specialisti”.
Soprattutto
è completamente diverso il punto di vista da cui si pose, inteso non come "opinione" ma proprio come punto di osservazione, ovvero il riconoscimento del “valore tradizionale
di qualsiasi dottrina”, in questo caso
dell’insegnamento del Buddha.
Qui ci
limitiamo solo a proporre, nella versione definitiva, il più lungo degli
interventi di Guénon sul Buddhismo, cioè la Parte Terza, capitolo IV, della sua
fondamentale opera del 1921, la Introduzione generale allo studio delle dottrine
indù.
In un
successivo post cercheremo di approfondire l’argomento delle modifiche
apportate dall’A. al suo pensiero, e quindi al testo, cosa di cui egli stesso
parla nella importantissima nota [1].
Scrive Guénon:
"Sulla
questione del Buddismo [1]
Abbiamo detto che il Buddismo sembra più
vicino, o piuttosto meno lontano dalle concezioni occidentali, che non le altre
dottrine orientali, per conseguenza di più facile studio per gli Occidentali;
ed è senz’altro questo che spiega l’accentuata predilezione che per esso dimostrano
gli orientalisti. Costoro in effetti pensano di trovarvi qualcosa che rientri
negli schemi della loro mentalità, o che almeno non vi sfugga completamente; in
tutti i casi essi non si sentono imbarazzati, come nelle altre dottrine, dalla
totale impossibilità di comprensione che, senza volerlo confessare a se stessi,
devono sentire più o meno confusamente. Per lo meno è questa l’impressione che
essi provano di fronte a certe forme del Buddismo, giacché, come diremo, a
questo riguardo, occorre che si facciano molte distinzioni; con tutta
naturalezza essi vogliono vedere in queste forme, ad essi più accessibili, il
Buddismo vero e primitivo, mentre le altre non sarebbero, secondo loro, che
alterazioni più o meno tardive. Se non che il Buddismo, anche negli aspetti più
“semplicistici” da esso rivestiti in qualcuno dei suoi rami, è tuttavia ancora
orientale; per tanto gli orientalisti spingono veramente troppo lontano l’assimilazione
con i punti di vista occidentali quando, per esempio, vogliono farne l’equivalente
di una religione nel senso europeo della parola, ciò che del resto li mette
talvolta in singolare imbarazzo: non ha forse dichiarato qualcuno, senza
arretrare davanti alla possibilità di una contraddizione in termini, che si
tratta di una “religione atea”? In realtà il Buddismo non è più “ateo” di
quanto sia “teista” o “panteista”; semplicemente esso non si pone dall’angolo
visuale in cui questi termini hanno un senso; ma se così fa, è precisamente
perché non è affatto una religione. In questo modo gli orientalisti riescono a
snaturare con le loro interpretazioni anche ciò che sembrerebbe meno estraneo
alla loro mentalità, e ciò in diversi modi, giacché anche quando vogliono
vedere in esso una filosofia non lo snaturano certo meno di quando vogliono
farne una religione: parlando per esempio di “pessimismo”, come spesso si fa,
non è certo il Buddismo che si caratterizza, o per lo meno è soltanto uno
speciale Buddismo, visto attraverso la filosofia di Schopenhauer. Il Buddismo
autentico non è né “pessimista” né “ottimista”, poiché in esso le cose non sono
viste in questa prospettiva; ma c’è da credere che per certa gente sia
terribilmente imbarazzante non poter applicare ad una dottrina le etichette in
corso in Occidente.
La verità è che il Buddismo non è né una
religione né una filosofia, benché quelle delle sue forme a cui vanno le
preferenze degli orientalisti siano sotto certi aspetti più vicine all’una e
all’altra di quel che non siano le dottrine tradizionali indù. Di fatto si
tratta di scuole che, essendosi poste fuori della tradizione regolare, e con
ciò stesso avendo perduto di vista la vera metafisica, dovevano inevitabilmente
esser condotte a sostituire a quest’ultima qualcosa che in certa misura
assomiglia alla prospettiva filosofica, ma in certa misura soltanto. Talvolta
vi si trovano addirittura delle speculazioni che, quando siano osservate in
superficie, possono far pensare alla psicologia, ma è evidente che non si
tratta di psicologia in realtà, cosa del tutto occidentale e, anche in Occidente,
recentissima, giacché risale di fatto soltanto a Locke; e non è proprio il caso
di attribuire ai Buddisti una mentalità che procede in modo specialissimo dal
moderno empirismo anglosassone. Per essere legittimo l’accostamento non deve
essere spinto fino all’assimilazione; e, analogamente, parlando della
religione, il Buddismo non è ad essa paragonabile di fatto se non in un punto,
importante senza dubbio, ma insufficiente a far concludere per un’identità di
pensiero: si tratta dell’introduzione di un elemento sentimentale, il quale in
ogni caso può spiegarsi come un adattamento alle condizioni particolari del
periodo in cui ebbero origine le dottrine che ne sono afflitte, ed è di
conseguenza lungi dall’implicare necessariamente che queste ultime siano tutte
della stessa specie. La differenza reale dei punti di vista può essere molto
più essenziale d’una somiglianza, tutto sommato, riferentesi principalmente
alla forma d’espressione delle dottrine; ecco quanto sfugge in particolare a
coloro che parlano di “morale buddista”: ciò che essi prendono per morale, e
tanto più facilmente in quanto il suo aspetto sentimentale può in effetti
prestarsi a tale confusione, è di fatto inteso in tutt’altro modo, e ha una
ragion d’essere molto diversa, la quale non è neppure di carattere equivalente.
Basterà un esempio a permettere di rendersene conto: la ben nota formula “Che
gli esseri siano felici”, riguarda l’universalità degli esseri senza alcuna
restrizione, e non gli esseri umani in modo esclusivo; è questa una estensione
di cui il punto di vista morale è in qualche modo incapace per definizione. La “compassione”
buddista non è per nulla la “pietà” di Schopenhauer; essa potrebbe piuttosto
essere comparabile alla “carità cosmica” dei Musulmani, la quale è del resto
perfettamente trasferibile fuori d’ogni sentimentalismo. Ciò non toglie però
che il Buddismo sia incontestabilmente rivestito di una forma sentimentale che,
senza spingersi fino al “moralismo”, costituisce per altro un elemento
caratteristico di cui bisogna tenere il dovuto conto, tanto più che si tratta d’uno
di quelli che più nettamente lo differenziano dalle dottrine indù, facendolo apparire
sicuramente più lontano di esse dalla “primordialità” tradizionale.
Un altro punto che è importante mettere in
rilievo a questo proposito, è che esiste un legame abbastanza stretto fra la
forma sentimentale d’una dottrina e la sua tendenza alla diffusione, tendenza
che è presente tanto nel Buddismo quanto nelle religioni, com’è provato dalla
sua espansione nella maggior parte dell’Asia; ma anche a questo proposito la
rassomiglianza non deve venir spinta fino all’esagerazione, e forse non è così
giusto parlare dei “missionari” buddisti che si spinsero fuori dell’India in
determinate epoche, perché, a parte che si trattò di fatto soltanto di qualche
figura isolata, questo termine fa troppo inevitabilmente pensare ai metodi di
propaganda e di proselitismo propri degli Occidentali. Comunque sia, è
particolarmente notevole che a mano a mano che si produceva questa diffusione,
il Buddismo in India declinava, finendo con lo spegnervisi compiutamente, non
prima però di aver dato origine a scuole degenerate e nettamente eterodosse,
contro le quali sono dirette le opere indù contemporanee di questa ultima fase
del Buddismo indiano, in particolare quelle di Shankarāchārya, che se ne
occupano soltanto per confutarne le teorie in nome della dottrina tradizionale,
senza mai però imputarle al fondatore del Buddismo, ciò che dimostra come si
trattasse, di fatto, d’una degenerazione; e la cosa più strana è che sono
proprio queste forme parziali e deviate ad apparire, agli occhi della maggior
parte degli orientalisti, come ciò che con la più grande approssimazione si
avvicina al vero Buddismo originario. Su questo argomento ritorneremo fra poco;
prima di continuare è però importante precisare che in realtà l’India non fu
mai buddista, contrariamente a ciò che pretendono in generale gli orientalisti,
i quali vogliono in certo modo fare del Buddismo il vero e proprio centro di
tutto ciò che riguarda l’India e la sua storia: l’India prima del Buddismo, l’India
dopo il Buddismo, è questo il taglio più netto che essi immaginano di poter
stabilire, intendendo con ciò che il Buddismo abbia lasciato, anche dopo la sua
totale scomparsa, una profonda impronta nel suo paese d’origine; il che è
completamente falso, per la ragione da noi indicata. Vero è che gli
orientalisti, cosi come si immaginano che gli Indù abbiano tratto ispirazione
dalla filosofia greca, potrebbero anche tranquillamente sostenere, senza
maggior offesa per la verosimiglianza, che gli Indù hanno pure copiato dal
Buddismo; e non è detto che il fondo del pensiero di qualcuno di essi non si
riduca a questo. Tuttavia bisogna riconoscere che in questo campo esistono pure
delle onorevoli eccezioni, come il Barth, per esempio, il quale sostiene che “il
Buddismo ebbe solamente l’importanza di un episodio”, ciò che, almeno per
quanto riguarda l’India, non è che la pura verità; ciò non ostante l’opinione
opposta non ha mai cessato di avere la preminenza, per non parlare naturalmente
della grossolana ignoranza della massa, che in Europa si immagina volentieri un
Buddismo ancora imperante in India! V’è da dire soltanto che, pressappoco all’epoca
del re Ashoka, vale a dire verso il III secolo prima dell’era cristiana, il
Buddismo ebbe in India un periodo di grande affermazione, contemporaneo all’inizio
della sua espansione fuori dell’India, e seguito però rapidamente dal suo
declino; ma anche a quest’epoca, qualora se ne volesse tentare l’accostamento
con qualcosa di occidentale, si dovrebbe piuttosto dire che tale estensione fu
più simile a quella d’un ordine monastico che a quella di una religione che si
rivolga a tutto l’insieme della popolazione; un tale paragone, senza tuttavia
essere perfetto, è certamente uno dei meno inesatti.
Ma qui non si fermano le fantasie degli
orientalisti: eccone qualcuno, come Max Müller, darsi da fare per scoprire “i
germi del Buddismo”, cioè (stando al suo modo di concepirlo), i germi dell’eterodossia,
fin nelle Upanishad le quali, poiché fanno parte integrante del Veda, sono uno
dei fondamenti essenziali dell’ortodossia indù; sarebbe certo difficile
spingere più lontano l’assurdità e dar prova di un’incomprensione più completa.
Quale che sia l’idea che ci si fa del Buddismo, è tuttavia facile capire che,
nato in ambiente indù e originato in qualche modo dall’Induismo, esso dovette
sempre, pur se se ne allontanò, conservarne qualcosa in comune, che è l’unico
modo di spiegare ciò che di simile si trova da una parte e dall’altra; il
Roussel ha senza dubbio esagerato in senso contrario, insistendo sull’assoluta mancanza
d’originalità di tale dottrina, ma la sua opinione, per lo meno, è più
plausibile di quella di Max Müller, e in ogni caso non implica nessuna
contraddizione; aggiungeremo per parte nostra che essa esprime piuttosto un
elogio che non una critica, almeno per coloro che, come noi, si attengono al
punto di vista tradizionale, poi che le differenze tra dottrine, per essere
legittime, non possono essere che una semplice questione di adattamento,
riferendosi semplicemente, come fanno, a forme d’espressione più o meno
esteriori che non giungono mai a influenzare i princìpi in se stessi; la stessa
introduzione della forma sentimentale appartiene a quest’ordine di cose, per lo
meno finché lasci sussistere intatta la metafisica al centro della dottrina.
Detto questo, ci sarebbe ora da chiedersi
fino a qual punto si possa parlare di Buddismo in generale, come comunemente si
fa, senza esporsi a molteplici confusioni; per evitarle bisognerebbe invece
aver cura di precisare sempre di quale Buddismo si tratta, giacché di fatto il
Buddismo incorporò e ancora comprende un gran numero di branche o di scuole
diverse, e non si deve cadere nell’errore di attribuire a tutte indistintamente
quanto appartiene in proprio soltanto all’una o all’altra di esse. Nel loro
insieme queste scuole possono venir sceverate in due grandi corpi portanti i
nomi di Mahāyāna e Hinayāna, che vengono abitualmente tradotti come “Grande
veicolo” e “Piccolo veicolo”, ma che sarebbe più chiaro e più esatto rendere
con “Gran Via” e “Piccola Via”; è molto meglio conservare questi termini, che
autenticamente le designano, che sostituirli con denominazioni quali “Buddismo
del Nord” e “Buddismo del Sud” le quali hanno un valore esclusivamente
geografico, per di più abbastanza vago, e non caratterizzano in nulla le dottrine
in questione. Il solo Mahāyāna può essere considerato costituente una dottrina
completa, compresovi l’aspetto propriamente metafisico che di esso è la parte
superiore e centrale; il Hinayāna invece, ha le caratteristiche d’una dottrina
in qualche modo ridotta al suo aspetto più esteriore, e non va oltre ciò che è
comprensibile alla maggioranza degli uomini, ciò che giustifica la sua
denominazione; è naturalmente in questo ramo ristretto del Buddismo, di cui il Buddismo
di Ceylon è attualmente il più tipico rappresentante, che si sono prodotte le
deviazioni alle quali abbiamo prima accennato. Ed è qui che gli orientalisti
effettivamente capovolgono i rapporti normali; essi pretendono che le scuole
più deviate, quelle cioè che più lontano hanno spinto l’eterodossia, siano l’espressione
più autentica del Hinayāna il quale, secondo loro, sarebbe semplicemente il
prodotto d’una serie di alterazioni e di aggiunte più o meno tardive. Cosi
comportandosi essi non fanno in fondo che seguire le tendenze antitradizionali
della loro mentalità, dalle quali sono naturalmente portati a simpatizzare con
tutto ciò che è eterodosso, e si conformano anche più particolarmente a quel
falso concetto, pressoché generale negli Occidentali moderni, secondo cui
quanto è più semplice, diremmo volentieri più rudimentale, dev’essere di
conseguenza più antico; con simili pregiudizi non gli passa certo nemmeno per
il capo che le cose possano stare esattamente al contrario. In queste
condizioni è permesso chiedersi quale strana caricatura abbia potuto venir
presentata agli Occidentali come il vero Buddismo, quello, per intendersi,
formulato dal suo fondatore, ed è difficile reprimere un sorriso quando si
pensa che è proprio questa caricatura ad esser diventata oggetto di ammirazione
per tanti di essi, seducendoli al punto di indurne alcuni a proclamare la loro
adesione, tuttavia soltanto teorica e “ideale”, a tale Buddismo cosi
straordinariamente conforme alla loro forma mentis “razionalista” e “positivista”.
S’intende che la nostra affermazione
riguardante il Mahāyāna come incluso nel Buddismo fin dall’origine va riferita
a ciò che potremmo chiamare la sua essenza, indipendente dalle forme più o meno
speciali proprie delle sue diverse scuole; d’accordo che queste forme sono
soltanto secondarie, ma il “metodo storico” non permette di vedere altro, e ciò
dà un’apparenza di giustificazione alle affermazioni degli orientalisti quando
dicono che il Mahāyāna è “tardivo” o che rappresenta esclusivamente un Buddismo
“alterato”. A complicare ulteriormente le cose s’aggiunge il fatto che il
Buddismo uscendo dall’India si è in una certa misura modificato, ed in modi
diversi, cosa che d’altronde era indispensabile perché potesse adattarsi ad
ambienti tra loro diversissimi; l’intera questione riposa dunque sul fatto di
sapere fin dove queste modificazioni si spingono, questione che non pare di
soluzione troppo facile, soprattutto per coloro che non hanno se non una idea
estremamente vaga delle dottrine tradizionali con le quali il Buddismo è venuto
in contatto. Cosi è in particolare dell’Estremo Oriente, nel quale il Taoismo
ha manifestamente influenzato, almeno nelle loro modalità di espressione, certe
branche del Mahāyāna; la scuola Zen, in particolare, ha adottato metodi la cui
ispirazione taoista è evidentissima. Tale fatto può ricevere una spiegazione
dal particolare carattere della tradizione estremo-orientale, e dalla profonda
separazione esistente fra i suoi due aspetti interiore ed esteriore, vale a
dire fra il Taoismo e il Confucianesimo; in tali condizioni il Buddismo poteva
in un certo modo venire ad occupare il suo posto in una zona intermedia, ed
effettivamente si può dire che esso sia in certi casi servito di “copertura
esterna” al Taoismo, ciò che permise a quest’ultimo di mantenersi sempre
estremamente chiuso, cosa che gli sarebbe stata altrimenti molto più difficile.
È questa la ragione per cui il Buddismo estremo-orientale assimilò certi
simboli d’origine taoista, identificando ad esempio in alcuni casi, a causa
della funzione “provvidenziale” che è loro propria, Kuan-yin a un Bodhisattva,
o più precisamente a un aspetto femminile di Avalokiteshvara; di sfuggita
faremo notare che ciò ha causato un’altra confusione agli orientalisti, i quali
nella loro maggioranza conoscono il Taoismo quasi soltanto di nome; costoro
hanno pensato che Kuan-yin appartenga propriamente al Buddismo, e sembrano
invece ignorarne la provenienza essenzialmente taoista. Fa d’altronde parte
delle loro abitudini, quando si trovano davanti a qualcosa di cui non sanno
determinare l’esatto carattere o l’origine, di cavarsela con l’applicargli l’etichetta
di “buddista”; si tratta d’un mezzo alquanto comodo per nascondere un imbarazzo
più o meno cosciente, e tanto più volentieri ad esso fanno ricorso in quanto,
grazie al monopolio di fatto che essi sono riusciti a costituire a proprio
favore, sono pressoché sicuri che nessuno insorgerà a contraddirli; cos’ha
infatti da temere sotto questo riguardo chi abbia stabilito come principio che
nel campo di studi di cui si tratta l’unica vera competenza è quella che si
acquista alla sua scuola? Non c’è bisogno di dire naturalmente che tutto ciò
che viene cosi, secondo la loro fantasia, dichiarato “buddista”, ed anche ciò
che effettivamente lo è, per gli orientalisti non è che “Buddismo alterato”; in
un manuale di storia delle religioni già da noi ricordato, e nel quale il
capitolo riguardante la Cina testimonia inoltre, nel suo insieme, d’una
incomprensione particolarmente sgradevole, si dichiara che “in Cina non restano
più tracce del Buddismo primitivo”, e che le dottrine che vi permangono
attualmente “di buddista non hanno che il nome”; se si intende per “Buddismo
primitivo” quel che gli orientalisti presentano come tale, ciò è del tutto
esatto, ma bisognerebbe prima accertare se è da accettare il concetto che essi
se ne fanno, o se non sia piuttosto quest’ultimo che, al contrario, rappresenta
effettivamente un Buddismo degenerato.
La questione dei rapporti del Buddismo con
il Taoismo è ancora relativamente facile da chiarire, a condizione, beninteso,
che si sappia cos’è il Taoismo; ma bisogna riconoscere che ce ne sono di più
complicate; ed è soprattutto quando si tratta non più di elementi appartenenti
a tradizioni estranee all’India, ma di elementi indù, riguardo ai quali può
essere difficile dire se siano sempre stati più o meno strettamente connessi al
Buddismo a causa dell’origine indiana di quest’ultimo, o non si siano piuttosto
integrati in un secondo tempo a qualcuna delle sue forme. Così è per esempio
degli elementi shivaiti che tanta importanza hanno nel Buddismo tibetano,
denominato comunemente, in modo assai poco corretto, “lamaismo”; e ciò non è
nemmeno esclusivamente proprio del Tibet, giacché anche a Giava si ritrova uno
Shiva-Buddha, prova irrefutabile di un’associazione dello stesso genere spinta
al massimo delle sue possibilità. Di fatto la soluzione di tale questione si
potrebbe trovare nello studio delle relazioni del Buddismo, sia pure quello
originale, col Tantrismo; se non che quest’ultimo è cosi mal conosciuto in
Occidente che sarebbe quasi inutile parlarne senza scendere a considerazioni
lunghissime che non hanno ragione di essere esposte in una trattazione come
questa; ci conterremo perciò a quest’unica indicazione per la stessa ragione
che ci ha spinti a ricordare solo incidentalmente la civiltà tibetana, non
ostante la sua importanza, al momento della nostra enumerazione delle grandi
divisioni dell’Oriente.
Ci resta ora da trattare, almeno
sommariamente, un ultimo punto: come mai il Buddismo si è espanso in modo così
rilevante al di fuori del suo paese d’origine e quivi ha riscosso un cosi
notevole successo, mentre in tale paese d’origine è degenerato in modo
piuttosto rapido finendo con l’estinguersi? o non è forse precisamente in
questa diffusione che risiede la vera ragion d’essere del Buddismo? Quel che
intendiamo dire è che il Buddismo apparve realmente destinato fin dall’origine
a popoli non indiani; e tuttavia fu necessario che esso avesse origine dall’Induismo
per ricevervi gli elementi da trasmettere altrove dopo il necessario
adattamento; ma questo compito una volta assolto, era in fondo normale che esso
scomparisse dall’India, nella quale non aveva vera ragion d’essere. A tal
proposito si potrebbe fare un paragone abbastanza giusto fra la situazione del Buddismo
nei confronti dell’Induismo e quella del Cristianesimo nei confronti del
Giudaismo, a condizione però che si tenga sempre ben conto delle differenze di
prospettiva sulle quali abbiamo già insistito. In ogni caso è questa
considerazione la sola che permetta di riconoscere al Buddismo, senza pericolo
di commettere delle illogicità, il carattere di dottrina tradizionale che è
impossibile rifiutare per lo meno al Mahāyāna, cosi come l’eterodossia non meno
evidente delle forme ultime e derivate del Hinayana; ed è anch’essa che può
spiegare quale ha potuto essere in realtà la missione del Buddha. Se quest’ultimo
infatti avesse insegnato la dottrina eterodossa che gli attribuiscono gli
orientalisti, sarebbe del tutto inconcepibile che numerosi Indù ortodossi non
esitino, come fanno, a considerarlo un Avatara, vale a dire una “manifestazione
divina”, di cui in verità quanto di lui si riferisce presenta tutti i
caratteri; vero è che gli orientalisti, i quali per partito preso intendono
eliminare tutto ciò che ha carattere “non umano”, vogliono che ciò sia soltanto
“leggenda”, qualcosa cioè di privo d’ogni valore storico, ed estraneo anch’esso
al “Buddismo primitivo”, ma se si eliminano questi fatti “leggendari”, cosa
rimane del fondatore del Buddismo come individualità puramente umana? Certo è
quanto mai difficile da dire, ma la “critica” occidentale non s’inquieta per
così poco, e per riuscire a scrivere una vita del Buddha arrangiata a suo
gusto, arriva fino a escogitare, con l’Oldenberg, il principio secondo il quale
gli “Indo-germani non ammettevano il miracolo”; come fare a restar seri davanti
ad affermazioni simili? Una simile “ricostruzione storica” della vita del
Buddha ha lo stesso valore di quella della sua dottrina “primitiva”, e discende
in blocco dagli stessi pregiudizi; sia nell’una che nell’altra si tratta
principalmente di sopprimere tutto quel che mette in imbarazzo la mentalità moderna;
e sarebbe in grazia di un procedimento cosi grossolanamente “semplicista” che questa
gente pensa di raggiungere la verità!
Di più non occorre dire, non essendo il
Buddismo che ci preme di studiare in questa occasione, il quale però ci interessava
“situare” da un lato in rapporto alle dottrine indù, e dall’altro nei confronti
dei punti di vista occidentali ai quali si tenta di identificarlo più o meno
indebitamente. Dopo questa digressione possiamo perciò ritornare alle
concezioni propriamente indù, cosa che faremo non senza aver prima formulato un
ultimo pensiero che potrà servire in qualche modo da conclusione a tutto quel
che abbiamo detto finora: se gli orientalisti, i quali si sono per così dire “specializzati”
nel Buddismo, commettono nei suoi confronti errori di tale gravità, cosa potrà
valere quel che dicono delle altre dottrine, le quali per essi sono sempre e
soltanto state argomento di studi secondari e quasi “ accidentali”?
[1] Per i lettori che
siano venuti a conoscenza della prima edizione di questo libro, riteniamo
opportuno indicare brevemente le ragioni che ci hanno spinto a modificare il
presente capitolo. Quando apparve la prima edizione non avevamo nessun motivo
di mettere in dubbio che, come abitualmente si pensa, le forme più ristrette e
più nettamente antimetafisiche del Hinayana rappresentassero l’insegnamento
stesso di Shakya-Muni; non avevamo il tempo di intraprendere le lunghe ricerche
che sarebbero state necessarie per andare più a fondo in questa questione, e
d’altronde quel tanto che allora conoscevamo del Buddismo non era tale da
invogliarci a farlo. Se non che le cose hanno preso in seguito tutto un altro
aspetto in conseguenza dei lavori di A. K. Coomaraswamy (la cui qualità di Indù
e non di Buddista garantisce sufficientemente la sua imparzialità) e della sua
reinterpretazione del Buddismo originale, il cui vero significato è estremamente
difficile da scindere da tutte le eresie che in seguito sono venute a
sovrapporvisi, eresie che noi avevamo soprattutto in mente al momento della
prima redazione di questo libro; è sottinteso che, per quanto riguarda tali
forme deviate, ciò che avevamo scritto allora resta pienamente valido.
Approfittiamo dell’occasione per aggiungere che siamo sempre disposti a
riconoscere il valore tradizionale di qualsiasi dottrina, purché ne abbiamo
prove sufficienti; ma, sfortunatamente, se le nuove informazioni da noi avute
sono state interamente a favore della dottrina di Shakya-Muni (che non vuol
dire di tutte indistintamente le scuole buddiste), ben diversamente accade di
tutte le cose di cui abbiamo denunciato il carattere anti-tradizionale."
Si veda:
René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, trad. di P. Nutrizio, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965