lunedì 7 dicembre 2015

Haiku d'inverno

Alcuni haiku dell’inverno, per la nuova stagione ormai alle porte.


Rumore di sega.
Quanta povertà!
Notte fonda invernale
(Yosa Buson, 1716 - 1783)




Amo il sole basso
sui campi spogli
nel palmo della mano.
(Yamaguchi Seishi, 1901 - 1994)




Anche dopo la mia morte 
ci sarà questo cielo azzurro
nelle notti fredde?
(Kato Shuson, 1905 - 1993)





Fine dell’anno.
In ogni caso 
Mi affido a Te.
(Kobayashi Issa, 1763 - 1827)






Tutti gli haiku sono stati tratti dal volume:
I. Starace (a cura di), Il grande libro degli haiku, Wd. Castelvecchi

venerdì 4 dicembre 2015

Krishna, l'infinitamente affascinante


L’ottavo Avatara di Vishnu, Krishna, rappresenta in un certo senso l’ultima discesa del dio tra gli umani: dei due successivi si può infatti dire che “Buddha sarà un compromesso e Kalki una escatologia[1]. Krishna è non a caso il dio dell’attuale Kali Yuga, iniziato il giorno della morte del suo aspetto corporeo. Il suo culto è ancora oggi il più diffuso in tutta l’India, all’interno della tradizione vaisnava.
Quella di Krishna è una figura molto complessa, che si è evoluta a partire da tradizioni storiche e mitiche anche molto diverse tra loro, e che riassume in sé “i contrasti più paradossali dell’animo indiano, dal sublime al licenzioso, dal mistero teologico più astruso alla favola popolare[2]. Krishna è Divino Amante e adorabile bambino, pastore e invincibile guerriero, freddo stratega e sposo, Maestro dello Yoga e gioioso suonatore di flauto…, in una serie infinita di ruoli a cui corrisponde un altrettanto grande numero di icone dell’arte indiana e di miti da cui sono nate opere letterarie che fanno parte del patrimonio di tutta l’umanità, quali il Gitagovinda di Jayadeva[3] o il Mahabharata di Vyasa[4].

Vishnu-Krishna discese tra gli uomini perché invocato dalla Terra, i cui abitanti erano tormentati dagli asura. Padre di Krishna era Vasudeva, della casta dei guerrieri, gli ksatriya. La madre era Devaki, cugina del tiranno Kamsa. Poiché Kamsa aveva usurpato il trono al proprio padre Ugrasena, gli era stato predetto che sarebbe stato ucciso da uno degli otto figli di Devaki. Aveva già fatto eliminare i primi sei, ma quando Devaki fu nuovamente in attesa di un figlio, ella “trasferì” miracolosamente l’embrione nel grembo di Rohini, seconda moglie di Vasudeva. Nacque così Balarama, fratello maggiore e compagno di Krishna. Quando poi generò Krishna (chiamato anche Balakrishna, da: bala, bambino), suo ottavo figlio, Devaki lo salvò da Kamsa affidandolo al pastore Nanda e alla moglie Yashoda, che vivevano oltre il fiume Yamuna. Una vicenda che ricorda il mito di Mosè salvato dalle acque, così come la reazione di Kamsa ricorda la storia di Erode: il tiranno infatti, accortosi del duplice inganno, ordinò di uccidere tutti i maschi dell’età di Krishna, ma la famiglia fuggì nella città di Gokula.

Quanto a Krishna, non era un bambino docile e tranquillo: un giorno mangiò della terra, e Yashoda, allarmata, gli aprì la bocca. Ma ebbe una visione impressionante: nel boccone di terra vide l’intero Universo, così come, molto tempo dopo, il guerriero Arjuna vedrà Krishna nella sua forma divina.
Ancora bambino, Krishna dovette difendersi dagli attacchi dei demoni inviati da Kamsa per ucciderlo. Ognuno di essi “corrisponde ad un ostacolo con il quale l’essere umano si scontra con fatica per poter crescere spiritualmente[5]. Ad esempio, una demonessa una volta gli offrì il seno con il latte avvelenato, ma fu essa stessa a morire: è il “veleno” di un amore materno possessivo, soffocante, che blocca anziché far crescere. Un carro minacciò di schiacciarlo: è la presa di coscienza del “peso” del proprio corpo. Un ciclone rischiò di ucciderlo: è l’educazione intellettuale, che quando eccede i propri limiti può deviare il devoto da un corretto percorso evolutivo…
Come Krishna attraversa e supera questi attentati alla sua vita, così il suo seguace, affidandosi a Lui con fede e devozione, supera gli ostacoli che incontra nel cammino spirituale.

Intanto Krishna cresce, diviene un bellissimo giovane, oggetto d’amore per tutte le gopi (pastorelle, da: go, vacca, toro, bue) che vivevano a Gokula. Krishna è qui l’affascinatore delle gopi, che egli incanta con il suono del flauto (Krishna Venugopala). Tra esse, Radha è la sua preferita, e diviene la sua amante in un rapporto perfetto, immortalato nei versi del Gitagovinda (il Canto di colui che protegge le vacche). In effetti, Radha era già la moglie di uno dei pastori tra i quali Krishna viveva e cresceva. Ma se l’amore di Rama per Sita era severo, puritano, e se quello di Shiva per Parvati era tantrico, misterioso, l’amore tra Krishna e Radha è giocoso, spensierato, assolutamente umano e mistico nello stesso tempo: è la trasfigurazione della gioia terrena nell’estasi mistica.
È la caratteristica fondamentale delle correnti religiose conosciute come Bhakti: Bhakti Marga, la Via della Devozione, la Via della liberazione attraverso la Fede, l’abbandono di sé a Dio, anziché attraverso le opere (Karma Marga) o la conoscenza (Jñana Marga).
L’amore di Radha e delle gopi è l’amore del devoto di Krishna per Dio. Il devoto infatti vede se stesso come donna nei suoi confronti, e ha fede nel fatto che tale amore sia corrisposto dal Dio[6]. Nello stesso modo in cui il sacrificio vedico determinava necessariamente l’effetto desiderato, quale risposta dalla divinità cui era rivolto, oppure come la forza del tapas (“ardore”, “energia potenziale”) sviluppato nelle pratiche ascetiche degli yogi era tale per cui perfino gli dei lo temevano, non potendo opporsi ad esso e quindi ai poteri acquisiti dagli yogi.
Anche l’amore delle gopi è sottoposto a prove e tentazioni: “ognuna di esse si crede la preferita o vorrebbe esserlo, l’elemento sensuale rischia di passare in primo piano[7]. Ma dopo aver superato anche questi ostacoli, di natura molto sottile, si realizza una autentica unione con Krishna, con Dio. Il linguaggio del mito così la descrive: “in un grande cerchio, sulla sabbia del letto dello Yamuna, il fiume sacro, ogni gopi vede un Krishna di fianco a lei, e vi è ancora, al centro, un altro Krishna che suona il suo flauto ammaliatore[8].
Ciò che il mito ci dice essere avvenuto un tempo (“C’era una volta…”) nella regione di Vrindavana, dove Krishna visse tra le gopi, è ciò che avviene realmente nello spirito del devoto pienamente realizzato, ed è ciò che avviene eternamente nella Vrindavana celeste, il “paradiso” di Krishna.

Come si è detto, oltre che Divino Amante Krishna è anche guerriero, stratega e abile diplomatico.
Dopo aver ucciso, insieme con Balarama, il tiranno Kamsa e i suoi fratelli, Krishna dovette respingere i ripetuti attacchi di Jarasandha, suocero di Kamsa. Secondo i miti, Jarasandha (“riunito da Jara”) era in origine un bimbo nato in due parti, o forse due bambini mancanti di un orecchio, di un occhio, di un braccio ecc. Fu trovato dalla rakshasi Jara, una demonessa divoratrice di cadaveri, che ricongiunse le due parti (o i due bambini), formando colui che sarebbe diventato un re nemico di Krishna. Il mito rappresenta storicamente le lotte tra shivaismo e krishnaismo, ma la vittoria di Krishna può essere letta come il superamento di un ulteriore ostacolo sulla Via della liberazione, che consiste nel “vedere un’unità reale in ciò che non è in effetti che un’unità artificiale e fittizia[9], un gravissimo errore per colui che aspira alla comunione con Dio.

Krishna combatté e sconfisse anche il demone Naraka, figlio di Vishnu e di Bhumi (dea della terra), che rappresenta forse il letame, simbolo di fertilità.
Naraka aveva rubato l’ombrello regale di Varuna, dio vedico dei fenomeni celesti, e pretendeva anche l’elefante Airavata, veicolo di Indra, nato dalla frullatura dell’Oceano di Latte. Su richiesta di Indra, Krishna tagliò in due Naraka, e le sedicimila apsaras[10] che egli teneva prigioniere andarono a far parte dell’harem del Dio, che le sposò tutte. Il saggio Narada volle capire come ciò fosse possibile, e trovò ognuna di esse tra le braccia del suo sposo, Krishna, l’Unico.
Nel frattempo Krishna aveva sposato anche sette o otto principesse, che rappresentano le “potenze” delle quali il Dio (e quindi il devoto) deve assicurarsi la padronanza. Ad esempio, una di esse è Satya, il cui nome significa Verità (da sat, essere). La più importante è Rukmini, una incarnazione di Lakshmi, la compagna di Vishnu (come lo era anche la gopi Radha).

L’evoluzione della figura di Krishna nella religiosità indiana tocca il suo vertice in un testo che è considerato la massima sintesi dell’Induismo di ogni epoca, la Bhagavad Gita, il Canto del Signore, la cui importanza è pari a quella del Vangelo nel mondo cristiano. Si tratta inoltre di un’opera letteraria di altissima qualità e tuttora di godibilissima lettura, tradotta più volte in quasi tutte le lingue[11]. La Bhagavad Gita, composta probabilmente tra i IV e il II secolo a.C., costituisce una piccola parte del poema epico Mahabharata: si tratta infatti di 700 versi in un’opera di centomila strofe, quantitativamente pari a otto volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme!
Nella Gita, Krishna si rivela per Ciò che veramente è, lo Spirito Supremo: “Ogni volta che in qualche luogo dell’Universo la religione declina e l’irreligione avanza, o discendente di Barata [Arjuna], Io vengo in persona. Discendo di era in era per liberare le persone pie, annientare i miscredenti e ristabilire i principi della religione[12].
Se in altri episodi del Mahabharata Krishna aveva utilizzato (senza successo) le sue virtù di mediatore e diplomatico nella disputa tra i Pandu e i Kaurava, o aveva dato consigli ai suoi alleati (i Pandava) in merito alla strategia militare da perseguire, nei versi della Gita, nel lungo dialogo con Arjuna, di cui è il Divino Auriga, Krishna si manifesta come il Dio Supremo, come Persona Suprema. Egli è il Tutto, la Verità Assoluta, ed ogni cosa non è che una manifestazione delle sue energie. Qui, secondo le tradizioni devozionali krishnaite, il Dio come Persona è superiore all’impersonale Brahman, l’Assoluto Non-manifesto. “La Bhagavad Gita spiega che anche il Brahman impersonale è subordinato alla Persona Suprema [..]. Conoscere il Brahman è dunque solo una tappa, incompleta in se stessa, sulla via della realizzazione della Verità Assoluta. [..] la realizzazione [della Persona Suprema] è superiore a quella del Brahman impersonale [in quanto] la Persona Suprema è sac-cid-ananda-vigraha”. Con la coscienza di Krishna “si percepiscono contemporaneamente tutti i suoi attributi trascendentali, sat [eternità], cit [conoscenza] e ananda (la felicità) nella loro forma perfetta (vigraha)”.
Conoscere la Verità come impersonale significa per il devoto di Krishna averne una visione limitata, poiché “il Tutto perfetto non può essere privo di forma, altrimenti sarebbe incompleto e quindi inferiore alle sue creazioni. Per essere veramente il Tutto, Esso deve includere sia ciò che è nella nostra esperienza sia ciò che la supera[13].
Tale Conoscenza Suprema (Cit) è quella a cui pervenne Arjuna quando Krishna gli si manifestò nella sua forma universale, così come è narrato nella Gita: mentre gli eserciti dei cinque fratelli Pandava e dei cento Kaurava (tra loro cugini) erano schierati l’uno di fronte all’altro nel Kurukshetra (Campo dei Kuru), nell’India di Nord Ovest, pronti per lo scontro finale, uno dei figli di Pandu, Arjuna, riconobbe tutti i suoi parenti in entrambe le formazioni e fu preso dal dubbio: “Non vedo che cosa possa portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa battaglia; mio caro Krishna, non potrei neppure desiderare un’eventuale vittoria, il regno o la felicità[14]. Krishna, qui nel ruolo di auriga di Arjuna, gli rispose compassionevolmente, esponendogli “in termini profon­damente filosofici i pregi di una condotta serenamente di­staccata. Prese in esame le categorie e le sottili peculiarità della mente umana, donde scaturiscono azioni e reazioni di molteplice natura. Mise a fuoco la vera natura della perso­nalità, la sua portata e statura in correlazione con la società, con il mondo e con Dio, e così pure quella della vita e della morte. Illustrò vari tipi di yoga e spiegò l'esigenza di com­prendere l'immortalità dell'anima racchiusa nel corpo uma­no corruttibile. Krishna sottolineò con ribadita enfasi l'im­portanza di ottemperare al nostro dovere con il dovuto di­stacco, in spirito di serena dedizione[15].
Il legame tra Arjuna e Krishna rappresenta qui il “modello” del perfetto rapporto che deve instaurarsi, secondo le tradizioni indiane, tra il discepolo (chela) e il suo Maestro spirituale (guru). Rapporto che non deve essere di dipendenza, ma di fiducia e abbandono.
Arjuna aveva a quel punto pienamente compreso gli insegnamenti del Maestro, ed avanzò quindi un’ultima richiesta: “O Persona Suprema, o forma sovrana, Ti vedo davanti a me così come Tu sei; tuttavia desidero vedere la forma con la quale Tu penetri nella manifestazione materiale[16], ovvero la sua Forma Universale. Krishna concesse allora ad Arjuna occhi divini con cui poterlo contemplare. Così…
Arjuna vede in quella forma universale innumerevoli bocche e innumere­voli occhi. Era tutto prodigioso. Quella forma era adorna di gioielli divini e sfavillanti e di svariati vestiti. Era gloriosamente coperta di ghirlande e pro­fumata da varie essenze. Era tutto magnifico, illimitato e continuamente in espansione. Questo è ciò che vede Arjuna.
Se migliaia e migliaia di soli si levassero tutti insieme nel cielo, il loro sfolgorio si avvicinerebbe forse a quello del Signore Supremo in questa forma universale.
Gli universi, sebbene infiniti e innumerevoli, Arjuna li vede tutti riuniti in un solo punto, nella forma universale del Signore.
Allora, confuso e attonito, i peli ritti, Arjuna rende i suoi omaggi al Si­gnore e a mani giunte comincia a offrirGli delle preghiere.

Arjuna disse:
Krishna, mio caro Signore, vedo riuniti nel Tuo corpo tutti gli esseri celesti e molti altri esseri. Vedo Brahma, seduto sul fiore di loto, e Shiva e i saggi e i serpenti divini.
O Signore dell’universo, vedo nel Tuo corpo universale innumerevoli forme, occhi, bocche, braccia e ventri, estesi all’infinito. Non c’è fine, né metà, né inizio in tutto questo.
La Tua forma, ornata di molteplici corone, mazze e dischi, è difficile a guardarsi per la sua radiosità accecante, che è ardente e immensurabile come quella del sole.
Tu sei il fine primo e supremo. Nessuno, in tutti gli universi, eguaglia la Tua grandezza. Tu che sei inesauribile e il più anziano di tutti. Tu sei il sostegno della religione e l’eterna Persona Divina.
Senza inizio, senza metà e senza fine. Tu sei l’origine di tutto. Innumerevoli sono le Tue braccia, innumerevoli i Tuoi occhi maestosi e, tra essi, il sole e la luna. Le Tue bocche sprigionano un fuoco ardente e la Tua radiosità riscalda l’universo intero.
Sebbene Tu sia Uno, Ti estendi attraverso il cielo, i pianeti e lo spazio che li separa. Contemplando questa Tua forma terribile, o grande tra i grandi, vedo i tre sistemi planetari in preda allo sgomento.
Tutti gli esseri celesti si sottomettono ed entrano in Te. Atterriti, essi Ti rivolgono delle preghiere a mani giunte e cantano gli inni vedici.
Le differenti manifestazioni di Shiva, gli Aditya, i Vasu, i Sadhya, i Visvadeva, i due Asvini, i Marut, gli antenati e i Gandharva, gli Yaksha, gli Asura e i perfetti esseri celesti, tutti Ti contemplano in preda allo stupore.
O Signore dalle braccia potenti, alla vista dei Tuoi volti e dei Tuoi occhi senza fine, delle Tue braccia, dei Tuoi ventri e delle Tue gambe, tutti innumerevoli, e dei Tuoi denti terribili, i pianeti e tutti i loro abitanti sono sconvolti, come lo sono io.
I Tuoi molteplici colori sfolgoranti riempiono i cieli, e alla vista dei Tuoi occhi immensi e sfavillanti, e delle Tue bocche spalancate non posso più mantenere la mia mente in pace, o Vishnu onnipresente. Ho paura[17].
Arjuna disse “ho paura”, ma in realtà la conoscenza di Krishna come Persona Suprema vinse ogni paura: Arjuna risalì sul carro, impugnò l’arco e si dispose alla guerra, che terminò con la vittoria sua e dei suoi fratelli dopo molti giorni di combattimenti. La sua profonda fede in Krishna fu ciò che lo salvò permettendogli di giungere alla Conoscenza Suprema e quindi alla Liberazione da ogni dubbio e timore, così come la fede di ogni devoto gli consente di ottenere la vittoria in quel campo di battaglia che è il proprio corpo e il proprio spirito, giorno dopo giorno, fino alla Conoscenza e alla Felicità Supreme (Sat-Cit-Ananda).

Dopo la fine della guerra, Krishna tornò nel suo regno, ma trovò che i suoi sudditi si erano abbandonati al lusso e ad ogni forma di indecenza. Addirittura avevano oltraggiato alcuni veggenti, i quali avevano maledetto tutta la stirpe, condannando gli abitanti ad uccidersi l’un l’altro. Di fronte a tale degradazione dell’umanità, Krishna comprese che la sua vita terrena era giunta alla fine, si stese su una pelle di animale e aspettò. Un cacciatore, scambiandolo per una preda, lo colpì con una freccia, uccidendolo. Il Dio tornò allora nella sua dimora celeste, Goloka Vrindavana. Era venerdì 18 febbraio 3102 a.C., il primo giorno del Kali Yuga.





[1] A. Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi, pag. 161.
[2] Id.
[3] Opera del XII secolo. In italiano è stato pubblicato dalle edizioni Adelphi.
[4] Composto a partire dal IV secolo a.C.
[5] J. Herbert, L’Induismo vivente, Ed. Mediterranee pag. 167.
[6] Nei libri sulle religioni dell’India si rimanda spesso, a questo proposito, al bellissimo Cantico dei Cantici dell’Antico Testamento. Un testo più che sufficiente, insieme a quanto già detto in questa e in altre occasioni su Krishna, o sullo Yoga, sullo Zen, sul Taiji…, per dimostrare che quanti genericamente affermano che le religioni hanno sempre considerato il corpo umano come un nemico, un involucro da reprimere e mortificare, sono in grave errore. Un recente esempio: “Di questo abito [cioè il corpo] le religioni hanno sempre avuto una cura maniacale, da sarti d’alta moda. Hanno spiegato agli uomini come mortificarlo in vita, codificando una quantità di peccati anche superiore al numero possibile degli eccessi, e persino come regolarlo dopo la morte”, in M. Gramellini, Chiedi alla cenere, La Stampa, 3 novembre 2015.
[7] Herbert, pag. 168.
[8] Id.
[9] Id.
[10] Ninfe danzatrici, personificazioni delle nuvole o delle brume.
[11] Segnaliamo qui almeno tre versioni in italiano: la traduzione di I. Vecchiotti, commentata da S. Radhakrishnan e pubblicata da Ubaldini Editore; la traduzione di R. Gnoli col commento di Abhinavagupta, edita da UTET; la versione con testo sanscrito, traduzione letterale e letteraria e spiegazioni di A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, pubblicata dalle Edizioni Bhaktivedanta di Firenze.
[12] Bhagavad Gita, Ed. Bhaktivedanta, IV, 7-8.
[13] Le ultime citazioni sono state tratte dall’Introduzione alla Bhagavad Gita pubblicata dalle Edizioni Bhaktivedanta, pag. XXIV. Questa versione della Gita è stata pubblicata a cura della Società internazionale per la coscienza di Krishna (ISKCON, più nota come Movimento Hare Krishna), fondata a New York nel 1966 dal maestro spirituale indiano A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada (1896-1977). L’ISKCON, espressione del movimento vaisnava dell’India  di Nord-Ovest, si basa sugli insegnamenti del mistico bengalese Caitanya Mahaprabhu (1486-1533), secondo una linea di maestri spirituali che viene fatta risalire a Krishna, ed ha il fine di "esportare" i valori, gli insegnamenti e la pratica del movimento vaisnava in Occidente.
Quanto alla presenza degli “Hare Krishna” in Italia si può consultare il sito http://www.harekrsna.it/.
[14] Bhagavad Gita, I, 31.
[15] R.K. Narayan, Il Mahabharata, Ed. CDE su lic. Guanda, pag. 162. Evidentemente non si tratta di una edizione integrale del poema epico, bensì di un suo brevissimo sunto in circa 200 pagine!
[16] Bhagavad Gita, XI, 3.
[17] Bhagavad Gita, XI, 10-24.

giovedì 3 dicembre 2015

Paura?

Per molti, questi sono giorni di paura. Alcuni la vivono rinchiudendosi nelle proprie case o in se stessi, altri la manifestano facendo alzare in volo aerei da bombardamento o dando voce alle proprie emozioni con parole di avversione e di ignoranza, distruttive quanto le bombe – ma che esauriscono il loro effetto con tempi infinitamente più lunghi.


Ciò che tutte queste persone hanno in comune è il timore di perdere qualcosa: la vita, i famigliari, gli amici, i beni, il potere, la tranquillità, oppure i “valori” dell’Occidente: la “democrazia”, la “libertà”, …fino al diritto di “fare il presepe”.
Nei confronti della paura, di quella potente emozione che in definitiva ci riporta alle nostre domande più intime, e più rimosse – chi sono io? cosa sono nascita-e-morte? – molti maestri spirituali dell’Oriente hanno da sempre espresso il loro pensiero, con insegnamenti che vanno in direzione opposta a ciò che il karma, l'ignoranza-avidya che proviene da un tempo senza inizio, le nostre pulsioni ataviche – e i condizionamenti politici e sociali – ci spingono a fare: innalzare muri, sia mentali che di mattoni e filo spinato, cercare disperatamente il “nemico” da accusare e colpire, rivoltarsi negli storici sensi di colpa di questa vecchia Europa, pregare qualche Entità superiore, fuggire in qualche isola che non c’è, ecc.

Ad esempio, un giorno al monaco Zen Taisen Deshimaru (1914-1982) venne posta questa domanda:

Noi viviamo in un mondo di paura. Come superarla?

E questa fu la sua risposta:

Vi sono molte paure, diverse tra loro. C'è, ad esempio, la paura di non riuscire, di essere sconfitti. Ma quando si è mushotoku [senza scopo né spirito di profitto] si è sempre liberi, anche se si perde. Perché allora avere paura?
Si è troppo attaccati al proprio io, per questo si ha paura. Abbandonate il vostro io e non avrete più paura. Se sarete sempre giusti, sarete forti, senza paura.

(In: www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/zeneocc.htm)


Altrettanto illuminanti le parole del monaco vietnamita Thich Nhat Hanh (1926), tratte da alcuni suoi insegnamenti pubblicati nel 2012:


Molti di noi agiscono quasi sempre spinti dalla paura del passato o del presente. Questo comportamento finisce per influenzare gli altri e la società in cui viviamo: si crea una cultura della paura. Quando insorge la paura e ci fa sentire turbati e angosciati, la prima cosa da fare è riconoscerla. Potremo riconoscerla e abbracciarla anziché metterla in atto. Tutta la gente che ci circonda è piena di timori e agisce spinta dalla paura. In mezzo a tutta questa paura, tutti desideriamo ardentemente la pace e la sicurezza.
A volte siamo tentati di ridicolizzare la paura altrui, perché ci ricorda la nostra. Ci hanno insegnato a tenerla lontana e a non riconoscerla. Come possiamo allora lasciarla andare e abbandonare la rabbia e la violenza che essa suscita in noi?
Dobbiamo ascoltare in profondità imparando a praticare come il Buddha, quando si esercitava a lasciare andare la sua stessa paura e violenza. Praticando la consapevolezza della paura e guardando in profondità la sua origine, troveremo la risposta.
Al giorno d'oggi, quando prendiamo un aeroplano, capita che c'insospettiamo per il comportamento delle persone intorno a noi: abbiamo paura che chiunque possa essere un terrorista. Qualunque persona potrebbe portare con sé sostanze chimiche esplosive o avere addosso una bomba. Tutti noi dobbiamo sottoporci al controllo del body scanner. Tutti hanno paura di tutto e di tutti. Anche se si porta una veste da monaco come me, ci si deve sottoporre alla scansione e alla perquisizione, perché la paura è davvero diffusa. Chi è venuto prima di noi ha creato questo clima di terrore, che ora è cresciuto a dismisura. Non sappiamo come gestire la nostra sofferenza: ben pochi sanno come lasciarla andare.
Così nutriamo un desiderio di vendetta: vogliamo punire chi ci fa soffrire e pensiamo che, così facendo, soffriremo di meno. Vogliamo fare loro violenza, desideriamo castigarli. Quando un terrorista porta degli esplosivi su un autobus o su un aereo, tutti muoiono. Il desiderio di punire del terrorista nasce dalla sua stessa sofferenza, che egli non sa gestire: così cerca sollievo vendicandosi sugli altri.
Il Buddha disse una volta: «Ho guardato in profondità nello stato d'animo delle persone infelici e ho visto, nascosto dalla loro sofferenza, un coltello molto affilato. Poiché esse non vedono quel coltello dentro di sé, trovano difficile affrontare la propria sofferenza».
La vostra paura è sepolta in fondo al cuore, un coltello affilato coperto da molti strati: è quel coltello che vi fa comportare in modo così crudele. Voi non vedete il coltello o la freccia che avete nel cuore, ma essi vi portano a infliggere sofferenza agli altri. Ora potete imparare a riconoscere quel coltello e, quando l'avrete trovato, potrete rimuoverlo dal cuore e poi aiutare gli altri a trovare il proprio e ad estrarlo. Il dolore causato dal coltello affilato è lì da tanto tempo: fintanto che continuerete ad aggrapparvi a quel dolore, esso non farà che ingrandirsi e diventerà così forte da farvi desiderare la punizione di coloro che ritenete responsabili della vostra sofferenza.

(In: Thich Nhat Hanh, Paura, Ed. BIS, pag. 121-123)


Infine un insegnamento di una delle figure più profonde del ‘900, Jiddu Krishnamurti (1895-1986):


È possibile porre fine a ogni paura? Si può avere paura del buio, o di calpestare inaspettatamente un serpente, di imbattersi in un animale feroce, o di cadere in un precipizio. Ad esempio, è naturale e salutare rifiutarsi di sostare sulla carreggiata di un autobus in arrivo, ma ci sono molte altre forme di paura. Questo è il motivo per cui ci si deve domandare se l’idea sia più importante del fatto, di ciò che è. Se si guarda ciò che è, il fatto, si vedrà che è soltanto l’idea, il concetto del futuro, del domani, che provoca paura. Non è il fatto che crea la paura.
Una mente oppressa dalla paura, dal conformismo, dall’autorità dei pensatori, non può comprendere ciò che potrebbe essere chiamato l’origine. E la mente chiede di sapere che cos’è l’origine. Abbiamo detto che è Dio, ma questa è di nuovo una parola inventata dall’uomo nella paura, nell’infelicità, nel suo desiderio di fuggire di fronte alla vita. Una mente libera dalla paura, quando si interroga sull’origine, non cerca il suo personale piacere, o una via di fuga, perciò nell’indagine tutte le autorità cadono. Capite? L’autorità di chi parla, l’autorità della chiesa, l’autorità dell’opinione, della conoscenza, dell’esperienza, di ciò che la gente dice — tutto questo ha completamente termine e non c’è obbedienza. Soltanto una mente simile può scoprire da sola che cos’è l’origine, scoprirlo, non come una mente individuale, ma come un essere umano totale. Non c’è nessuna mente ‘individuale’ in assoluto; siamo completamente legati gli uni agli altri. Per favore, cercate di comprenderlo. La mente non è qualcosa di separato; è una mente totale. Noi siamo tutti conformisti, tutti spaventati, stiamo tutti scappando. E per capire che cos’è l’origine, non come individui, ma come esseri umani totali, si deve comprendere la totalità dell’infelicità umana, tutti i concetti, tutte le formule che l’uomo ha inventato nel corso dei secoli. Soltanto quando sarete liberi da tutto questo potrete scoprire se vi sia qualcosa all’origine. Altrimenti saremo esseri umani di seconda mano; e poiché saremo di seconda mano, esseri umani contraffatti, non ci sarà fine al dolore. Infatti, la fine del dolore è essenzialmente l’inizio dell’origine. Ma la comprensione che conduce alla fine del dolore non è la comprensione del vostro particolare dolore o del mio particolare dolore, perché il mio e il vostro dolore sono in relazione con tutto il dolore dell’umanità. Questo non è mero sentimentalismo o mera emotività; è un fatto concreto e brutale. Quando comprendiamo la struttura del dolore nella sua interezza e perciò ne provochiamo la fine, allora è possibile che sopraggiunga quello strano qualcosa che è l’origine di ogni vita, non in una provetta, come la scoprono gli scienziati, ma in quella strana energia che sta sempre esplodendo. Quell’energia non si muove in nessuna direzione e perciò esplode.

(In: J. Krishnamurti, Sulla paura, Ed. Astrolabio, pag. 20-21).


Abhaya Mudra, il sigillo della Non-paura



domenica 29 novembre 2015

Corpo e religioni: qigong, zen, taiji

In un suo recente intervento sul quotidiano La Stampa (si può leggere qui il testo completo: 
http://www.lastampa.it/2015/11/03/cultura/opinioni/buongiorno/chiedi-alla-cenere-jMZSokNpkudTrisOzD47XL/pagina.html), il noto giornalista Massimo Gramellini ha perentoriamente affermato che “le religioni, che nei propositi dei loro fondatori dovevano occuparsi principalmente delle nostre anime, hanno finito per interessarsi in modo ossessivo dei nostri corpi”. Di quel corpo che “per chi crede in una dimensione immateriale dell’esistenza è solo un involucro passeggero, l’abito che lo spirito indossa per partecipare alla festa della vita e che poi dismette al momento di andare altrove. Di questo abito le religioni hanno sempre avuto una cura maniacale, da sarti d’alta moda. Hanno spiegato agli uomini come mortificarlo in vita, codificando una quantità di peccati anche superiore al numero possibile degli eccessi, e persino come regolarlo dopo la morte”.

Si tratta, come di per sé evidente, di affermazioni estremamente generiche e quindi ben poco significative: basterebbe chiedersi infatti che cosa sia “religione” e cosa non lo sia, poi di quali religioni si stia parlando, e ancora chi siano i fondatori delle stesse (Buddha o Gesù intendevano davvero fondare delle religioni?).
Ma è più interessante notare come l’atteggiamento delle “religioni” nei confronti del corpo umano non sia così univoco nel tempo, ovvero nella storia delle “religioni” e nello spazio, cioè nelle diverse tradizioni spirituali del mondo.
Basti pensare all’importanza del corpo nello Yoga, quello vero, non quello propinatoci nella maggior parte dei centri fitness!

Per cercare di andare un poco più in profondità rispetto ad osservazioni di facile presa ma di scarso spessore, ci si può utilmente confrontare con un libretto pubblicato dalle Edizioni Mimesis, dal titolo Il corpo consapevole - Le arti d'Oriente e l'integrazione della vita adulta, scritto da Salvatore Giammusso, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Napoli.
Nelle 100 pagine del suo lavoro, l’A. prende in esame tre diverse pratiche di matrice orientale, ormai diffuse anche in Occidente: il qigong, lo zen e il taiji. E lo fa proprio in relazione alle modalità con cui tali discipline “lavorano” sul corpo, sul respiro, sulla mente, sull’energia. Senza peraltro trascurare i legami che intercorrono tra le succitate Arti e le tradizioni religiose (sarebbe accettabile il termine per Gramellini?) del Buddhismo e del Taoismo.
Del volumetto di Giammusso proponiamo qui le considerazioni che lo concludono, che riteniamo molto interessanti per i praticanti… e per coloro che non si accontentano delle rubrichette dei quotidiani.
  
Scrive il Prof. Giammusso:

"Volgiamo ora lo sguardo sul cammino percorso per una breve considerazione di insieme. Si è visto che le discipline taoiste e buddhiste in questione hanno storia e tradizioni diverse e al tempo stesso risultano intrecciate tra loro sotto molti aspetti. L'analisi ha mostrato che qigong, meditazione zen e taijiquan lavorano in modo specifico su corpo, mente ed energia. Il qigong cura gli organi interni e l'attenzione, e mette in risalto soprattutto il lavoro sul respiro come tramite della relazione energetica tra organismo e ambiente; in maniera analoga, la meditazione attribuisce una funzione importante alla postura fisica e al rilassamento del respiro, ma l'attenzione al flusso di sensazioni, stati emotivi e pensieri ha il ruolo di spicco; infine il taijiquan fa ricorso alla respirazione addominale e alla visualizzazione e le integra nel movimento.



Ma al di là di queste sfumature, sembra più rilevante cogliere il fatto che nel complesso queste antiche arti d'Oriente si presentano come pratiche di consapevolezza che riorganizzano la struttura della coscienza favorendo il passaggio da una posizione egocentrica a una fondata su un'armonica relazione di contatto tra corpo e ambiente. In particolare, la pratica del qigong dimostra che la consapevolezza del respiro e del ciclo energetico porta a sentirsi parte di un più ampia sfera naturale. A sua volta la meditazione zen appare come pratica dell'attenzione che fa accedere alla dimensione "'mediale" della mente. Si varca questa "porta senza porta" - come suona un noto paradosso zen - quando si entra in contatto profondo con se stessi e si comprende il vuoto: qui ci si "'lascia andare", si lascia andare l'identificazione con l'ego e con le sue illusioni di controllo e si matura la semplice capacità di essere, per dirla con Winnicott. Allora si fa esperienza che è possibile essere al tempo stesso ben desti e tranquilli e si può rispondere alle questioni che il mondo ci pone senza sosta in maniera profonda e rilassata. Infine il taijiquan è la disciplina che insegna la consapevolezza della postura e del movimento nello spazio a contatto con gli altri. Esso può essere inteso come una via che sviluppa la capacità di muoversi senza muoversi, ossia di rimanere calmi e centrati nell'incessante movimento della vita. In uno sguardo di insieme potremmo dire che l'educazione a queste arti insegna a essere corpo, più che ad aver corpo, e integra pienamente la consapevolezza corporea nella struttura della vita psichica adulta.
Questa prospettiva consente di sviluppare un discorso sulla salute nel senso più ampio del termine, da non restringersi agli aspetti medici, ma da estendere alla sfera del benessere individuale e sociale della persona. Su questa connessione tra integrazione psicofisica, consapevolezza e adultità richiamiamo l'attenzione per un'ultima osservazione. Il lavoro di integrazione promuove la salute in un duplice senso: in un primo senso, più evidente, lo sviluppo della connessione di corpo, mente e respiro apporta diversi benefìci oggettivamente misurabili. C'è però un altro senso, più riposto: una sana consapevolezza disidentifica dall'agire in modo immediato (e quindi compulsivo) le proprie difese caratteriali, retaggio di un'età non adulta e dischiude una dimensione più profonda, integra dell'essere. Certo, il lavoro sull'integrazione non ha termine, in linea di principio è aperto. E questo perché non esistono solo fissazioni infantili: anche nella condizione adulta è sempre possibile il rischio della "caduta", sotto forma di irrigidimento rispetto al fluire della vita, chiusura in un orizzonte ristretto e noto, rifiuto di un vero incontro con situazioni estranee e nuove. E tuttavia le pratiche di consapevolezza rendono possibile far esperienza del corpo come vita nella sua feconda potenzialità, come crescita, sviluppo, libertà nella totalità degli aspetti, che includono la dimensione relazionale e il rapporto con la natura, in breve: apertura e disponibilità alla vita. Si può dunque guardare alla condizione adulta anche come una condizione dello spirito che risveglia alla vita nella sua mutevolezza e accoglie e sostiene le trasformazioni che accompagnano ogni sua fase. Da questo punto di vista c'è salute non solo là dove c'è normale funzionamento fisiologico, ma soprattutto dove si scopre meditativamente un legame profondo con la vita. In questo senso si può dire che uno spirito adulto è "sano", integro nonostante tutte le ferite, in quanto sa prendersi cura della vita in tutte le sue forme" (pag. 99 -100).



da:
S. Giammusso
Il corpo consapevole - Le arti d'Oriente e l'integrazione della vita adulta
Ed. Mimesis 2009

venerdì 27 novembre 2015

Fede e ragione: la lectio magistralis di Benedetto XVI e le miserie intellettuali di casa nostra

In questi tempi oscuri, all’alba del Kali Yuga, può essere una buona pratica leggere (o rileggere) e meditare un importante testo che tocca i temi del rapporto tra fede e ragione, tra religioni diverse, tra Oriente ed Occidente.
Si tratta della "lectio magistralis" tenuta da Benedetto XVI, attuale Papa Emerito, nell'Aula Magna dell'Università di Regensburg il 12 settembre 2006, durante un viaggio apostolico in Germania. Il testo ha per titolo "Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni", e può essere reperito in forma integrale con le relative note sul sito Internet della Santa Sede:


Questo testo era stato addirittura definito come la “gaffe di Ratisbona”. Probabilmente per il fatto che sebbene il discorso sia stato citato infinite volte dai media, molto meno è stato letto nella sua completezza ed ancor meno è stato compreso. E se è stato compreso, è stato spesso utilizzato in perfetta malafede, come occasione di critica preconcetta nei confronti di un grande Pontefice che, a differenza di altri che lo hanno preceduto e seguito, non ha mai goduto, per fortuna vien da dire, di un grande appeal mediatico. Non a caso, la parte del discorso che ha dato origine alle “critiche” si trova poco dopo l’inizio, al terzo capoverso, e talvolta la pigrizia mentale di alcuni opinionisti di professione (e la malafede di altri…) spinge ad emettere sentenze senza minimamente approfondire la conoscenza di ciò di cui si parla, come se si valutasse un quadro dopo aver dato un’occhiata veloce alla sola cornice…
Non per nulla, in una nota al discorso pubblicata nel sito della Santa Sede, è detto: “Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica”.

Ecco il testo della “lectio”:

Benedetto XVI a Ratisbona
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
          Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del tutto dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre Leggi o tre ordini di vita: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema fede e ragione, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: Nessuna costrizione nelle cose di fede. È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il Libro e gli increduli, egli, in modo sorprendentemente brusco che ci stupisce, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, “σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte….
L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: In principio era il λόγος. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce “σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: Passa in Macedonia e aiutaci! (cfr. At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una condensazione della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo Io sono, il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: Io sono. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr. Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la Settanta –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire con il logos è contrario alla natura di Dio.
 Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, “λογικη λατρεία” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno". L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio" ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.