mercoledì 24 ottobre 2012

Perchè Bodhidharma è partito per Hollywood? - 3 - Piccolo Buddha


Il blockbuster del Dharma: Bernardo Bertolucci e “Piccolo Buddha”

Non so se qualcuno potrebbe affermare
che l’Occidente ha bisogno
di un film come Little Buddha.

(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama)


Il Ciampa di Pirandello
1916. Nell’ultima scena de “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello il protagonista, lo scrivano Ciampa, la cui situazione di marito “becco” è divenuta di pubblico dominio, sfoga la sua amarezza: “…che cosa debbo fare? Tenermi questo sfregio? Comperarmi una testiera con 2 bei pennacchi, per fare la mia comparsa in paese? E tutti i ragazzini dietro, in baldoria, a gridarmi: Bèèè…Bèèè…”.

1993. “Piccolo Buddha”, il famoso film di Bernardo Bertolucci, inizia con la sequenza di un giovane monaco che, alla richiesta di Lama Norbu di “mostrare qualcosa della sua vita precedente”, si mette a belare imitando una capra, tra le allegre risate dei piccoli novizi. Il nome del monaco è Champa (pron. Ciampa, in tibetano: amore) [1].

Con questo evidente omaggio al Maestro del Teatro italiano, il Maestro del Cinema apre il terzo film della sua cosiddetta “trilogia esotica”: “L’ultimo imperatore” (1987, sulla vita di Pu Yi, ultimo imperatore cinese), “Il tè nel deserto” (1990, girato in Marocco da un romanzo di Paul Bowles) e “Piccolo Buddha” (1993, girato in Nepal, Buthan e Stati Uniti) [2].

Due film al prezzo di uno

Si è giustamente detto che in “Piccolo Buddha” vi sono due distinti film, interdipendenti tra loro:

Lama Osel, oggi
- la vicenda della ricerca della “reincarnazione” di Lama Dorje da parte del suo discepolo Lama Norbu [3], ispirata alla storia del bambino spagnolo Osel Torres, riconosciuto nel 1987 come “reincarnazione” di Lama Yeshe (morto a Los Angeles nel 1984) [4];
- la storia della vita di Siddhartha Gautama Sakyamuni, il Buddha, dal concepimento al momento del Risveglio, narrata da Bertolucci sulla base del Buddhacarita di Aśvaghoşa, classico testo mahayana del I sec. d.C. [5].
La vita del principe Siddhartha è riletta dal regista in modo tale da poter essere abilmente inserita nella vicenda della ricerca del tülku [6] di Lama Dorje, ma come vedremo questo avviene sovente a discapito della fedeltà non tanto alla lettera del testo di Aśvaghoşa, quanto piuttosto (e questo è grave, visti gli intendimenti “didattici” del film [7]) ai fondamenti degli insegnamenti del Buddha [8], che passano anche attraverso il rigore dell’iconografia e della biografia buddhiste.
Due film in uno, si è detto, e due tonalità di colore, una per film, secondo la magistrale interpretazione cromatica del direttore di fotografia, Vittorio Storaro (“Ultimo tango a Parigi”, “Novecento”, “Apocalypse Now”,…). Colori “caldi”, giallo, oro, ocra, per la vita del Buddha e per le riprese “esotiche”. Colori “freddi”, blu elettrico, toni di grigio, per le sequenze “occidentali” (un Occidente ingrigito, spento, vecchio?), girate a Seattle. Laddove giungono, seguendo gli “indizi” che Lama Dorje ha disseminato, Lama Norbu e il giovane monaco Champa.
Lì incontrano i coniugi Konrad e il loro piccolo Jesse, possibile “reincarnazione” (il termine è usato e abusato nel film, nonché nella vulgata buddhista diffusa in Occidente) di Lama Dorje. Mentre Jesse legge (soprattutto ascolta) affascinato la storia del Buddha ricevuta in regalo, i suoi genitori [9] sono naturalmente pieni di dubbi e timori. Sarà un momento di grande sofferenza, la morte di un socio ed amico del padre, a sciogliere il dilemma. E mentre Siddharta abbandona la reggia paterna, è proprio il padre di Jesse, non la madre, ad accompagnare il figlio in Oriente per verificare l’identificazione, in “concorrenza” con altri due bambini, il nepalese Raju [10] e l’indiana Gita. Lì finalmente le due storie confluiscono l’una nell’altra, Siddharta “diviene” il Buddha sotto gli occhi dei tre bambini, Hollywood e Bolliwood [11] si identificano. E’ – ancora! – l’happy end: i bambini vengono riconosciuti, tutti e tre, come “reincarnazioni” di Lama Dorje, Oriente e Occidente sono riappacificati; Siddharta/Keanu Reeves ci guarda – e si fa guardare – col sorriso di un Buddha troppo compiaciuto per essere tale; e perfino Mara riesce a farci tenerezza, un po’ come la Creatura del Dr. Frankenstein, o King Kong, o il Mostro della Laguna Nera…

Un Buddha piccolo piccolo


L’attuale Dalai Lama ha espresso in termini di speranza quello che per Bernardo Bertolucci è stato l’intendimento che lo ha spinto a realizzare il suo film: “Spero quindi – ha detto Tenzin Gyatso – che film del genere contribuiscano alla comprensione dell’insegnamento buddhista per coloro che praticano culture e religioni differenti”. Lo stesso regista ha affermato che “c’è nella nostra società, oggi abiettamente consumistica, un gran bisogno di spiritualismo” [12]. E’ quindi più che verosimile che la motivazione sincera della scelta di Bertolucci di dare vita alla sua opera fosse “far conoscere e apprezzare il buddhismo” [13] ad un pubblico, quello occidentale, che “ha sempre nutrito [per esso] una certa fascinazione, ma che non è mai stato capace comunque di penetrare fino in fondo” [14].
Ma se questo era il fine, quale è stato il risultato del suo sforzo, al di là dell’indubbio successo di pubblico, e anche al di là delle parole di Kundun, francamente un poco scontate?
Mauricio Yushin Marassi, monaco e missionario Soto Zen, docente universitario, è categorico: “E’ un film errato, quasi completamente fuori ruolo, addirittura negativo per l’obiettivo che il regista [..] intende perseguire” [15].
Ripercorriamo il film – e i suoi errori – seguendo la traccia lasciata dal monaco Zen nel suo breve excursus [16].
Si è detto che non è importante che Bertolucci si sia discostato dalla lettera della “biografia” del Buddha di Aśvaghoşa – mito o storia che sia. Ma, nello specifico, “dimenticare” l’ultimo dei quattro incontri del principe Siddhartha, quello con l’asceta [17] (gli altri sono con un vecchio, un malato, un morto), sacrificando la vicenda a (ipotetiche) esigenze sceniche, non significa fare opera di semplificazione, bensì oscurare il “legame [del buddhismo] con l’antica religiosità indiana” [18] ed ostacolare la comprensione del buddhismo stesso come insegnamento esperienziale, pragmatico e quindi necessariamente anti-dogmatico e non istituzionale. A favore invece di una sua interpretazione catechistica, libresca (si noti come un libro appaia all’inizio, e un altro libro costituisca il trait d’union tra il film “occidentale” e quello “orientale”). Tale interpretazione può forse essere più congeniale per un pubblico cresciuto nelle tradizioni del cristianesimo occidentale, ma è del tutto erronea.
La stessa cosa accade con la sequenza in cui Siddhartha, ancora immerso nella via dell’estremo ascetismo, ascolta le parole del musicista sulla corda troppo tesa o troppo allentata. Nell’intendimento – anzi, nel fra/intendimento – di Bertolucci, a partire di qui si dovrebbe comprendere che la corretta via sta nel mezzo. Ma in quest’ottica la Via del Buddha come Via del Mezzo altro non sarebbe che una sorta di aurea mediocritas, una filosofia del buonsenso e della moderazione: il che può forse ricordare la moderata felicità, la moderata attività, il moderato governo ecc. di Shangri-La in “Orizzonte perduto”, ma certo non i rigorosi insegnamenti del Buddha e di Maestri come Nagarjuna (la Via del Mezzo come ciò che va al di là degli estremi, non ciò che accetta un po’ dell’uno e un po’ dell’altro).
Keanu Reeves/Siddhartha
Di qui si giunge al cuore della Dottrina, ed anche della questione della sua mancata comprensione da parte di Bertolucci, nonostante le consulenze ricevute in corso d’opera. Con la ovvia conseguenza di quanto il suo film – anche perché molto ben costruito – possa aver contribuito a diffondere nel pubblico occidentale un’immagine quanto meno distorta del buddhismo. Il punto cruciale è il tema della vacuità (sunyata in sanscrito, ku in giapponese), direttamente legato alla fin troppo nominata “reincarnazione”. L’insistenza nell’uso del termine “reincarnazione”, dice M.Y. Marassi, squalifica “definitivamente ogni velleità di tipo didattico”, in quanto esso è “completamente incongruo in qualsiasi buddhismo che non sia impastato di credenze sciamaniche, dal momento che l’insegnamento base del Buddha verte sulla natura vuota di ogni cosa e di ogni esistenza, dove anche la parte sottile dell’uomo, la mente e lo spirito, sono assemblaggi di elementi che si separano disgregandosi alla nostra morte” [19]. Similmente si esprime A. Izzi: nel corso del film sarà Lama Norbu “a rimarcare come il corpo sia transeunte mentre l’anima sola permane eterna nel ciclo delle reincarnazioni andando con questo a reiterare un ennesimo fraintendimento del pensiero buddhista” [20].
Inoltre, non emerge affatto dal film una semplice realtà storica: che il metodo della ricerca dei tülku è specifico dell’area tibetano-mongolica e non appartiene né al buddhismo delle origini né alle tradizioni sino-giapponesi o del sud-est asiatico. Anche nello stesso Tibet questa tradizione ebbe inizio nel XII sec. e si affermò soltanto a partire dal XIV sec. [21].
Risultato di questi.… errori? licenze poetiche? esigenze sceniche o di botteghino (karma e reincarnazione sono molto trendy)? – è che certamente sono stati resi appetibili ad un vasto pubblico i temi magistralmente proposti nel film, ma che cosa è stato proposto da Bertolucci se non una ennesima ribollita new-age in salsa tibetana di elementi buddhisti, cristiani (c’è molto San Francesco nel suo Siddhartha), perfino hindu e, naturalmente, hollywoodiani? Condizionato in questo – come ha notato il critico cinematografico Tullio Kezich – “da quella particolare forma della cinereligione che ha per fondatore Dysney e per profeta Spielberg” [22]. E proprio sul tema cinema/religione M.Y. Marassi chiude la sua argomentazione: “dal punto di vista religioso raramente ho visto un film peggiore, completamente privo dell’alludere discreto e preciso, dell’umiltà di chi pur sapendo di non sapere si accinge a mostrare” [23].

Per concludere, può essere interessante proporre – per una riflessione personale sui temi della vacuità e dell’impermanenza – alcuni passi tratti dal Mahāparinibbānasuttanta, il Sutra del Nirvana definitivo. All’estinzione del Buddha, Sakka, re degli dèi, disse: “Impermanenti sono i sáņkhāra [24], elementi sorgenti a danno. Distrutto ciò che mena a rinascere [25], il loro estinguersi è gioia”. E il discepolo Anuruddha, rivolto ai monaci in lacrime: “Orsù, o amici, non piangete, non lamentatevi. Non fu forse, o amici, dal Sublime in precedenza detto che di tutte le cose piacevoli e gradevoli è naturale il mutare, è naturale il separarsi, è naturale il diversificarsi? [..] Che ciò che è nato, divenuto, nominabile, elemento dissolubile, non venga dissolto, tale possibilità non si conosce” [26].


NOTE

1. Ad abundantiam, si osservi che il ruolo di Maria, la governante di casa Konrad, è interpretato dall’attrice italo-americana Jo Champa…
2. Altri famosi film di Bertolucci, figlio del poeta Attilio, sono: “Ultimo tango a Parigi”, “Novecento”, “La luna”, “Io ballo da sola”… Del “Piccolo Buddha” Bertolucci è anche soggettista e sceneggiatore.
3. Interpretato da Ruocheng Ying, attore cinese già visto ne “L’ultimo imperatore”.
4.Si legga a questo proposito Reincarnazione. Il piccolo grande Lama di Vickie Mackenzie, pubblicato dalle Ed. Chiara Luce nel 1992, l’anno prima del film. Alla vicenda è stato dedicato uno degli incontri di questo corso nel 2006.
5. Pubblicato in Italia dall’Ed. Adelphi con il titolo: Le gesta del Buddha.
6. Il termine tülku indica nella tradizione tibetana la manifestazione in forma fisica di un Buddha, o di un essere progredito che si basa sulle proprie realizzazioni per “pilotare” il processo post mortem e le circostanze della rinascita del continuum psichico, sempre per aiutare gli esseri senzienti. Quindi non è una “persona” che si reincarna, ma la mente di saggezza di un maestro defunto (da: Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, alla voce tülku).
7. “Bertolucci assume nei confronti dello spettatore occidentale una precisa [..] vocazione didattica” (A. Izzi, Dal Tibet a Hollywood. Bertolucci, Scorsese e Herzog: tre sguardi occidentali sul buddhismo, Ed. Aracne, pag.47)
8. Primo tra tutti la vacuità, ovvero l’assenza di esistenza intrinseca dei fenomeni.
9. La figura della madre è interpretata da Bridget Fonda, figlia di Peter (un titolo per tutti: “Easy Rider”) e nipote del nonno Henry e della zia Jane – ed è Storia del cinema..…
10. Attualmente l’attore che interpretò Raju, Raju Lal, ha più di 20 anni, vive nei ghetti accanto alla stazione di New Delhi, è tuttora analfabeta e fa il lustrascarpe (da L. Zerbetto, Fa il lustrascarpe a Nuova Delhi…, in: www.santantonio.org/messaggero/pagina_stampa.asp?R=&ID=1049).11. Col termine “Bollywood” (Hollywood + Bombay) si intende il cinema popolare indiano. L’industria cinematografica indiana è la più grande del mondo, Bombay (oggi Mumbai) è una delle sue maggiori sedi. In India viene prodotto un numero di film che è quasi il doppio di quelli prodotti negli USA.
12. Il Corriere della Sera, 16 maggio 1996.
13. Mauricio Yushin Marassi, scheda cinematografica in: Cinema e Buddismo, a cura di G. Martini, Ed. Centro Ambrosiano, pag. 69 (di qui in poi citato come MYM).
14. A. Izzi, Dal Tibet a Hollywood, pag. 49.
15. MYM, pag. 69.
16. Leggibile anche sul sito www.lastelladelmattino.org/buddista/
17. “Io sono un asceta che terrorizzato da nascita e da morte ha abbandonato [il mondo] per la Liberazione. In un mondo in cui la distruzione è legge, io, volendo essere libero, cerco lo stato beato e indistruttibile rimanendo equanime verso parenti ed estranei assieme e avverso a passione o odio per gli oggetti dei sensi” (Le gesta del Buddha, canto V, 17-18).
18. MYM, pag. 69.
19. MYM, pag. 69.
20. A. Izzi, Dal Tibet a Hollywood, pag. 48-49.
21. Si veda a questo proposito il I volume de Il buddhismo mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture di M.Y. Marassi, Ed. Marietti.
22. T. Kezich, Il piccolo Buddha o la Fiaba infinita, in: Corriere della Sera, 10 dicembre 1993.
23. MYM, pag 69. Certo, se si parla di pessimi film sul tema “religione” e si pensa a “Fratello Sole Sorella Luna” di Zeffirelli…..
24. Sono le formazioni mentali della volizione, la cui natura è costruire la nostra visione dell’esistenza. Tale visione è condizionata dagli elementi del passato e determina gli aggregati dell’esistenza futura (da: Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, alla voce: formazioni karmiche).
25. Si noti, si parla di “rinascita”, non di “reincarnazione”.
26. Il Grande Dialogo del Nirvana Definitivo, Ed. TEA, pagg. 122-123.


m. mauro tonko, marzo 2009

UNISABAZIA 2010/11 - La CIA in Tibet


L’Esercito del Popolo cinese “libera” il Tibet - Il ruolo della C.I.A.


"Grazie agli sforzi di tutte le nazionalità, nel corso degli ultimi anni nella stragrande maggioranza delle regioni della Cina abitate da minoranze nazionali, le riforme democratiche e le trasformazioni socialiste sono state sostanzialmente portate a termine.
Nel Tibet le riforme democratiche non sono ancora state attuate poiché la situazione non è ancora matura.
In base all’accordo in diciassette punti stipulato tra il governo popolare centrale e il governo locale del Tibet la riforma del sistema sociale sarà fatta, ma il calendario di essa può essere fissato solo quando la maggioranza del popolo tibetano e le personalità principali della regione la riterranno possibile: non dobbiamo essere impazienti.”

Mao Zedong, “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, 1957

In un documento greco del I sec. E.V., il “Periplo del Mar Rosso” (in latino “Periplus maris erythraei”) si parla di un popolo dell’Asia Centrale, i Bautai, e del fiume Bautisos. E Bhauta (o Bhota) è il nome con cui gli Indiani chiamavano il paese detto dai suoi abitanti Böd (pron. Pö), e a noi noto come Tibet.
Il territorio del Tibet
Secondo quanto riportato nel classico testo di Rolf Stein su “La civiltà tibetana” (1962), si trattava di un territorio di circa 3.800mila km/q (pari a quasi 13 volte l’Italia), con 3 milioni e 500mila/4 milioni di abitanti, per una densità di circa 1 abitante per km/q (Italia: 200 circa). Queste cifre possono notevolmente variare, a seconda delle regioni che vengono ricomprese sotto la denominazione di Tibet.
Racconta un antico mito che la prima coppia che abitò il Tibet era formata da uno scimmione (secondo la versione buddhista del mito era la manifestazione del bodhisattva della compassione Avalokiteshvara, Cenresig in tibetano) e da una orchessa delle montagne. Dalla loro unione nacquero esseri per metà umani e per metà scimmie, eretti ma ricoperti di peli, con la faccia rossa e piatta.
Molto tempo dopo, da una corda che pendeva dal cielo scese il primo re tibetano, che coltivò il primo campo, diede leggi per tutti, ebbe figli, poi risalì in cielo lungo la stessa corda.
Più prosaicamente, la storia situa le origini della nazione tibetana nel VII sec. E.V.: un principe, Namri Löntsän, a seguito di una cospirazione si era ritrovato a capo di quello che diverrà il regno tibetano. Subito, nel 608 e 609 E.V., inviò due delegazioni presso la corte imperiale cinese, facendo entrare il Tibet nello scenario internazionale. Dalle origini, quindi, la storia del Tibet e quella della Cina rimasero costantemente intrecciate, alternando periodi di equilibrio ad altri che videro il predominio cinese oppure l’espansione dei regni tibetani.
Nel IX sec. il Tibet raggiunse il suo apice, sia dal punto di vista culturale sia da quello territoriale-militare, giungendo ad occupare buona parte dell’Asia Centrale, compreso il Nepal e territori dell’India e della Cina. Ma un successivo periodo di crisi, che durò fino al XIII sec., privò il Tibet di un vero governo centrale. Parallelamente, progredì invece lo sviluppo del buddhismo, che era penetrato in Tibet nell’VIII sec. nella sua forma Mahayana, divenendo tra l’altro un fondamentale strumento di unificazione culturale e linguistica. Si formarono quindi grandi monasteri, tra i primi quello di Sakya, nel 1073.
La debolezza politica e militare del Tibet favorì però il suo assoggettamento ai Mongoli, che erano in piena espansione. Ne scaturì una lunga alleanza tra impero mongolo e buddhismo tibetano, che proseguirà, con fasi alterne, per circa tre secoli. Addirittura, nel XVIII sec. quasi la totalità delle popolazioni mongole aveva abbracciato il buddhismo, e nei monasteri in Mongolia vivevano migliaia di monaci.
Fu un re mongolo, Altan Khan, discendente di Gengis Khan, ad attribuire al Lama Sonam Gyatso il titolo di Dalai Lama (Lama = guru, maestro spirituale – Dalai = Gyatso = Oceano). Era il 1578. Venne così consacrato il primato della scuola buddhista Gelugpa (i c.d. Berretti Gialli), alla quale Sonam apparteneva, come pure i successivi Dalai Lama, fino all’attuale XIV, Tenzin Gyatso. Il titolo venne esteso alle due precedenti rinascite di Sonam, che è quindi ricordato come il III Dalai Lama.
Il “Grande Quinto” Dalai Lama, Ngawang Lozang Gyatso, fece trasferire il governo a Lhasa e fece iniziare la costruzione del palazzo del Potala. Ma fu soprattutto colui nelle cui mani, grazie a Gushi Khan, il potere religioso e quello politico si unificarono (1642). Dopo di allora, e fino all’invasione cinese, i Dalai Lama divennero i supremi sovrani del Tibet, che assunse la forma di una vera e propria ierocrazia (non si può parlare di teocrazia in quanto il buddhismo non considera la figura di un dio personale, creatore).
Con il VII Dalai Lama (XVIII sec.), al termine di una serie di conflitti tra tibetani, mongoli e cinesi, il Tibet perse la propria autonomia a favore della Cina, che si annesse le regioni dell’Amdo e del Kham. Fu ancora la Cina, alla fine del 1700, a respingere gli attacchi del Nepal nei confronti del Tibet. La crisi interna cinese del XIX sec. allentò il controllo imperiale sul Tibet, che divenne oggetto degli interessi dei britannici, impegnati nel “Grande Gioco” (con la Russia zarista) per il controllo dell’Asia Centrale. Nel 1904 un contingente di soldati anglo-indiani entrò con la forza a Lhasa, provocando la reazione della Cina, che per la prima volta rivendicò apertamente la propria sovranità sul Tibet. Nel 1910 truppe cinesi raggiunsero a loro volta Lhasa, e il XIII Dalai Lama, Thubten Gyatso (1876-1933) fu costretto a fuggire in India. L’anno dopo la dinastia Qing cadde, a febbraio 1912 l’ultimo imperatore, Pu Yi, abdicò all’età di sei anni, e fu proclamata la Repubblica. Il Tibet ne approfittò per dichiarare la propria indipendenza, come pure fece la Mongolia. Le truppe cinesi vennero espulse e il Dalai Lama rientrò a Lhasa. Negli anni Venti e Trenta la Cina fu interamente assorbita dai conflitti interni e dalla guerra con il Giappone, ma non rinunciò mai alle proprie pretese sul Tibet, il quale continuò a ribadire la propria autonomia, pur continuando, con una politica abbastanza ambigua, a cercare l’appoggio cinese.
Intanto, nel dicembre 1933 il XIII Dalai Lama era morto. Il vuoto politico era stato riempito da gruppi di potere violenti e intriganti, ostili tra loro, che fecero ripiombare il Tibet nei peggiori periodi della sua storia. Dal 1934 era Reggente il giovane Lama di Reting, il quale aveva iniziato una politica di timide riforme nel senso della modernizzazione del paese, nonché di aperture verso la Cina. Nel 1940 fu ufficialmente riconosciuto quale XIV emanazione del bodhisattva Cenresig il piccolo Lhamo Dhondrup (nato il 6 luglio 1935), e divenne quindi reggente un suo tutore, l’anziano Lama Taktra Rinpoche, ostile alle aperture del predecessore. Ma Reting e i suoi non erano disposti a farsi da parte: nel 1947 cercarono di uccidere il Reggente con un attentato terroristico. A seguito dell’arresto e della morte in carcere di Reting si giunse anche a scontri armati tra i monaci dei vari monasteri, con almeno 200 morti. Ma negli anni successivi fu la Cina a sciogliere definitivamente i nodi della politica interna tibetana.
Nell’ottobre 1949 il P.C.C. di Mao Zedong prese il potere e proclamò la nascita della Repubblica Popolare, ma già a settembre il comandante dell’Esercito di Liberazione Popolare, Zhu De, aveva detto che era necessaria “una campagna militare rivoluzionaria totale, fino alla liberazione di tutti i territori della Cina compresi Formosa, le isole Pescadores [nello stretto di Formosa], l’isola di Hainan [a sud della Cina] e il Tibet”.
La “liberazione” del Tibet cominciò il 6 ottobre 1950, con l’ingresso nel territorio di Chamdo di 40mila soldati cinesi, che spazzarono via le difese tibetane.
Il 17 novembre, all’età di 16 anni, il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, si insediò assumendo i pieni poteri. Venne quindi firmato un Accordo in Diciassette Punti, con il quale venne riaffermata la sovranità cinese sul Tibet, pur garantendo ad esso una autonomia culturale, religiosa ed amministrativa – ma si trattò di una mera affermazione di principio.
Il territorio del Tibet nella Repubblica Popolare Cinese
 Infatti l’occupazione cinese provocò negli anni successivi proteste e disordini, fino al 1959, quando una vera e propria rivolta partì da Lhasa e si diffuse su tutto il territorio. Il Dalai Lama fuggì in India, per evitare un sicuro arresto, mentre i ribelli occuparono il Tibet meridionale. Ma la reazione cinese fu immediata e violenta, anche se negli anni successivi i ribelli continuarono la resistenza armata, sotto forma di guerriglia. Sarà solo nel 1969 che la Cina riuscirà a tornare ad un controllo totale del territorio, e cioè quando gli USA tolsero alla resistenza tibetana il loro appoggio, avendo iniziato a mutare la loro politica nei confronti della Repubblica Popolare Cinese.
Attualmente, il Tibet fa parte della Repubblica Popolare Cinese. E’ abitato da 6 milioni di tibetani e da oltre 7 milioni di cinesi (di cui 300mila militari). Circa 130mila sono i tibetani profughi in India e in altri paesi, tra cui lo stesso XIV Dalai Lama e i rappresentanti del governo in esilio. Si ritiene che dal 1950 siano morte, a causa dell’invasione cinese, oltre 1 milione di persone.
Nell’VIII sec. E.V. il saggio indiano Padmasambhava, che si era recato in Tibet dall’India per diffondere gli insegnamenti del Buddha, aveva predetto: “Quando volerà l’aquila di ferro e i cavalli correranno su ruote, il popolo tibetano sarà disperso per tutto il mondo e il Dharma approderà alla terra dell’uomo rosso [l’Occidente]”.

Il ruolo della C.I.A.

Si è accennato sopra al sostegno dato dagli Stati Uniti alla rivolta tibetana contro la Cina. Erano infatti gli anni in cui il governo del Presidente Eisenhower era impegnato a contenere l’espansione del comunismo nel mondo.
Nei confronti della Cina di Mao, questo significava soprattutto sostenere il governo di Chiang Kaishek a Taiwan, mentre la Repubblica Popolare veniva definita, con scarsa lungimiranza, “una fase passeggera”. L’appoggio al Tibet era per gli USA solo un piccolo tassello nell’insieme della loro politica anti-comunista, un elemento propagandistico, un modo come un altro per dar noia alla Cina nel ben più complesso gioco della Guerra Fredda.
Venne comunque coinvolta la C.I.A., ovvero l’Agenzia americana per lo spionaggio all’estero (Central Intelligence Agency), che era stata costituita nel 1947 dal Presidente Harry Truman e che nei primi anni della sua esistenza aveva potuto operare anche al di fuori del controllo del governo, in particolare con il direttore Allen Dulles.
L’operazione iniziò nel 1957, quando nella regione del Kham (Tibet Orientale) era scoppiata una rivolta, divenuta vera e propria resistenza organizzata ad opera della fiera popolazione Khampa. E proprio da quel popolo vennero reclutati dalla CIA i primi sei uomini, che furono trasferiti attraverso il Pakistan Orientale (oggi Bangladesh) in una base militare nel Pacifico e lì addestrati alla cartografia, all’uso delle radio e delle armi più moderne. Nel dicembre 1957 vennero poi paracadutati in Tibet, per organizzare la resistenza armata. Ma ogni loro tentativo di contattare il Dalai Lama fallì. Iniziarono anche i lanci di armi e materiale, effettuati con finti aerei antincendio con piloti mercenari polacchi. Tra il 1957 e il 1961, nel corso di 25 missioni, furono paracadutate 400 tonnellate di armi, munizioni, radio, medicinali e materiale propagandistico. Grazie a questi aiuti, i guerriglieri Khampa inflissero ai Cinesi gravi perdite. Fu anche assalito un grande monastero adibito a santabarbara da cui, con l’aiuto dei monaci, vennero portate via le armi prelevate all’esercito tibetano al momento della sua resa.

Un militare americano con due allievi tibetani
Altri 170 Khampa furono addestrati in una base militare nel Colorado, un territorio più simile a quello del Tibet. L’ultimo lancio di uomini fu effettuato nel 1960: dopo l’abbattimento dell’aereo spia U-2 in Unione Sovietica essi vennero sospesi.
Le operazioni militari a terra continuarono, a partire dalla regione del Mustang (tra Nepal e Tibet), con una operazione chiamata il Circo. I Khampa addestrati negli USA operavano in Tibet mantenendo contatti radio con la CIA, fornendo informazioni sugli spostamenti di truppe e compiendo azioni di sabotaggio o veri e propri attacchi armati ai convogli cinesi. Ma a causa di rivalità tra i vari gruppi della resistenza, di episodi di corruzione e contrabbando di opere d’arte e oggetti religiosi, l’operazione si avviò alla fine. Negli ultimi anni della presidenza Johnson, la CIA sospese gli aiuti, annullò i programmi e si ritirò dal Mustang, abbandonando a se stessi i guerriglieri. Alcuni si ritirarono, altri vennero arrestati, altri ancora continuarono a combattere. Fu il Dalai Lama in persona, con un nastro registrato, a chiedere loro di rinunciare alla lotta armata.

Uomini dell'Operazione Circo
 L’anno più alto nella storia della resistenza tibetana fu probabilmente il 1959, con l’insurrezione di Lhasa. Fu però anche l’anno della fuga del Dalai Lama, essa stessa voluta dagli USA e costantemente monitorata dalla CIA per mezzo di contatti radio con un aereo in volo sul Tibet. E’ anche probabile che nel gruppo degli esuli vi fossero almeno due tibetani addestrati nel Colorado.Da quel momento scattò l’offensiva diplomatica americana a favore del Tibet, in funzione anti-cinese e anti-comunista. Gli USA accusarono la Cina di genocidio e dichiararono il Tibet indipendente, riuscendo così a far approdare più volte la “questione tibetana” all’assemblea dell’ONU.
Ma anche le azioni diplomatiche volsero alla fine: nel 1971 il Segretario di Stato Henry Kissinger compì un viaggio segreto in Cina, per avviare una nuova fase nelle relazioni USA-Cina. Fu l’anno della “diplomazia del ping pong”, cui seguì l’incontro di Nixon con Mao Zedong nel 1972 (e nel gennaio 1973 la fine della guerra nel Vietnam).
In quella nuova visione non c’era posto per la guerriglia tibetana.
Nel 1974 i Khampa combatterono la loro ultima battaglia sui monti del Mustang. Nel frattempo, negli Stati Uniti, Kissinger ordinava di tagliare il sussidio di 180mila dollari annui al Dalai Lama.


m. mauro tonko, febbraio 2011

martedì 23 ottobre 2012

De Bello

Lo sguardo del Buddha di fronte alla guerra

Più cerchi di sottomettere i nemici esterni, più numerosi diventeranno:
se invece disciplini la tua mente non avrai più neanche un nemico.

(Milarepa)

Gli insegnamenti del Buddha non costituiscono un corpus dottrinario, all’interno del quale cercare le risposte definitive alle più svariate domande. Il buddhismo non vuole prendere posizione su argomenti di carattere generale, essendo essenzialmente una disciplina che affronta un problema pratico, la sofferenza degli esseri senzienti.
Non esiste pertanto una “dottrina” buddhista sulla guerra. Si può anzi dire che non ve ne sia bisogno, tanto è evidente l’importanza, nel Sentiero buddhista, della compassione (karuna), dell’amichevolezza (maitry), della non-violenza attiva (ahimsa) – non come astratti principi filosofici, ma come concreto stile di vita.
Il Buddha Shakyamuni nel corso della sua vita diede insegnamenti a monaci e laici, asceti e prostitute, briganti e ricchi proprietari. E non rifiutò di rispondere alle domande di re, come Bimbisara del Magadha, di prìncipi, come i Licchavi, di militari, come il generale Siha. Con essi parlò di politica, di potere, di guerra. Talvolta intervenne di persona, come nel caso della disputa tra due popoli per l’uso delle acque del fiume Rohini.
Quando parlò di guerra, lo fece dal punto di vista della sofferenza degli esseri senzienti, e non con i sottili distinguo della politica e della teologia tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, sante e no. Parlò di violenza e di pace con grande semplicità, come poi fecero Cristo, Gandhi, Thich Nhat Hanh, il XIV Dalai Lama.
Per quattro motivi, fondamentalmente, il buddhismo rifiuta in maniera del tutto naturale la guerra, tutti molto concreti:

a) genera l’uccisione di ogni forma di esseri senzienti (ad es. non si parla mai dello sterminio degli animali nel corso delle guerre)
b) nasce dall’odio e genera nuovo odio. E l’odio, l’avversione, è una delle radici della sofferenza (con l’attaccamento e l’ignoranza)
c) provoca turbamento e intolleranza
d) tutto ciò per cui gli uomini combattono (ideali, religione, patria, razza, ricchezza, territori..) è impermanente, privo di sostanza, illusorio.

Si propongono qui di seguito alcuni passi dei testi del Canone che affrontano l’argomento della guerra e della violenza.
Nel primo, il Sangama Sutra, il Buddha ascolta dai monaci il racconto di una guerra in cui il re Ajatasatru aveva sconfitto Pasenadi, re del Kosala. Il Buddha afferma che il quel momento Pasenadi sta provando grande dolore per la sconfitta, e dice: “Genera odio il vincitore, prova dolore lo sconfitto; colui che ha rinunciato alla vittoria e alla sconfitta dimora calmo nella gioia”.
In una seconda battaglia, il re Pasenadi sconfigge Ajatasatru, prima vittorioso, lo imprigiona ma poi lo grazia. E il Buddha così commenta: “Depreda l’uomo finchè gli fa comodo, e quando altri lo depredano egli, depredato, depreda a sua volta. Così pensa lo stolto finchè il male non lo raggiunge; ma quando il male lo raggiunge, allora lo stolto prova dolore. All’uccisore tocca un uccisore, al vincitore un vincitore, all’offensore un offensore, all’astioso un astioso. Per il volgere del karma il depredato depreda”.

In un’altra occasione, narrata nel Pabbatupama Sutra, il re Pasenadi dice al Buddha di essere molto impegnato “in quelli che sono i compiti dei re, dei guerrieri incoronati ebbri di potere, posseduti dalla brama dei godimenti”. E il Buddha gli chiede: che cosa si dovrebbe fare se un uomo giungesse da est, uno da ovest, e da nord, e da sud, e annunciassero che quattro grandi valanghe stanno annientando tutti gli esseri? Di fronte a ciò, risponde il re, si potrebbe solo avere un comportamento “conforme al Dharma, un retto comportamento, un retto operare, un operare meritorio”. Queste valanghe, chiarisce il Buddha, sono invecchiamento e morte: “Come una roccia di una grande montagna che tocca il cielo precipita in forma di valanga da tutti i lati, travolgendo la pianura nelle quattro direzioni, così arrivano la vecchiaia e la morte, annientando tutti gli esseri senza distinzione. Nobili, sacerdoti, commercianti, fuori-casta, nessuno può sfuggire o tenerle a bada. Il pericolo imminente seppellisce ogni essere. Dunque non c’è posto né profitto per la guerra. La vittoria non può essere conseguita con l’uso degli elefanti, né dei cavalli, né dei carri, né dei fanti, né delle preghiere, né del denaro. Piuttosto il saggio miri alla salvezza, abbia fiducia nel Buddha, nel Dharma e nel Samgha. Colui che vive rettamente nel corpo, nella parola e nella mente è lodato in questa vita e trova la felicità autentica nelle vita prossima”.

Nell’Attadanda Sutra il Buddha dispiega il suo sguardo compassionevole sull’umanità in conflitto: “Quando la si coltiva, la pianta della violenza genera paura e sofferenza. Guardate gli uomini che lottano tra loro. Vi parlerò ora del turbamento che ho provato osservando gli uomini dibattersi come pesci in una piccola pozza, in competizione gli uni con gli altri. Non vedendo altro che conflitti, ho provato grande dolore. Ma è allora che scorsi una freccia conficcata qui, nel cuore, difficile da vedere. Oppresso da questa freccia, l’uomo corre da ogni parte. Ma se semplicemente la si estrae, allora non si corre più, non si cade più”.

Nel Dhammapada, infine, gli insegnamenti del Buddha sulla violenza trovano la loro più alta sintesi: “Mai, invero, si placano quaggiù gli odii con l’odiare: col non-odiare si placano. Questa è legge eterna” (I,5). “Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia” (VIII,103). “La vittoria alimenta inimicizia, perché chi è vinto giace dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui ristà tranquillo e felice” (XV,201).

Ma soprattutto, in ogni momento si abbia fermo l’insegnamento impartito dal Buddha negli ultimi giorni della sua esistenza terrena: “Perciò, Ananda, siate delle isole per voi stessi, dei rifugi per voi stessi, e non cercate nessun rifugio esterno; il Dhamma la vostra isola, il Dhamma il vostro rifugio, non cercate altro rifugio. E come, Ananda, un monaco è un'isola per sé, un rifugio per sé, e non cerca nessun altro rifugio; il Dhamma la sua isola, il Dhamma il suo rifugio, non cerca nessun altro rifugio?
Quando dimora nella contemplazione del corpo nel corpo, in stato di comprensione chiara ed attenta, dopo avere sormontato il desiderio ed il dispiacere rispetto al mondo; quando dimora nella contemplazione delle sensazioni nelle sensazioni, della mente nella mente, degli oggetti mentali negli oggetti mentali, in stato di comprensione chiara ed attenta, dopo avere sormontato il desiderio ed il dispiacere rispetto al mondo, allora, in verità, è un'isola per sé, un rifugio per sé, non cerca rifugio esterno; avendo il Dhamma come sua isola, il Dhamma come suo rifugio, non cerca altro rifugio. Questi miei monaci, Ananda, adesso o dopo la mia dipartita, saranno così un'isola per loro stessi, un rifugio per loro stessi, non cercheranno altro rifugio; chi, avendo il Dhamma come sua isola e rifugio, non cercherà altro rifugio: perciò diventeranno più saggi, se hanno il desiderio di conoscere” (dal Maha-parinibbana Sutta, II, 33.34.35)


m. mauro tonko, febbraio 2011

lunedì 22 ottobre 2012

UNISABAZIA 2010/11 - Monaci e/o samurai?


Monaci e/o samurai? Lo Zen e il militarismo giapponese del XX secolo


Perché mai non ci è stata data la religione dei giapponesi
che considerano il sacrificio per la madrepatria il bene supremo


(Adolph Hitler)

Nel 1999 una praticante olandese inviò una lettera a diversi maestri Zen della sua e di altre scuole, in quanto era rimasta sconvolta dalla lettura di un libro, “Lo Zen alla guerra”, scritto nel 1997 da Brian Daizen Victoria, studioso e monaco Zen occidentale, che costituisce una documentata indagine sul ruolo svolto dal buddhismo giapponese, e dallo Zen in particolare, a tutti i livelli, in appoggio all’imperialismo nipponico nel XX secolo.
Racconta la praticante olandese: “Fino ad allora non mi ero mai resa conto che il buddhismo Zen era stato coinvolto nelle guerre atroci che il Giappone aveva scatenato in Asia nella prima metà del XX secolo. Ne rimasi profondamente colpita. Io sono non soltanto una persona che si dedica attivamente allo Zen, ma ho anche sposato un ex prigioniero della guerra del Pacifico. Dal 1942 mio marito, che allora aveva sei anni, e la sua famiglia furono internati (1) per tre anni dall’esercito giapponese nelle allora Indie olandesi orientali [..]. Leggendo “Lo Zen alla guerra” mi sono sentita tradita da ciò che molti stimatissimi preti buddhisti Zen hanno detto e fatto durante e dopo la guerra in Asia” (2).
Scrisse allora a molti responsabili delle scuole Zen di tutto il mondo per esprimere i sentimenti provati durante la lettura del libro e per proporre ai rappresentanti dello Zen di riconoscere i loro errori e fare ammenda: molti non risposero, ma alcuni lo fecero, con lettere o articoli di scuse che vennero pubblicate e suscitarono un ampio e acceso dibattito nell’ambito del buddhismo Zen, non solo in Giappone.
Conclude così la praticante olandese: “L’ammissione degli errori del passato e il riconoscimento della sofferenza che è stata inflitta possono essere un importante passo avanti verso la reciproca comprensione delle vittime e dei persecutori. La presa di coscienza degli errori che vennero compiuti in nome della religione ci fa tutti riflettere sull’universale inadeguatezza degli esseri umani ad agire correttamente. Possa tutto ciò creare una volontà più forte di perdonare e possa contribuire alla pace fra gli esseri di buona volontà” (3).

Monaci o soldati?
Come si è detto, il testo cui la studentessa Zen fa riferimento è “Lo Zen alla guerra” (“Zen at War”), scritto da Brian Victoria, monaco col nome di Daizen, e attivista nei movimenti antimilitaristi all’epoca del conflitto nel Vietnam (4).
Interrogandosi proprio sul possibile ruolo di un praticante Zen all’interno della società in rapporto con la politica e l’impegno sociale, l’Autore si era imbattuto negli scritti di un monaco Zen Rinzai, docente universitario in Giappone, Ichikawa Hakugen, il quale da attivo sostenitore del militarismo nipponico ne era divenuto, dopo la II Guerra Mondiale, un critico molto severo. A partire di lì, l’A. approfondì l’argomento dei rapporti intercorsi tra lo Zen e la guerra, nel Giappone del XIX-XX secolo. Il suo libro è il frutto di queste ricerche, da lui condotte con sincera sofferenza, come racconta: “In quanto prete buddhista della tradizione Soto Zen, non mi è stato facile scrivere questo libro perché sono stato costretto a rivelare un lato oscuro della storia moderna del buddhismo, pur rimanendo fedele alla religione da me adottata” (5). Si chiese anche se con il suo lavoro non stesse diffamando il Dharma del Buddha (6), ma la risposta, proprio dal punto di vista del buddhismo, non poté essere che una: “Io ho condotto la mia ricerca e ho scritto su questo argomento difficile e imbarazzante con in mente un solo pensiero: la verità non può mai essere diffamazione” (7). I buddhisti, come d’altra parte tutti coloro che aderiscono ad una tradizione religiosa, devono “accettare la responsabilità tanto degli esiti migliori quanto di quelli peggiori della loro fede” (8).
Il buddhismo (soprattutto di tradizione Mahayana) si è diffuso in Giappone a partire dal VI sec. E.V., giungendovi dalla Cina attraverso la Corea. All’inizio i clan nobiliari, shintoisti, cercarono di opporsi alla diffusione del Dharma, ma quest’ultimo, con l’appoggio dell’Imperatore Yomei, iniziò a radicarsi. “Da allora [587 E.V.] il buddhismo intratterrà costantemente strette relazioni con lo Stato giapponese, con il favore di personaggi eminenti che vedranno in esso un modo per proteggere il Giappone con riti propiziatori” (9).
Si formarono quindi le maggiori scuole (Shū) del buddhismo giapponese, quali il Tendai (VIII-IX sec.), lo Shingon (buddhismo tantrico, IX sec.), la scuola di Nichiren (XIII sec.), lo Zen (Rinzai e Soto, XII-XIII sec.).
Per quanto concerne lo Zen, che qui maggiormente interessa, è da notare che si sviluppò velocemente tra i nobili e i letterati, anche grazie all’appoggio ricevuto “dagli shogun [comandanti militari] e dai clan militari dei samurai, ai quali infonde una disciplina e un’etica rigorose” (10).
Tra il 1600 e il 1868 (Periodo Tokugawa) il buddhismo consolidò la propria posizione come religione di stato, ma a caro prezzo: ad ogni famiglia fu fatto obbligo di affiliarsi ad un tempio, e questo fece sì che i preti diventassero in pratica dei funzionari governativi. Iscriversi ad una scuola diventò più una scelta politica che religiosa. Il regime Tokugawa volle così essere certo di controllare anche le istituzioni religiose presenti sul territorio. Il risultato fu che il buddhismo giapponese perse energia e creatività, restando asservito al potere imperiale in cambio di vantaggi politici ed economici.
Amaterasu, kami del sole
Nel 1868, primo anno del Periodo Meiji (1868-1912), il vento cambiò anche per il buddhismo che, a causa delle riforme introdotte dal nuovo Imperatore, vide minacciato non solo il proprio ruolo istituzionale a favore dello shintoismo, ma addirittura la propria stessa sopravvivenza. Infatti venne rivalutata l’originaria fede shintoista nell’Imperatore quale manifestazione terrena di Amaterasu, kami del sole. Quarantamila templi buddhisti furono chiusi, e migliaia di monaci ridotti allo stato laicale. Tutto questo almeno fino al 1871, quando su pressione delle popolazioni contadine il governo fece qualche concessione alle comunità buddhiste. La conseguenza fu, ancora una volta, anche se per opposti motivi, un atteggiamento di totale acquiescenza da parte delle scuole buddhiste nei confronti del governo stesso. Alcune giunsero a prestare denaro alle (quasi vuote) casse del governo, e molti “leader buddhisti compresero ben presto che se c’era una speranza di riportare in vita la loro fede questa era nel senso di schierarsi con il crescente sentimento nazionalista dei tempi” (11), sostenendo ad esempio le campagna anti-cristiane che si stavano mettendo in atto.
Ormai le basi per la nascita di quello che verrà poi chiamato “Buddhismo della Via Imperiale” (Kōdō Bukkyō) erano state gettate, e l’appoggio del buddhismo giapponese alla politica imperiale non venne meno neppure quando questa manifestò appieno la propria natura militarista e aggressiva, a partire dalla guerra contro la Cina del 1894-95. Non solo i responsabili delle varie scuole non si schierarono a favore della pace, ma al contrario giustificarono la guerra teorizzando la superiorità del buddhismo nipponico nei confronti delle altre tradizioni buddhiste dell’Asia. Alcuni “maestri” operarono distinzioni tra “guerre illegittime”, da respingere, e “guerre giuste”, da sostenere: ovviamente la guerra condotta dal Giappone era tra queste ultime.
Uguali atteggiamenti vennero tenuti durante la guerra russo-giapponese del 1904-05, che sancì la costituzione da parte del Giappone di un vero e proprio impero, con l’annessione della Corea. Nel 1913, all’inizio del Periodo Taishō (1912-1926), Nukariya Kaiten, eminente personalità della scuola Soto Zen, scrisse: “dal tempo della guerra russo-giapponese [la popolarità dello Zen] ha conosciuto un risveglio. E ora [lo Zen] viene considerato la fede ideale, sia per una nazione piena di speranza e di energia, sia per il singolo che deve farsi largo nella lotta della vita” (12).
Il buddhismo era stato ormai completamente assorbito nella macchina da guerra giapponese. Il sostegno alla guerra si esprimeva nelle forme più diverse: dalle teorizzazioni ideologiche all’invio di cappellani militari tra le truppe, dalle cerimonie religiose a favore della vittoria, all’erogazione di denaro o di beni alle famiglie dei caduti. Alcuni templi erano stati addirittura utilizzati come centri di detenzione dei soldati russi catturati in battaglia.
Ciò che accadde in seguito fu solo la logica conseguenza delle decisioni assunte in quegli anni: “L’emergere del buddhismo secondo la via imperiale negli anni Trenta [Periodo Shōwa, 1926-1989] non fu tanto un fenomeno nuovo quanto la sistematizzazione o la codificazione di posizioni precedenti. [..] Il buddhismo secondo la via imperiale rappresentava la sottomissione totale e inconfutabile della Legge del Buddha [il Dharma] alla Legge del Sovrano. In termini politici, significava la sottomissione del buddhismo istituzionale allo Stato e alla sua politica” (13).
Di questo rapporto di sottomissione fece parte integrante il coinvolgimento delle maggiori scuole Zen, Soto e Rinzai, nelle scelte imperialiste del Mikado, sfociate nell’aggressione agli Stati Uniti del 7 dicembre 1941, a Pearl Harbor.
Bushido, la Via del guerriero
Si giunse a teorizzare che le vittorie ottenute dal Giappone nelle guerre sostenute in Asia negli anni precedenti fossero il risultato dell’applicazione delle regole del Bushido, la Via del Guerriero, il codice etico dei Samurai. I rappresentanti dello Zen arrivarono ad identificare il Bushido e lo Zen con l’essenza stessa della cultura del Giappone. L’etica dello Zen e l’etica del guerriero divenivano una cosa sola: è lo Zen imperial-statale, kokoku Zen.
Le modalità secondo le quali lo Zen espresse il proprio appoggio incondizionato alla guerra furono quelle già precedentemente individuate, analoghe quindi a quelle intraprese dalle altre tradizioni religiose del Giappone: raccolte di fondi, attività di sostegno alle famiglie dei soldati, opere missionarie tra le truppe e nei territori occupati, celebrazione di cerimonie speciali per assicurare la vittoria, con la recitazione di sutra, i testi canonici delle tradizioni buddhiste.
Una delle pratiche più diffuse del buddhismo Mahayana dalle sue stesse origini consiste oltre che nel recitare, anche nel ricopiare i sutra. Viene considerata una pratica speciale, legata all’idea che comporti per chi la compie l’acquisizione di “meriti”, trasferibili anche ad altre persone. Così, nel 1944, la scuola Soto Zen propose di fare 10 milioni di copie, a mano, del Sutra del Cuore della Perfetta Saggezza (Prajna Paramita Hridaya Sutra, giapp. Hannya Haramita Shingyo), uno dei testi fondamentali dello Zen e del buddhismo Mahayana in genere. Scrisse allora l’organo della scuola: “Bruciando di entusiasmo tutta la nostra scuola – preti, laici e semplici devoti – si sono applicati nell’esecuzione di questo progetto”, il cui scopo era “la nostra fervida preghiera per una vittoria certa [..]. Abbiamo pregato con reverenza per la salute di Sua Maestà, per la prosperità delle terre imperiali e per la resa dei paesi nemici” (14).

Kannon
Un altro significativo esempio: nel 1939 venne costruito nella città di Atami un tempio dedicato al bodhisattva Avalokiteshvara (giapp. Kannon o Kanzeon), personificazione del principio e della pratica della compassione. Ma la figura di Kannon venne “arruolata” e trasformata in una figura marziale, Kanzeon Shogun (= Generalissimo) Bodhisattva. All’ingresso del tempio, venne eretta una sua statua, fabbricata con la terra cinese intrisa del sangue dei soldati caduti nella guerra cino-giapponese.
Si potrebbe continuare con ulteriori esempi di come le tradizioni buddhiste siano state tradite e piegate agli interessi della politica imperiale da parte di un clero ridotto, nella sua maggioranza, a svolgere un ruolo da funzionari statali.
Ma è anche interessante riportare le parole di alcuni rappresentanti dello Zen, oggi noti anche in Occidente. Infatti esse sono altrettanto esemplificative in quanto non si tratta di semplici opinioni personali, bensì di contributi alla creazione del consenso intorno alla figura dell’Imperatore e alle scelte politiche e militari della classe dirigente nipponica, proprio a partire dagli insegnamenti dello Zen.
Daisetzu Teitaro Suzuki
A proposito del rapporto tra Zen e Bushido, scrisse nel 1937 Daisetzu Teitarō Suzuki (1870-1966), autore di molte opere sullo Zen tradotte e pubblicate anche in Italia: “La qualità del soldato, con il suo misticismo e la sua indifferenza alle questioni terrene, attiene alla forza della volontà. Sotto questo aspetto, lo Zen cammina di pari passo con lo spirito del Bushido”. E ancora: “Lo Zen è una religione della forza di volontà e la forza di volontà è ciò che serve urgentemente ai guerrieri”. Come già nel passato del Giappone, lo Zen poteva essere molto importante per il guerriero, al fine di dominare, di superare la paura della morte: “Il problema della morte è un grande problema per ciascuno di noi; ma è ancor più pressante per il samurai, per il soldato, la cui vita è dedicata esclusivamente a combattere, e combattere significa morte per entrambi i contendenti [..]. E’ quindi naturale che qualsiasi samurai saggio si accosti allo Zen con l’idea di dominare la morte”.
E la pratica della compassione, così centrale nel buddhismo di ogni tempo e di ogni scuola? Scrisse Suzuki, in un passo divenuto famoso:
“La spada viene in genere associata all’uccisione, e molti di noi si chiedono in che modo essa possa venire associata allo Zen, una scuola buddhista che insegna il messaggio dell’amore e della compassione. Il fatto è che l’arte della spada distingue fra la spada che uccide e la spada che dà la vita. Quella che viene usata da un tecnico non può fare molto più che uccidere [..]. La situazione è completamente diversa nel caso di chi la spada è costretto a sfoderarla. Infatti in realtà non è lui che uccide, è la spada a farlo. Lui non desidera fare del male a nessuno, ma il nemico appare e fa di se stesso una vittima. E’ come se la spada eseguisse automaticamente la propria funzione di giustizia, che è funzione di compassione”.
Viene portata a compimento l’identificazione finale, la più tragica, la più grottesca: la guerra come atto di compassione!
Negli ultimi anni di guerra, Seki Seisetsu, maestro Zen Rinzai, disse in suo discorso: “Dal punto di vista dello Zen, dove Manjushri [bodhisattva della saggezza, anch’esso arruolato nella guerra santa!] ha usato la sua spada affilata per eliminare ignoranza e desiderio, nel mondo non esiste alcun nemico [..]. Una volta raggiunto questo livello, lo Zen e la spada diventano una cosa sola, allo stesso modo della Via dello Zen e la Via del Guerriero. Uniti in questo modo, essi diventano il sublime spirito guida della società. In questo momento noi siamo nel sesto anno della guerra santa e siamo giunti a una situazione critica. Tutti voi dovete obbedire agli ordini imperiali [..]. Dovete acquisire uno spirito intrepido come i guerrieri dell’antichità, compiendo veramente il vostro dovere per lo sviluppo dell’Asia Orientale e per la pace nel mondo” (sic!).
Secondo Kurebayashi Kodo (Soto Zen), la ragione per cui le guerre combattute dal Giappone sono guerre giuste “sta nell’influenza esercitata dallo spirito buddhista”. “Ovunque avanzi l’esercito imperiale c’è solo carità e amore [..]. la brutalità non esiste più nell’animo degli ufficiali e degli uomini dell’esercito imperiale che sono stati formati allo spirito del buddhismo” (1937).
Ugualmente, per Hitane Jozan (Rinzai) la guerra del Giappone “è una guerra santa che esprime in sé la grande pratica del bodhisattva”, cioè, si badi, di un essere la cui natura profonda è bodhicitta (giapp. bodaishin), cioè la mente altruistica del Risveglio!

Monaci e/o soldati?

Anche Sawaki Kodo, uno dei più importanti maestri Soto Zen del XX secolo, non sfuggì allo spirito del tempo. Nel 1942 scrisse: “Il Sutra del Loto afferma che [..] tutti gli esseri senzienti sono miei figli. Da questo punto di vista tutto, anche l’amico e il nemico, sono miei figli. Gli ufficiali superiori sono la mia esistenza così come lo sono i miei subordinati. Lo stesso può dirsi del Giappone e del mondo intero. Che si uccida o no, il precetto che proibisce di uccidere (è rispettato). E’ il precetto che proibisce di uccidere che maneggia la spada e getta la bomba. Per questo dovete cercare di studiare e di praticare questo precetto”.
Molte altre citazioni (15) ed esempi si potrebbero portare – e Brian Victoria li porta – a dimostrazione del coinvolgimento quasi totale delle scuole buddhiste, e Zen in particolare, nella politica imperialista del Giappone, fino alla disfatta dell’agosto 1945.
Vi furono certo casi di personalità che si espressero, in quegli anni tragici, in maniera del tutto opposta, pagandone duramente le conseguenze. Così come alcuni esponenti buddhisti (ma solo dopo almeno 40 anni dalla fine della guerra) presentarono, obtorto collo, dichiarazioni di responsabilità e di pentimento.
Qui di seguito si trascrive, quale spunto di meditazione, un passo di un esponente dello Zen italiano di oggi, Giuseppe Jiso Forzani, il quale, proprio a partire dalla lettura del libro di Daizen Victoria, invita a “riflettere sulla religione come alibi, sul rischio intrinseco in ogni messaggio religioso, per raffinato e universale che sia, di venir utilizzato, senza alterarlo nella sua enunciazione ma operando sull’intenzione che lo orienta, per fini non solo del tutto impropri, ma addirittura opposti a quelli che ispirano il messaggio religioso stesso.
Si tratta quindi di guardare con l’occhio più limpido possibile “gli esiti peggiori della propria fede”, senza approfittare della scappatoia di imputare quegli esiti solo al carattere personale o culturale di chi quegli esiti ha prodotto, in questo caso non limitandosi a liquidare la questione come effetto dell’atmosfera giapponese dell’epoca (che certo ha svolto un ruolo tutt’altro che insignificante) ma scavando più a fondo, fino a vedere quegli aspetti del messaggio religioso che se per un verso ne costituiscono la forza, possono anche essere, per un altro verso, sintomo di una sua debolezza.
Come è stato possibile che, come l’autore dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, la quasi totalità della “classe dirigente” clericale del buddismo zen giapponese abbia utilizzato la visione, la pratica religiosa e la fede che il buddismo ispira a sostegno del militarismo, dell’imperialismo, del fanatismo e, molto concretamente, delle imprese efferate che il Giappone ha perpetrato in Asia (Cina, Corea, Manciuria…) dalla fine dell’Ottocento fino al 1945? Come è stato possibile che il sostegno incondizionato dato dal clero giapponese all’idea e alla prassi della Guerra Santa, della Grande Asia Orientale, della superiorità incondizionata del popolo giapponese fosse basato sui concetti buddisti di superamento dell’ego, di liberazione della vita e della morte, di trascendenza della dialettica di perdita e guadagno, persino sullo spirito della grande compassione universale?
L’autore analizza con cura il fenomeno, per quanto riguarda l’utilizzo dei “valori” tipici del buddismo zen al servizio di una causa specifica, in questo caso l’imperialismo del Mikado. Formalmente non c’è nulla da eccepire: il riferimento allo spirito di sacrificio che, nella visione dell’inconsistenza di ogni forma di guadagno, giunge alla prassi della rinuncia alla propria e all’altrui vita è presente, in varie forme, in tutte le tradizioni religiose, e nello zen in modo forse specifico. Ma sono l’orientamento e l’applicazione di questo piano formale che vanno messi in discussione: altrimenti la più sublime enunciazione può anche avere come esito la più infame delle prassi. La teorizzazione dell’atto puro, che è premio a se stesso senza ulteriori aspettative, frutto immediato della totale dedizione alla via, può avere come esito una vita santa, ma anche una condotta criminale, a seconda del modo con cui la via si incarna nel mondo. Sotto questo punto di vista il libro non riguarda solo una particolare epoca storica di un particolare paese, ma chiunque pratichi e ami il buddismo: deve indurre a riflettere sull’orientamento della propria prassi, visto che la forma della prassi non è in se stessa garanzia di equità
” (16).


Note:


1) La stessa sorte colpì nel 1943 lo scrittore, orientalista, antropologo Fosco Maraini e la sua famiglia, (tra cui la figlia Dacia, dell’età di circa 7 anni), residenti all’epoca in Giappone, in quanto avevano rifiutato di riconoscere la Repubblica Sociale di Salò. La vicenda è raccontata nella sua biografia “Case, amori, universi”, Ed. Mondadori.
2)
www.reteindra.org/BN0102/09.htm
3) Idem
4) Il volume è stato pubblicato in Italia nel 2001 da una piccola casa editrice, la Coop. Sensibili Alle Foglie di Dogliani (CN). In precedenza, nel 2000, era apparso tra i titoli di prossima pubblicazione delle Edizioni Ubaldini, ma era successivamente scomparso dall’elenco.
5) B. Victoria, Lo Zen alla guerra, Ed. Sensibili Alle Foglie, pag. 323
6) Si osservi che il decimo dei Grandi Precetti che costituiscono le regole di vita di chi ha ricevuto i voti nel buddhismo Zen recita: “Non essere blasfemi verso i Tre Tesori”, ovvero il Buddha, il Dharma (gli insegnamenti) e il Samgha (la comunità dei praticanti).
7) Lo Zen alla guerra, pag. 323
8) Idem, pag. 324
9) P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 277
10) Idem, pag. 229
11) Lo Zen alla guerra, pag. 35
12) Cit. in Lo Zen alla guerra, pag. 116
13) Idem, pag. 149
14) Idem, pagg. 236-237
15) Tutte le citazioni di D.T. Suzuki, Seki Seisetsu, Kurebayashi Kodo, Hitane Jozan e Sawaki Kodo sono tratte da Lo Zen alla guerra.
16)
http://web.tiscali.it/stellamattino/stella4.htm


m. mauro ton ko, 2010

UNISABAZIA 2010/11 - L'Imperatore Ashoka

L’Imperatore Ashoka: un Costantino indiano?

La fine dell’invasione dell’esercito di Alessandro Magno provocò nei territori occupati lotte e disordini che dai confini dell’impero macedone (il fiume Indo) si ripercossero ad est, nel bacino del Gange, laddove Alessandro non era mai giunto.

Chandraguptra/Sandrokotto
Ne approfittò proprio quel giovane guerriero del clan Maurya, Chandragupta, che qualche anno prima Alessandro aveva conosciuto personalmente nel proprio accampamento, e che i testi greci ricordano col nome di Sandrokotto. Nel 324 a.C. Chandragupta si impadronì del trono del Magadha, nel nord-est, già nelle mani del clan Nanda. In pochi anni allargò il suo dominio verso occidente, fino all’odierno Afghanistan, e successivamente verso levante e a sud, fino al Mysore. L’impero di Chandragupta, che durò fino al 312 a.C., arrivò quindi a comprendere quasi tutto il sub-continente indiano.
Continuò la sua opera Bindusara, figlio di Chandragupta e (probabilmente) di una principessa greca, a sua volta figlia di un generale di Alessandro. Il nuovo re mantenne costanti rapporti col mondo ellenistico. Alla sua corte risedettero infatti due ambasciatori greci. Si narra che un giorno Bindusara chiese al re greco di Siria, Antioco, di inviargli dei fichi secchi, del vino dolce e un sofista. Il re rispose che avrebbe mandato il vino e i fichi, ma che le leggi greche non permettevano di fare commercio di filosofi!
Dopo di lui salì al trono il figlio (illegittimo) di Bindusara, Ashoka, il sovrano che a tutt’oggi ha lasciato il più duraturo ricordo di sé nella storia dell’India. Ashoka era pertanto un diretto discendente dei Greci.
Ashoka
Ashoka (il cui nome significa “il senza-dolore”) ascese al trono nel 274 a.C., all’età di circa 20 anni, si dice dopo aver fatto uccidere tutti i fratelli e le sorelle.
Otto anni dopo la presa del potere egli iniziò una violenta campagna militare per conquistare il regno Kalinga, nel S-E dell’India (oggi Orissa), l’unica regione importante ancora indipendente. Si legge in un suo editto che la guerrà costò la vita di 100mila uomini, 150mila furono deportati, e centinaia di migliaia feriti. La popolazione Kalinga fu quasi interamente annientata. A quel punto l’opera di costruzione e di consolidamento dell’impero Maurya, e quindi di unificazione dell’India, era completata. Il rischio di nuove invasioni da occidente era scongiurato.
Le devastanti conseguenze della guerra impressionarono però profondamente il giovane Ashoka. Egli stesso dice che il pensiero della morte e della prigionia di tanti uomini “angustia e opprime il re caro agli déi” (1). Iniziò così un processo che lo portò a convertirsi agli insegnamenti del Buddha (2).
Se la realtà storica della conversione è attestata dalla documentazione dell’epoca, in primis dagli editti emanati da Ashoka stesso, le modalità della sua adesione al buddhismo sono avvolte dalle leggende, o quanto meno da notizie non verificabili. Si narra ad esempio che il giorno dopo la vittoria finale sui Kalinga Ashoka si trovò a camminare nel campo di battaglia in mezzo ai cadaveri e che, in preda ai rimorsi, non riuscì più a dormire. Inoltre, la moglie, la regina Devi, inorridita dalle atrocità della guerra – i fiumi erano divenuti rossi del sangue dei caduti – aveva lasciato il palazzo con i figli, Mahindra e Sanghamitra, che divennero poi monaci e diffusero il buddhismo a Sri Lanka.
Ma già la nascita e la sorte di Ashoka erano state predette dal Buddha (quindi almeno due secoli prima), secondo quanto è narrato in un testo in realtà posteriore, l’ Aśokavadana (La leggenda di Aśoka). Nella sua vita precedente, Ashoka era un bambino di nome Jaya che, mentre giocava con la terra, aveva visto passare il Buddha. Avrebbe voluto offrirgli del cibo ma, non avendo nulla con sé, mise nella ciotola del Buddha la polvere con cui stava giocando. Il Buddha vide la purezza della sua motivazione, e predisse che Jaya, nella vita successiva, sarebbe stato un grande re, di nome Ashoka, che avrebbe adornato Jambudvipa, cioè l’India, con 84mila reliquiari per la felicità delle genti. E così accadde.
Si dice inoltre che la conversione di Ashoka avvenne sotto la guida di un monaco di nome Upagupta. Per un anno il re visse in un monastero, per poi iniziare un periodo di pellegrinaggi sui luoghi “sacri” della vita del Buddha (3). Creò poi dei centri di studi buddhisti, fece donazioni alle comunità religiose, comprese quelle jaina e brahmaniche. Edificò ospedali per gli uomini e per gli animali, e centri per la coltivazione delle erbe medicinali. Cercò anche di porre ordine all’interno delle varie scuole buddhiste, convocando a Pataliputra, la capitale del regno (oggi Patna), il terzo concilio, durante il quale si tentò di definire il Canone, cioè una raccolta “ufficiale” delle trascrizioni degli insegnamenti orali del Buddha. Favorì anche l’invio di missionari in tutti i territori dell’impero, ed anche oltre i confini, fino alla Grecia e all’Egitto.
Il simbolo del suo impero divenne il Dharmachakra, la Ruota del Dharma, che oggi si trova al centro della bandiera indiana (4).
La bandiera dell'India con il dharmachakra
Nonostante il suo totale sostegno al buddhismo, Ashoka non attivò mai una politica discriminatoria né su base religiosa né su base sociale, quella divisione in caste che il buddhismo rifiutava. Cercò piuttosto di attuare una politica interna ed estera fondata sui principi pan-indiani della non-violenza e del rispetto degli esseri viventi, e sull’interdipendenza tra tutte le forme di vita, anche vegetali. Ad esempio, facendo scavare pozzi, impiantare boschetti di alberi da frutta e filari di piante ombrose lungo le strade. Proibì la caccia, favorì per quanto possibile l’alimentazione vegetariana.
Perché i suoi editti non venissero dimenticati, li fece incidere su rocce e pilastri, in varie lingue, tra cui il greco e l’aramaico, ed ancora oggi sono visibili in diverse località dell’India.
Probabilmente la visione politica di Ashoka non consisteva nella fondazione di uno “stato buddhista” (un impronunciabile ossimoro, per chi scrive!), il che avrebbe contraddetto ogni sua idea di tolleranza e imparzialità, ma soprattutto avrebbe inasprito le tensioni interne all’impero. Da un punto di vista politico alle spalle di Ashoka non c’era solo tutta la tradizione indiana – buddhismo, jainismo, brahmanesimo – ma anche quella greca, filtrata da Alessandro e dai regni ellenistici. Il suo sforzo fu quindi teso a creare le condizioni per organizzare uno stato forte, sicuro nei suoi confini, bene amalgamato nelle sue innumerevoli componenti etniche, culturali, religiose, sociali. Fondato anche su rigorosi principi etici, quali la tolleranza verso le diverse visioni, l’obbedienza verso le gerarchie, in famiglia e nella società, la generosità. All’esterno, cercò di sostituire all’imperialismo e all’aggressione militare una politica di accordi, creando stati satelliti e diminuendo la necessità di sorveglianza delle frontiere. In tutto questo, il buddhismo poteva svolgere un ruolo fondamentale, quello di fornire lo “sfondo” su cui edificare il modello di stato che Ashoka vagheggiava.
Certo è che grazie alla politica di Ashoka il buddhismo, fino a pochi decenni prima una piccola setta “eretica” nel mare delle correnti spirituali indiane, si affermò in tutta l’India. E subito, forse anche a causa della sua stessa crescita, si divise nelle due tradizioni, tuttora esistenti, semplicisticamente chiamate “Mahayana” e “Hinayana” (Grande e Piccolo Veicolo).
Ashoka morì nel 231 a.C.
Negli ultimi anni di vita, si narra, gli rimasero solo un piatto d’oro e uno d’argento, tutto il resto essendogli stato sottratto dai suoi stessi ministri. Ed egli li donò ad un monastero, e mangiò in piatti di terracotta. Un giorno gli fu portato mezzo mango. Ed egli diede ai monaci anche questo frutto, perché venisse suddiviso tra loro. Fu la sua ultima elemosina.
Dopo la sua morte, ebbe inizio la sua leggenda, ma nel contempo il suo impero iniziò a disgregarsi, e 40 anni dopo crollò definitivamente. L’ultimo suo successore, con il quale ebbe fine la dinastia Maurya, fu il re Pusyamitra, che morì assassinato da un brahmano.

Ashoka & Costantino

Nei testi sull’India si ritrova frequentemente l’espressione “Ashoka, il Costantino indiano”, che tende a stabilire un diretto parallelismo tra la figura del sovrano orientale e quella dell’imperatore di Roma.
Costantino
In genere, i parallelismi storici, sebbene intriganti, sono molto pericolosi, in quanto possono mettere a confronto personaggi, epoche, situazioni in realtà non paragonabili, se non in maniera superficiale, aneddotica, non scientifica (5).
Ashoka è vissuto in India, in un contesto politico, religioso, linguistico ecc. ben diverso da quello romano. Ed è vissuto (304 – 232 a.C.) oltre 500 anni prima di Costantino I (274 – 337 d.C.). una distanza culturale, temporale, geografica, incolmabile. Tuttavia, è possibile tentare di mettere a confronto, sia pure con approssimazione, un aspetto non secondario delle loro politiche: l’atteggiamento tenuto dai due “Grandi” nei confronti della religione. La tradizione buddhista per Ashoka, quella cristiana per Costantino.
Di Ashoka si è detto. Molte ed anche divergenti tra loro sono le valutazioni degli storici sulla sincerità della sua conversione al Dharma del Buddha. Ashoka probabilmente non si propose di fare opera di proselitismo a favore del buddhismo attraverso i suoi editti. Ma non necessariamente questo significa che fece cinicamente ed opportunisticamente ricorso al Dharma del Buddha quale instrumentum regni, per mantenere l’impero unito e ordinato contro avversari interni ed esterni. Anche sotto questo aspetto, forse fu un monarca ideale, o forse un mediocre sovrano, ma un abile “piazzista” di se stesso.
La vicenda di Costantino I, noto anche come Costantino il Grande, è più nota. Divenne “Augusto d’Occidente” nel 306 d.C., all’interno della tetrarchia voluta da Diocleziano. Solo nel 312, dopo aver sconfitto Massenzio per tre volte (l’ultima a Ponte Milvio, presso Roma) ebbe il controllo di tutta l’Italia. L’anno dopo, 313 d.C., con il famoso editto di Milano, concordato con Licinio, l’altro Augusto rimasto dopo un periodo di guerre civili, pose fine ufficialmente alle persecuzioni contro i cristiani, dando inizio ad un’epoca non solo di tolleranza, ma di verso e proprio favore nei confronti del cristianesimo (6). Tale politica si accentuò ulteriormente dopo la sconfitta di Licinio (324 d.C.), quando Costantino divenne unico imperatore. Allora egli fece edificare nuove chiese, elargì donazioni, concesse privilegi ai chierici, adottò simboli religiosi di tipo cristiano (ad es. sulle monete), riconobbe alle chiese il diritto di ricevere beni per testamento, introdusse il riposo domenicale ecc.
Perché Costantino fece queste scelte? Probabilmente, non cercava tanto di favorire una vera e propria supremazia del cristianesimo (ciò che farà Teodosio nel IV secolo), quanto piuttosto di evitare eccessive tensioni all’interno di un territorio così vasto e composito, che avrebbero provocato fratture insanabili tra i culti pagani e i nuovi culti, tra cui il cristianesimo e il culto mitraico (il 25 dicembre, si noti, è il giorno della nascita di Cristo, ma anche di Mitra, il Sol Invictus). Un disegno politico lungimirante, il suo – come quello di Ashoka, d’altronde – che presagiva la crescente importanza del culto cristiano per rafforzare lo stato. Anche qui, forse, la religione come instrumentum regni, quindi.
In effetti gli storici sono molto discordi tra loro nel valutare la sincerità della politica di Costantino, ed ancor più nel giudicare la sua conversione al cristianesimo, anch’essa, come per Ashoka, avvolta nella leggenda.
La storia più famosa, ed anche più improbabile, è quella della visione avuta da Costantino nel 312, prima della battaglia di Ponte Milvio. Mentre stava pregando – senza dubbio qualche divinità pagana – apparve in cielo, visibile a tutti, una scritta in greco sopra un incrocio di luci sul sole: τουτω νικα, touto nika, vinci con questo (poi divenuto in hoc signo vinces, con questo segno vincerai). Nella notte gli apparve poi Cristo in persona, che lo esortò ad adottare quel segno come vessillo. Quindi Costantino contattò subito dei sacerdoti cristiani, perché lo istruissero su questa religione a lui ignota. Questo l’inizio del suo percorso di conversione.
Tale vicenda è però raccontata solo in un testo del vescovo cristiano Eusebio di Cesarea, del 325, mentre innumerevoli sono le versioni successive, e le interpretazioni date: dai reali fenomeni astronomici ai meteoriti alle interpretazioni pagane legate ai culti solari, ecc.
Non è nemmeno certo se Costantino abbia mai ricevuto il battesimo (forse, si dice, in punto di morte). Anche se è comunque plausibile un suo sincero avvicinamento al cristianesimo.
Un ultimo, significativo esempio, che consente ancora una volta un parallelismo con la politica religiosa (o con l’uso politico della religione) di Ashoka, è la convocazione di un concilio, il famoso concilio di Nicea del 325. Essa fu resa necessaria per risolvere definitivamente il problema dottrinale relativo alla Trinità, poiché il vescovo Ario negava l’uguale natura del Padre e del Figlio. Il concilio si concluse con la sconfitta di Ario, dichiarato eretico, e la redazione del Credo niceno, formulazione ufficiale della chiesa. Ma ciò che qui importa è sottolineare quanto la presenza di Costantino, autorità politica e statale, si sia fatta sentire per tutta la durata del concilio, influenzandone profondamente i lavori e le conclusioni. Il che sancì la fine (accettata, forse voluta da ambo le parti per reciproca convenienza) del principio della separazione tra politica e religione, tra stato e chiesa.
Aveva detto Gesù Cristo, tre secoli prima: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo 22, 21).


Testi e siti Internet citati e /o consultatiDanielou, Storia dell’India, Ed. Ubaldini
Batchelor, Il risveglio dell’Occidente, Ed. Ubaldini
Gnoli e altri, La civiltà indiana, Ed. UTET
Pugliese Carratelli, Gli editti di Aśoka, Ed. Adelphi
Filoramo (a cura di), Storia delle religioni - Cristianesimo, Ed. Laterza
Citati, Storia di Aśoka, il tiranno che illuminò le sue tenebre, La Repubblica, 13/2/2003
http://it.wikipedia.org (voci: Aśoka, Costantino, In hoc signo vinces)


Note:

1) “Caro agli déi”, in sanscrito Devanampriya, era un titolo onorifico spettantegli, come pure Priyadarshi, ovvero “dallo sguardo gentile”.
2) Si ricordi che il Buddha storico, Siddhartha Gautama, morì (entrò nel nirvana definitivo, nella terminologia buddhista) nel 486 a.C. circa.
3) Tradizionalmente sono quattro:
Lumbinī, il luogo di nascita; Bodhgayā, il luogo del Risveglio; Sārnāth, dove predicò il primo sermone; Kuśīnagar, dove entrò nel Parinirvana.
4) In effetti la Ruota del Dharma buddhista è formata da otto raggi, ovvero gli otto aspetti del sentiero elencati nella Quarta Nobile Verità, la Via che conduce alla cessazione della sofferenza. Il chakra (= ruota) introdotto da Ashoka contiene 24 raggi, ed è piuttosto il simbolo del modello ideale che ha ispirato la sua azione di governo, il raja chakravarti, il monarca cosmico, che esprime sovranità politica con una forte valenza etica. Una simbologia riconoscibile pertanto da tutte le componenti culturali dell’impero, che si rifà alla tradizione buddhista senza renderla egemone agli occhi delle altre.
5) Fermo restando che la storia non è e non vuole essere una scienza “esatta” come la matematica o la fisica, ma è una scienza umana, e senza che questo la ponga in una posizione gerarchicamente inferiore.
6) Recita l’editto: “…sia consentito ai cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinchè la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”.


m. mauro ton ko, ottobre 2010