Il 6 agosto 1945 il B-29 “Enola
Gay” dell’Aeronautica degli Stati Uniti sganciò sulla città giapponese di
Hiroshima la prima bomba atomica della storia, provocando in un solo istante un
numero di vittime compreso tra 100 e 200mila.
Il 9 agosto una seconda bomba
uccise almeno 60mila persone della città di Nagasaki.
La scelta del Presidente Truman
pose fine alla Seconda Guerra Mondiale anche nell’area del Pacifico, e diede
inizio alla Guerra Fredda, durante la quale l’opzione nucleare fu una spada di
Damocle perennemente sospesa sul capo dell’umanità. E oggi, nel corso di quella
che già molti chiamano la Terza Guerra Mondiale, a dispetto di quanti
parlarono, con la caduta del Muro di Berlino, di fine della Storia, tale
opzione è più che mai attuale, anche perché a disposizione di Stati e di forze politiche
che dal 1945 in poi si sono affacciate o hanno varcato la “soglia nucleare”.
Al di là delle opinioni
personali di ognuno su quanto accaduto – e su quanto sta accadendo –
proponiamo, in memoria delle vittime delle bombe di 70 anni fa e di tutte le “morti
atomiche” successive, Cernobyl e Fukushima comprese, la lettura dell’incipit di
“Requiem”, un racconto di Tamiki Hara, lo scrittore giapponese che sopravvisse
all’attacco atomico del 1945 e che ad esso dedicò gran parte della sua opera,
fino alla morte per suicidio, nel 1951.
Il testo è stato pubblicato dal
quotidiano “La Stampa” nello speciale del 26 luglio scorso dedicato all’attacco
atomico contro il Giappone.
Il racconto può essere letto,
insieme con altri, nella raccolta “Il paese dei desideri. Il ricordo di
Hiroshima”, pubblicato da Atmosphere Libri.
Tamiki Hara (1905 - 1951) |
"Voglio essere presente a me
stesso. Voglio sapere con certezza chi sono. Quando non avevo neanche un chicco
di riso nello stomaco, quando era completamente vuoto, vidi me stesso, gracile,
su una salita in mezzo al fogliame fresco. Pensai che quelli erano gli uomini.
Presi a ripetermi: non devi vivere per te stesso, devi vivere solo per il
lamento dei morti. Divenne per me come respirare, come piangere. Quando sentii
le lacrime accumularsi in fondo ai miei occhi, un brivido leggero mi attraversò
i segni delle bruciature e fui avvolto dalla nebbia. Mi parve di vederti,
oltre la nebbia, in cielo. Camminai. Le gambe mi sostenevano. Le gambe
dell'uomo. Sono sorprendenti, le gambe dell'uomo. Le gambe degli uomini
procedevano in fila verso le macerie. Sostenevano gli uomini, e gli uomini
trasportavano continuamente qualche cosa. Poco per volta, piano piano, gli
uomini hanno costruito le loro case.
Le gambe degli uomini. Quella
volta portai in spalla un soldato ferito. Le gambe del soldato non potevano
compiere più un solo passo, e lui mi pregò di lasciarlo lì. Quella mattina ero
esausto. I rimorchi che trasportavano i superstiti correvano sul ponte a gran
velocità. Scoprii che il mattino esisteva ancora. Abbandonai il soldato e me ne
andai. Le mie gambe. Nell’istante in cui le tenebre mi piombarono addosso, le
gambe furono sul punto di cedere, ma mi sostennero. Le mie gambe. Le mie
gambe. Queste mie gambe. Erano giorni tremendi. Erano giorni assurdi. Le mie
gambe avevano corso sul fuoco. Avevano corso sulle spiagge. Avevano percorso
le vie del dolore. Vie disperate, infinite. Dall'inizio alla fine le avevano
percorse, quelle vie buie, infinite, piene di disperazione e di dolore. Avevano
camminato per vivere. Chiesi al cielo stellato se sarei sopravvissuto. Non
devi vivere per te stesso, devi vivere per il lamento dei morti. È il vostro
lamento a tenermi in vita. È il lamento
dei morti a darmi la forza di camminare. Eravate stelle. Eravate fiori. Eravate
tutto ciò che conoscevo sin dal passato più remoto. Camminai. Le gambe mi
sostenevano. Quando le lacrime si accumulavano nei miei occhi, mi sembrava di
sentire gli occhi degli uomini su di me.
I corpi degli uomini. Erano
davvero cadaveri di esseri umani? Mani e piedi sul punto di sollevarsi, busti
lanciati verso l'Assoluto, dita che con gesti convulsi cercavano di afferrare
il cielo... Colli trafitti dal fascio luminoso, un lampo bianco nei denti
stretti, un tracimare di viscere... Un istante per essere squarciati, una sfida
continua all'istante successivo... Corpi distesi con la faccia nel terreno, di
lato, a pancia in su, guardavano tutti il cielo, con espressione triste,
dalle profondità della voragine, dal fondo della voragine carbonizzata in cui
erano precipitati.
I corpi degli uomini. Rotolavano
vicino ai piedi dei sopravvissuti. Erano come un groviglio attaccato ai miei
piedi. Camminavo senza riuscire a liberarmi da quel groviglio. Camminavo al
mattino su una bella strada asfaltata fiancheggiata dai platani in un quartiere
di Tokyo risparmiato dagli incendi. Ogni mattina i miei occhi si tingevano
del verde dei platani e lo riversavano in altri occhi limpidi. Ogni mattina i
miei occhi cercavano i segni di campi fioriti, i miei orecchi vibravano al
cinguettio dolce dei passeri. Non devi vivere per te stesso, devi vivere solo
per il lamento dei morti. Se riesco ancora a provare emozioni, lo devo soltanto
al vostro lamento.
Ma io riuscivo a sentire soltanto
il suono dei campanelli dentro di me... Ma che cos'era per me quello spazio stanco,
che tremava e tornava a tremare, e ancora tremava, tornava a tremare, e
stanco tremava? Divampava il fuoco, si sopiva, poi ancora bruciava, divampava,
continuava a inseguirmi, cos'erano per me quelle fiamme assillanti? Sto per
cadere dal treno. Rischio di restare schiacciato tra la folla dello
scompartimento. Non ho una casa in cui stare. Le case si rifiutano di accogliermi.
Sto per cadere, sto per restare schiacciato, e intanto vago senza meta. Vago
senza meta. Vago senza meta. È dell'uomo il vagare senza meta? Vago senza meta
con la mia idea di uomo."
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