Possa ogni suono del bardo svelarsi come un
mio suono
Possa ogni luce svelarsi come una mia luce
Possa la visione del Bardo svelarsi come una
mia visione
Possano tutti gli esseri realizzare i Tre
Corpi sul Sentiero del Bardo
Nel 1935 Jung scrisse un commento all’edizione
tedesca del cosiddetto Libro tibetano dei morti, una
traduzione del titolo originario linguisticamente non molto corretta per la
verità, anche se assolutamente perfetta dal punto di vista del marketing, per un testo che ancora oggi
è uno dei più presenti nelle classifiche tra quelli appartenenti all’area del Buddhismo,
in particolare tibetano.
Il testo era stato tradotto in inglese già nel
1927 dal Lama Kazi Dawa Samdup e da Walter Evans-Wentz (1878-1965) un antropologo
americano, autore del titolo, e da allora ebbe un’ampia diffusione in tutto
l’Occidente [1]. Tutt’oggi viene
ripubblicato in vecchie e nuove edizioni, talvolta con l’accompagnamento di
note e commentari non del tutto affidabili, al cui confronto quello di Jung
conserva caratteristiche di originalità e serietà.
Il titolo originario del testo tibetano è Bardo
Thödol, ovvero La liberazione tramite l’ascolto negli stati
intermedi. Il termine bardo
significa infatti ‘tra i due’ ovvero ‘stato intermedio’ o ancor meglio ‘transizione tra due stati’, una nozione
centrale in tutte le scuole buddhiste, “dove
si ritiene che tutti i fenomeni composti siano impermanenti e si trasformino istante
per istante” [2]. Come il titolo attribuito al testo da
Evans-Wentz indica chiaramente – e in tal senso Jung lo definisce “giustamente intitolato” [3] –, ciò a cui ci si riferisce in questo caso è il periodo che
intercorre tra il momento della morte di un essere e la successiva rinascita –
due temi che non possono quantomeno non affascinare, specialmente se nel
contesto di una tradizione ricca di sintomatico
mistero come quella del Buddhismo tantrico.
Ma la nozione di bardo (in sanscrito antarābhava)
è più ampia e infatti è utilizzata anche in altri contesti, non solo in quello
di morte/rinascita: ad esempio si parla di bardo
in merito alla vita di un individuo, in quanto si tratta pur sempre di uno
stato intermedio, tra il concepimento e la morte. È questo il bardo naturale della vita. Oppure quando
si fa riferimento ai processi dell’addormentamento, del sogno o della
meditazione profonda, durante i quali si verificano stati di dissoluzione
grossolani e sottili che accompagnano cambiamenti di livelli di coscienza (ad
esempio il ritiro delle coscienze sensoriali durante il sonno).
L’opera che Jung commentò costituisce inoltre solo
una piccola parte di un ciclo di testi che risale all’VIII secolo d.C. e che è attribuito a Padmasambhava, il Nato-dal-loto, il principe indiano che portò in Tibet il Dharma del Buddha e che i Tibetani
chiamano Guru Rinpoche, il Maestro Prezioso, e considerano tuttora il “secondo
Buddha”.
Padmasambhava |
Secondo la tradizione, Padmasambhava previde
che la trasmissione orale degli insegnamenti sarebbe stata soggetta nel tempo
ad errori e corruzioni e nascose quindi gli insegnamenti, sotto forma di libri
ed oggetti sacri, nella terra tibetana. Predisse inoltre che questi tesori (terma in tibetano) sarebbero stati ritrovati in futuro da grandi
maestri spirituali delle scuole Nyingmapa
e Bönpo, gli scopritori di tesori (tertön).
Il ciclo degli insegnamenti sul bardo
fu infatti riscoperto da uno di essi, Karmalingpa, della scuola Nyingmapa, nel XIV secolo. Da allora
nacque il lignaggio di trasmissione degli insegnamenti sul bardo, che si diffuse in tutto il Tibet. Nel XVII secolo Rigdzin
Nyima Drakpa trascrisse e collazionò i testi del ciclo, riunendoli nell’attuale
forma, e nel XVIII secolo ne fu realizzata la prima edizione xilografica [4].
La natura dell’opera è ben sintetizzata da
Jung all’inizio del suo commento, dove definisce il Bardo Thödol “un libro di istruzioni per la persona testé
defunta, destinato a servirle da guida durante la sua esistenza-bardo, stato
intermedio di quarantanove giorni che intercorrono tra la sua morte e la sua
rinascita; è qualcosa di simile al Libro egiziano dei morti” [5]. In realtà, “la durata del bardo
post-mortem [..] è abitualmente un multiplo di sette giorni, spesso con un
massimo di quarantanove giorni” [6]. Nel Buddhismo giapponese si parla anche di
una durata di 77 giorni. La nozione di antarābhava
non viene invece accettata nel Buddhismo Theravada,
per il quale “il continuum di coscienza
che è portatore del karma dell’individuo non conosce una vera e propria
interruzione nel succedersi degli istanti [..] e il passaggio da un tipo di
esistenza a un altro è istantaneo” come un battito di ciglia o un lampo [7].
“Il
testo – prosegue Jung – è diviso in
tre parti. La prima, detta Chikhai-bardo [il bardo doloroso del momento
della morte], narra gli eventi
psichici al momento della morte. La seconda, il cosiddetto Chönyid-bardo [il
bardo
della realtà assoluta], si occupa
dello stato di sogno che subentra alla morte definitiva, le cosiddette
illusioni karmiche. La terza, detta Sidpa-bardo [il bardo del divenire], riguarda l'inizio dell'impulso alla
nascita e degli eventi prenatali. È caratteristico
il fatto che la più alta penetrazione e illuminazione, e quindi la massima
possibilità di liberarsi, si hanno proprio al momento della morte. Poco dopo
cominciano le ‘illusioni’ che finiscono per condurre alla reincarnazione, e
durante le quali le luci ispirate si fanno sempre più torbide e molteplici, e
le visioni sempre più spaventose. Questa discesa rappresenta l'estraniarsi
della coscienza dalla verità liberatrice e il suo riavvicinarsi all'esistenza
fisica. Le istruzioni hanno lo scopo di richiamare l'attenzione del dipartito,
ad ogni stadio del periodo in cui può essere accecato e irretito, sul fatto che
egli può ancora liberarsi, e illuminarlo sulla natura delle sue visioni. Il
lama legge i testi del Bardo in presenza del cadavere” [8], anzi meglio, li legge al
cadavere.
Non si tratta quindi di un testo da utilizzare
in un cerimoniale sepolcrale o di una raccolta di preghiere per i defunti, ma
di vere e proprie istruzioni per i morti, una guida per aiutarli ad attraversare
i fenomeni e le apparizioni che si manifestano durante le tre fasi del bardo successive alla morte, dopo che si
sono attraversate le altre dimensioni del bardo
già menzionate, quella della Vita, del Sogno e – per alcuni – della Meditazione
profonda.
Nel Buddhismo tantrico il processo della morte e il bardo
costituiscono infatti insuperabili occasioni di liberazione, e per questo viene
raccomandato di praticare gli insegnamenti del Bardo Thödol finché si è vivi. Le istruzioni che il lama o un’altra persona qualificata legge
all’orecchio del defunto hanno “lo scopo
di richiamare alla mente [..] le esperienze iniziatiche o le dottrine del guru”
ricevute in vita, secondo le quali “anche
gli dei sono splendore e luce dell’anima personale [..]: la sua anima stessa è
la luce della divinità, e la divinità è l’anima”. Il Bardo Thödol è quindi “un
processo di iniziazione inteso a ricostituire la divinità che l’anima ha
perduto con la nascita”, in quanto incastrata “a viva forza in un’infinità di cose che si urtano, si oppongono a
vicenda, dove non si riesce mai a capire chi in realtà abbia ‘dato’ tutte
queste ‘cose date’”: il ‘datore’ delle cose abita in noi stessi, afferma
Jung, ed è proprio il primato della
psiche ciò che viene da subito chiarito al defunto [9].
Il "funerale ceste" del Tibet |
Ciò che per prima sorge nel bardo della morte è la Chiara Luce, una forma di luce che “non può essere confusa né con la luce
fisica che noi percepiamo o immaginiamo né con le luci che appariranno nelle
fasi ulteriori del bardo. Essa è totale assenza di oscurità, è la luce che
illumina ogni altra luce” [10]. È il primo insegnamento del Libro: “Oh figlio – e qui viene detto il nome
del defunto – ora è giunta per te l’ora di cercare una via. Nell’attimo in cui il
tuo respiro vanisce sorge la cosiddetta Chiara Luce del Primo Bardo. Ricorda le
parole del tuo Maestro. Questa è la luce della Dharmatā [la natura assoluta
dei fenomeni], vacua e profonda come lo
spazio, senza centro né luogo, immacolata Coscienza assoluta. Riconoscila,
entra in lei e riposa in quello stato che io stesso verrò a rivelarti” [11].
Coloro che, a causa del proprio karma, non hanno riconosciuto la Chiara Luce per ciò che è, ovvero
l’autentica natura dei fenomeni, possono essere salvati da una seconda
manifestazione della luce, durante la quale tuttavia è necessario l’aiuto “delle deità tutelari sulle quali in vita
meditarono; ma essi corrono il rischio di crederle vive e reali. Le istruzioni
che in questo momento si impartiscono servono dunque a produrre la
consapevolezza che le deità stesse, invocate durante la vita, non hanno nessuna
realtà obiettiva; sono immagini e sogno, perché nulla esiste all’infuori di
quella luce elementare” [12]. È il bardo
della realtà assoluta, il Chönyid-bardo,
uno “stato di illusioni karmiche, dunque
di quelle illusioni che poggiano sui resti psichici (o meriti) della vite
precedenti” [13]. La realtà di cui qui si fa esperienza è la
realtà dei pensieri. Come spiega Jung, “le
‘forme del pensiero’ appaiono come realtà, la fantasia assume forma reale e il
sogno spaventoso, evocato dal karma e dalle dominanti inconsce, comincia” [14].
A questo punto è ormai tramontata ogni
speranza di riconoscere lo stato primordiale della coscienza, e quindi il Lama cerca di orientare il defunto nella
rinascita che gli permetterà di procedere sul sentiero del Dharma: sorgono luci, vortici di punti luminosi e forme pacifiche e
feroci di divinità. Luci radiose si
alternano alle visioni dei paradisi dei Buddha e a quelle dei Sei Regni. Ma la mente è accecata dalla
purezza della verità e si volge verso la luminosità dolce e seducente dei Regni impuri, e così facendo si avvia verso
la rinascita [15]. “Queste
luci sono l’irradiazione dei cinque
soffi e dei cinque elementi che tornano a ricostituire il corpo mentale del
morto insieme alle esperienze maturate dal suo karma. La luce gialla
corrisponde all’elemento terra, la luce rossa all’elemento fuoco, la luce
bianca all’elemento acqua, la luce verde all’aria, la luce blu allo spazio
coscienza” [16].
Ritornano i pensieri, le forme dell’ignoranza,
dell’attaccamento e dell’avversione. Così, nella dimensione del bardo del divenire, si creano le
condizioni per la rinascita in uno dei Sei
Regni. Non c’è – ancora – un corpo fisico, bensì un ‘corpo mentale’, che,
condizionato dal suo stesso passato, prova ogni tipo di paura, di fame, di
freddo, di caldo, in forma onirica, però, e quindi
con una intensità infinitamente maggiore. Esso è dotato di facoltà che gli
consentono di vedere il mondo dei vivi, delle persone tra le quali era vissuto.
Può spostarsi in un istante da un luogo all’altro, sulla base di qualsiasi
pensiero, impulso, desiderio. Nessuno però lo può percepire in alcun modo, e
quindi prova nostalgia, dolore, disperazione, attaccamenti di ogni tipo da cui
sorgono frustrazione e odio; diventa consapevole della propria morte e vede il
proprio cadavere in decomposizione; tutti i suoi desideri e avversioni lo
sospingono verso le profondità del bardo.
Che sarà brevissimo, frazioni di istanti, per chi ha un karma negativo, più lungo per coloro il cui karma è positivo.
“Le esperienze
che sorgono nella prima parte del bardo del divenire ripercorrono la vita già
vissuta, poi il karma che le ha maturate si indebolisce lasciando che si
manifestino le visioni dell’esistenza futura. Queste visioni presagiscono il
destino che si sta formando” [17]. Sorgono nella mente tre abissi che la
inghiottono, di colore grigio, rosso e nero, maturati dai tre veleni dell’odio,
del desiderio e dell’ignoranza. È il momento della rinascita. Dal punto di
vista della psicologia junghiana, il defunto comincia qui “ad abbandonarsi a fantasie sessuali per mezzo delle quali è attratto da
coppie coabitanti per essere poi imprigionato in un utero e messo di nuovo al
mondo” [18]. Se la mente, allorquando percepisce i suoi
futuri genitori unirsi sessualmente, prova repulsione per l’uomo e attrazione
per la donna, la nascita sarà maschile – e viceversa. Nel momento in cui avviene
la congiunzione tra seme e ovulo – che sono l’aspetto esterno del principio
maschile e femminile – la coscienza svanisce, per poi ritornare nel corso dello
sviluppo dell’embrione. Il ricordo del bardo
del divenire scompare e riprende così la sequenza dei bardo della vita, del sonno, della meditazione, della morte…
La Ruota dell'esistenza con i 6 Regni |
Ma questo nel caso in cui la rinascita avvenga
nel Regno
degli uomini, il che non è affatto scontato…
Infatti ben sei sono i Reami del samsara,
l’esistenza ciclica condizionata, nei quali può rinascere colui che non ha
riconosciuto lo splendore della Chiara
Luce o non ha seguito, a causa della potenza del suo karma negativo, le istruzioni del Bardo che lo avrebbero portato alla liberazione. A questo punto, le
ultime istruzioni che il defunto riceve sono relative alla scelta della
rinascita più favorevole.
Così recita il Bardo, e così il Lama o
un amico nel Dharma legge al defunto:
“Se
prenderai corpo tra gli Dei vedrai
mirabili templi e palazzi di cristallo e oro. Lì, se ti è possibile, entra.
Se prenderai corpo tra i Demoni
Gelosi vedrai una radiosa foresta e vortici roteanti di fuoco. Non ti
avvicinare, lascia che il disgusto ti spinga lontano e non entrare. Non
entrare.
Se prenderai corpo tra gli Animali
vedrai, nelle forre brumose, grotte, crepacci e verdi capanne. Non entrare per
alcun motivo!
Se prenderai corpo come Spettro
Insaziato [preta,
spiriti famelici], desolati acquitrini e
caverne immerse nell’inquieta oscurità verranno ad invitarti. Se vi entrerai,
rinascendo come spirito insaziato troverai i tormenti della fame e della sete.
Non entrare, lascia che il disgusto ti tenga lontano!
Se prenderai corpo negli Inferni
udrai il canto degli esseri stregati dal potere demoniaco del karma e ti sentirai attratto
irresistibilmente laggiù. In una densa tenebra ti sentirai traversare una
landa fumosa tra cupi precipizi e voragini e sentieri e casupole buie e
infiammate. E sarai nell’Inferno, dove ignoto è il tempo che libera dai
tormenti di fiamme e gelo. Non andare laggiù, non lasciare che la nera
nostalgia ti attiri, non entrare!” [19].
A proposito dello stato divino, è necessario
osservare che anche negli esseri che vi dimorano permane una traccia di opacità
mentale che impedisce loro di riconoscere la natura ultima dello spirito. Per
cui, dopo un tempo infinitamente lungo, anche le divinità ridiscendono nelle
dimensioni inferiori e rientrano nel ciclo del samsara. Il loro è in realtà il regno dell’egoismo, “il punto dove il sentiero spirituale si
falsifica nell’autocompiacimento trasformandosi in un vicolo cieco. È l’estrema
metamorfosi dell’illusione che si mostra come nirvana per poi precipitare nella
profonda delusione del samsara” [20]. In ultima analisi, ogni pratica spirituale,
ogni meditazione, è inutile –anzi negativa – se non è indirizzata a generare e
sviluppare la compassione verso tutti gli esseri.
Infatti, se la spaventosa potenza del karma spinge ad entrare nell’utero verso
una rinascita umana vi sono ulteriori istruzioni, quali il concentrarsi su
questa preghiera:
“Possa
io rinascere per salvare ogni creatura e girare col potere assoluto la Ruota
del Dharma. Possa io rinascere in una famiglia piena d'amore, grande come
il beato Albero del Buddha o in una famiglia di asceti o in una famiglia di
santi purificati nel Dharma o in una famiglia di genitori devoti. Cosi rinascendo
possa io ottenere un corpo capace di servire tutte le creature e condurle
alla salvezza".
Concentrato su questo pensiero entra nell’utero e in quell’attimo
benedicilo come fosse la radiosa dimora degli Dei” [21].
Ma, ancora accecati dal karma, ci si può ingannare scambiando per puro un utero impuro, e
allora “se appare un utero che ti piace,
non lo desiderare e non provare repulsione se un altro ti ripugna. Entra nella
calma suprema dell’equanimità dove odio, desiderio, attaccamento e repulsione
cessano per sempre” [22].
Ed infine, extrema
ratio: “anche per quelli incapaci di
lasciare desiderio e repulsione, i pazzi, i perversi, i demoniaci discesi
ormai in rifugi bestiali esiste una via di salvezza. Si chiami tre volte il
morto per nome dicendogli:
‘Oh figlio, se non puoi dimenticare odio e attrazione e non sai
scegliere la porta dell’utero, qualunque sia l’immagine che verrà ad invitarti
tra quelle dette innanzi, invoca i Tre Rari e Sublimi [i Tre Gioielli, Buddha,
Dharma e Sangha] e lì prendi rifugio! Prega il Grande Misericordioso e vai a
testa alta, cosciente di essere nel Bardo. Brucia la nostalgia per i tuoi cari
che hai lasciato, figli, figlie, parenti e amici devoti. Ora non possono più
aiutarti. Entra nella luce azzurra del mondo umano, entra nella bianca luce
degli Dei, entra nella gioia radiosa delle preziose dimore e nei beati
giardini’.
Si ripeta così almeno sette volte” [23].
La prima cerimonia funebre tibetana in Italia (Pomaia) |
Tornando infine a Jung, come si è visto nei
brani citati dal suo commento ciò che per lui è importante è il primato della psiche (che viene
costantemente ricordato al defunto), così come avviene nel solo “processo d’iniziazione tuttora esistente e
usato praticamente nelle sfera culturale d’occidente [..], l’analisi
dell’inconscio praticata dai medici” [24]. In
questo senso la rinascita è una “presa di
coscienza del contenuto psichico non ancora nato, ancora in germe, subliminale”,
e il sentiero del bardo è quello che
l’europeo percorre quando si sottopone al processo analitico, però in senso
inverso. Ma l’analisi freudiana si ferma alle esperienze del bardo del divenire, il primo in ordine
inverso, a meno di postulare una preesistenza prenatale, il che non è possibile
per la psicoanalisi in quanto “non si è
giunti più in là del supporre tracce di esperienza intrauterina”.
In definitiva, Jung deve ammettere che l’uso
psicologico del libro “corrisponde
tutt’al più a un secondo fine, forse accettato dagli usi lamaistici. Lo scopo
vero e proprio [..] è la premura, che fa di certo una strana impressione all’europeo
colto del ventesimo secolo, d’illuminare il defunto che si trova nel bardo”.
In Occidente non c’è nulla di paragonabile al Bardo Thödol: qui “ad eccezione delle messe per i morti celebrate dalla Chiesa cattolica,
la nostra cura dei defunti è rudimentale e ferma al gradino più basso, non
perché non riusciamo a convincerci a sufficienza del fatto che l’anima è
immortale, ma perché, razionalizzandolo, abbiamo distrutto il bisogno
psicologico [..]. Ma la più alta prodigalità spirituale a favore dei trapassati
sono le istruzioni del Bardo Thödol, tanto minuziose e tanto adatte ai
presumibili cambiamenti di stato del defunto, che ogni lettore attento si
domanda se in fin dei conti quei vecchi saggi lama non abbiano gettato uno
sguardo nella quarta dimensione, sollevando un po’ il velo che ricopre i grandi
segreti della vita”.
Del tutto
‘aperte’ sono le conclusioni di Jung: nel Bardo
Thödol non si trovano – egli afferma – realtà fisiche o metafisiche, ma
‘soltanto’ dati psichici, fermo restando che “sia una cosa ‘data’ oggettivamente o soggettivamente, essa è”.
Gli dei, i Buddha, le visioni del bardo,
sono dati psichici, ed è questo che il defunto deve apprendere, se già non gli
è stato chiaro in vita. “Il mondo degli
dei e degli spiriti ‘non è che’ [le virgolette sono di Jung] l’inconscio collettivo in me. Ma per
capovolgere questa frase in modo che significhi: ‘l’inconscio è il mondo degli
dei e degli spiriti al di fuori di me’, non occorrono acrobazie intellettuali,
ma un’intera vita umana, forse perfino molte vite di sempre maggior pienezza”.
È bene che
esistano questi libri, dice Jung, e non possiamo che condividere pienamente
questa sua ultima affermazione. Non solo la pratica in vita degli insegnamenti
del Bardo Thödol, ma anche la sola lettura
di un siffatto testo può costituire quantomeno un buon antidoto nei confronti
di una delle peggiori patologie di questa fase della nostra ‘civiltà’, quella rimozione della morte che Padre Enzo
Bianchi, già priore del Monastero di Bose, ha così descritto: “la morte appare rimossa e, al contempo,
spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi,
estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata [..], quasi
in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una società
narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto quell’evento,
la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza
dell’uomo”
Anche grazie agli antichi insegnamenti del
Tibet, la morte potrà finalmente riprendere il suo posto nelle nostre esistenze
e svolgervi il suo ruolo, “divenire rivelazione, aprire squarci di senso
sulla vita” (Bianchi), al di là di ogni ‘appartenenza’ religiosa o
filosofica.
Note
1. Alcune delle (migliori) edizioni italiane sono
le seguenti:
- G. Tucci (traduzione di), Il
libro tibetano dei morti, Ed. UTET – Classici delle Religioni
- F. Fremantle – Chögyam Trungpa (traduzione e
commento di), Il libro tibetano dei morti, Ed. Ubaldini
- U. Leonzio (a cura di), Bardo Thödol, Ed. Einaudi
- W. Evans-Wentz (trad. di), Il
libro tibetano dei morti, Ed. Harmakis
- Padmasambhava, Il libro tibetano dei morti,
a cura di G. Coleman e Thupten Jinpa, Ed. Mondadori Oscar (prima edizione
integrale)
Si veda anche: Lama Lodö, Insegnamenti sul bardo,
Ed. Ubaldini
2. Ph. Cornu, Dizionario del buddhismo,
Ed. Bruno Mondadori, pag. 50
3. C.G. Jung, Commento psicologico al Bardo
Thödol, in: C.G. Jung, La saggezza orientale, Ed.
Boringhieri, pag. 14
4. Cfr. Gyurme Dorje, Breve storia letteraria del Libro
tibetano dei morti, in: Padmasambhava, Il libro tibetano dei morti,
pag. XXVII e segg.
5. C.G. Jung, Commento…, pag. 13
6. Ph. Cornu, pag. 51
7. Id. pag. 50
8. C.G. Jung, Commento…, pag. 13
9. Citazioni tratte dal Commento di Jung, pag.16
e segg.
10. U. Leonzio, Introduzione al Bardo
Thödol, Ed. Einaudi, pag. XI
11. Bardo Thödol, Ed. Einaudi, pag. 10
12. G. Tucci, Introduzione a Il
libro tibetano dei morti, Ed. UTET, pag. 33
13. C.G. Jung, Commento…, pag. 21
14. Id. pag. 26
15. Cfr. U. Leonzio, Introduzione, pag. XVIII
16. Id.
17. Id. pag. 22
18. C.G. Jung, Commento…, pag. 19
19. Bardo Thödol, pag. 81-82
20. U. Leonzio, Introduzione, pag. XVII
21. Bardo Thödol, pag. 85
22. Id. pag. 86
23. Id.
24. C.G. Jung, Commento…, pag. 19. Da qui, tutte le citazioni sono tratte dal Commento di Jung, pag. 19
e seguenti
Oltre alla lettura delle opere citate nel
testo e nelle note, si consiglia l’ascolto delle lezioni sul Tibet, sulla sua
storia e sulla sua cultura tenute per la trasmissione Uomini e profeti di RAI-Radio 3 da Giacomella Orofino, docente di Indologia e Tibetologia presso l’Università degli studi di Napoli “L'Orientale”. In particolare, l’ultima lezione è dedicata tra l’altro al Libro tibetano dei morti.