martedì 4 aprile 2017

La psicologia analitica e l'Oriente: II - Jung e il Libro tibetano dei morti


Possa ogni suono del bardo svelarsi come un mio suono
Possa ogni luce svelarsi come una mia luce
Possa la visione del Bardo svelarsi come una mia visione
Possano tutti gli esseri realizzare i Tre Corpi sul Sentiero del Bardo


Nel 1935 Jung scrisse un commento all’edizione tedesca del cosiddetto Libro tibetano dei morti, una traduzione del titolo originario linguisticamente non molto corretta per la verità, anche se assolutamente perfetta dal punto di vista del marketing, per un testo che ancora oggi è uno dei più presenti nelle classifiche tra quelli appartenenti all’area del Buddhismo, in particolare tibetano.
Il testo era stato tradotto in inglese già nel 1927 dal Lama Kazi Dawa Samdup e da Walter Evans-Wentz (1878-1965) un antropologo americano, autore del titolo, e da allora ebbe un’ampia diffusione in tutto l’Occidente [1]Tutt’oggi viene ripubblicato in vecchie e nuove edizioni, talvolta con l’accompagnamento di note e commentari non del tutto affidabili, al cui confronto quello di Jung conserva caratteristiche di originalità e serietà.
Il titolo originario del testo tibetano è Bardo Thödol, ovvero La liberazione tramite l’ascolto negli stati intermedi. Il termine bardo significa infatti ‘tra i due’ ovvero ‘stato intermedio’ o ancor meglio ‘transizione tra due stati’, una nozione centrale in tutte le scuole buddhiste, “dove si ritiene che tutti i fenomeni composti siano impermanenti e si trasformino istante per istante[2]. Come il titolo attribuito al testo da Evans-Wentz indica chiaramente – e in tal senso Jung lo definisce “giustamente intitolato[3] –, ciò a cui ci si riferisce in questo caso è il periodo che intercorre tra il momento della morte di un essere e la successiva rinascita – due temi che non possono quantomeno non affascinare, specialmente se nel contesto di una tradizione ricca di sintomatico mistero come quella del Buddhismo tantrico.
Ma la nozione di bardo (in sanscrito antarābhava) è più ampia e infatti è utilizzata anche in altri contesti, non solo in quello di morte/rinascita: ad esempio si parla di bardo in merito alla vita di un individuo, in quanto si tratta pur sempre di uno stato intermedio, tra il concepimento e la morte. È questo il bardo naturale della vita. Oppure quando si fa riferimento ai processi dell’addormentamento, del sogno o della meditazione profonda, durante i quali si verificano stati di dissoluzione grossolani e sottili che accompagnano cambiamenti di livelli di coscienza (ad esempio il ritiro delle coscienze sensoriali durante il sonno).
L’opera che Jung commentò costituisce inoltre solo una piccola parte di un ciclo di testi che risale all’VIII secolo d.C. e che è attribuito a Padmasambhava, il Nato-dal-loto, il principe indiano che portò in Tibet il Dharma del Buddha e che i Tibetani chiamano Guru Rinpoche, il Maestro Prezioso, e considerano tuttora il “secondo Buddha”.

Padmasambhava
Secondo la tradizione, Padmasambhava previde che la trasmissione orale degli insegnamenti sarebbe stata soggetta nel tempo ad errori e corruzioni e nascose quindi gli insegnamenti, sotto forma di libri ed oggetti sacri, nella terra tibetana. Predisse inoltre che questi tesori (terma in tibetano) sarebbero stati ritrovati in futuro da grandi maestri spirituali delle scuole Nyingmapa e Bönpo, gli scopritori di tesori (tertön). Il ciclo degli insegnamenti sul bardo fu infatti riscoperto da uno di essi, Karmalingpa, della scuola Nyingmapa, nel XIV secolo. Da allora nacque il lignaggio di trasmissione degli insegnamenti sul bardo, che si diffuse in tutto il Tibet. Nel XVII secolo Rigdzin Nyima Drakpa trascrisse e collazionò i testi del ciclo, riunendoli nell’attuale forma, e nel XVIII secolo ne fu realizzata la prima edizione xilografica [4].

La natura dell’opera è ben sintetizzata da Jung all’inizio del suo commento, dove definisce il Bardo Thödol un libro di istruzioni per la persona testé defunta, destinato a servirle da guida durante la sua esistenza-bardo, stato intermedio di quarantanove giorni che intercorrono tra la sua morte e la sua rinascita; è qualcosa di simile al Libro egiziano dei morti[5]. In realtà, “la durata del bardo post-mortem [..] è abitualmente un multiplo di sette giorni, spesso con un massimo di quarantanove giorni[6]. Nel Buddhismo giapponese si parla anche di una durata di 77 giorni. La nozione di antarābhava non viene invece accettata nel Buddhismo Theravada, per il quale “il continuum di coscienza che è portatore del karma dell’individuo non conosce una vera e propria interruzione nel succedersi degli istanti [..] e il passaggio da un tipo di esistenza a un altro è istantaneo” come un battito di ciglia o un lampo [7].


Il testo – prosegue Jung – è diviso in tre parti. La prima, detta Chikhai-bardo [il bardo doloroso del momento della morte], narra gli eventi psichici al momento della morte. La seconda, il cosiddetto Chönyid-bardo [il bardo della realtà assoluta], si occupa dello stato di sogno che subentra alla morte definitiva, le cosiddette illusioni karmiche. La terza, detta Sidpa-bardo [il bardo del divenire], riguarda l'inizio dell'impulso alla nascita e degli eventi prenatali. È caratteristico il fatto che la più alta pene­trazione e illuminazione, e quindi la massima possibilità di liberarsi, si hanno proprio al momento della morte. Poco dopo cominciano le ‘illusioni’ che finiscono per condurre alla reincarnazione, e durante le quali le luci ispirate si fanno sempre più torbide e molteplici, e le visioni sempre più spaventose. Questa discesa rappresenta l'estraniar­si della coscienza dalla verità liberatrice e il suo riavvicinarsi all'esi­stenza fisica. Le istruzioni hanno lo scopo di richiamare l'attenzione del dipartito, ad ogni stadio del periodo in cui può essere accecato e irretito, sul fatto che egli può ancora liberarsi, e illuminarlo sulla natura delle sue visioni. Il lama legge i testi del Bardo in presenza del cadavere[8], anzi meglio, li legge al cadavere.
Non si tratta quindi di un testo da utilizzare in un cerimoniale sepolcrale o di una raccolta di preghiere per i defunti, ma di vere e proprie istruzioni per i morti, una guida per aiutarli ad attraversare i fenomeni e le apparizioni che si manifestano durante le tre fasi del bardo successive alla morte, dopo che si sono attraversate le altre dimensioni del bardo già menzionate, quella della Vita, del Sogno e – per alcuni – della Meditazione profonda.
Nel Buddhismo tantrico il processo della morte e il bardo costituiscono infatti insuperabili occasioni di liberazione, e per questo viene raccomandato di praticare gli insegnamenti del Bardo Thödol finché si è vivi. Le istruzioni che il lama o un’altra persona qualificata legge all’orecchio del defunto hanno “lo scopo di richiamare alla mente [..] le esperienze iniziatiche o le dottrine del guru” ricevute in vita, secondo le quali “anche gli dei sono splendore e luce dell’anima personale [..]: la sua anima stessa è la luce della divinità, e la divinità è l’anima”. Il Bardo Thödol è quindi “un processo di iniziazione inteso a ricostituire la divinità che l’anima ha perduto con la nascita”, in quanto incastrata “a viva forza in un’infinità di cose che si urtano, si oppongono a vicenda, dove non si riesce mai a capire chi in realtà abbia ‘dato’ tutte queste ‘cose date’”: il ‘datore’ delle cose abita in noi stessi, afferma Jung, ed è proprio il primato della psiche ciò che viene da subito chiarito al defunto [9].

Il "funerale ceste" del Tibet

Ciò che per prima sorge nel bardo della morte è la Chiara Luce, una forma di luce che “non può essere confusa né con la luce fisica che noi percepiamo o immaginiamo né con le luci che appariranno nelle fasi ulteriori del bardo. Essa è totale assenza di oscurità, è la luce che illumina ogni altra luce[10]. È il primo insegnamento del Libro: “Oh figlio – e qui viene detto il nome del defunto – ora è giunta per te l’ora di cercare una via. Nell’attimo in cui il tuo respiro vanisce sorge la cosiddetta Chiara Luce del Primo Bardo. Ricorda le parole del tuo Maestro. Questa è la luce della Dharmatā [la natura assoluta dei fenomeni], vacua e profonda come lo spazio, senza centro né luogo, immacolata Coscienza assoluta. Riconoscila, entra in lei e riposa in quello stato che io stesso verrò a rivelarti[11].
Coloro che, a causa del proprio karma, non hanno riconosciuto la Chiara Luce per ciò che è, ovvero l’autentica natura dei fenomeni, possono essere salvati da una seconda manifestazione della luce, durante la quale tuttavia è necessario l’aiuto “delle deità tutelari sulle quali in vita meditarono; ma essi corrono il rischio di crederle vive e reali. Le istruzioni che in questo momento si impartiscono servono dunque a produrre la consapevolezza che le deità stesse, invocate durante la vita, non hanno nessuna realtà obiettiva; sono immagini e sogno, perché nulla esiste all’infuori di quella luce elementare[12]. È il bardo della realtà assoluta, il Chönyid-bardo, uno “stato di illusioni karmiche, dunque di quelle illusioni che poggiano sui resti psichici (o meriti) della vite precedenti[13]. La realtà di cui qui si fa esperienza è la realtà dei pensieri. Come spiega Jung, “le ‘forme del pensiero’ appaiono come realtà, la fantasia assume forma reale e il sogno spaventoso, evocato dal karma e dalle dominanti inconsce, comincia[14].

A questo punto è ormai tramontata ogni speranza di riconoscere lo stato primordiale della coscienza, e quindi il Lama cerca di orientare il defunto nella rinascita che gli permetterà di procedere sul sentiero del Dharma: sorgono luci, vortici di punti luminosi e forme pacifiche e feroci di divinità.  Luci radiose si alternano alle visioni dei paradisi dei Buddha e a quelle dei Sei Regni. Ma la mente è accecata dalla purezza della verità e si volge verso la luminosità dolce e seducente dei Regni impuri, e così facendo si avvia verso la rinascita [15]. “Queste luci sono l’irradiazione dei cinque soffi e dei cinque elementi che tornano a ricostituire il corpo mentale del morto insieme alle esperienze maturate dal suo karma. La luce gialla corrisponde all’elemento terra, la luce rossa all’elemento fuoco, la luce bianca all’elemento acqua, la luce verde all’aria, la luce blu allo spazio coscienza[16].
Ritornano i pensieri, le forme dell’ignoranza, dell’attaccamento e dell’avversione. Così, nella dimensione del bardo del divenire, si creano le condizioni per la rinascita in uno dei Sei Regni. Non c’è – ancora – un corpo fisico, bensì un ‘corpo mentale’, che, condizionato dal suo stesso passato, prova ogni tipo di paura, di fame, di freddo, di caldo, in forma onirica, però, e quindi con una intensità infinitamente maggiore. Esso è dotato di facoltà che gli consentono di vedere il mondo dei vivi, delle persone tra le quali era vissuto. Può spostarsi in un istante da un luogo all’altro, sulla base di qualsiasi pensiero, impulso, desiderio. Nessuno però lo può percepire in alcun modo, e quindi prova nostalgia, dolore, disperazione, attaccamenti di ogni tipo da cui sorgono frustrazione e odio; diventa consapevole della propria morte e vede il proprio cadavere in decomposizione; tutti i suoi desideri e avversioni lo sospingono verso le profondità del bardo. Che sarà brevissimo, frazioni di istanti, per chi ha un karma negativo, più lungo per coloro il cui karma è positivo.
Le esperienze che sorgono nella prima parte del bardo del divenire ripercorrono la vita già vissuta, poi il karma che le ha maturate si indebolisce lasciando che si manifestino le visioni dell’esistenza futura. Queste visioni presagiscono il destino che si sta formando[17]. Sorgono nella mente tre abissi che la inghiottono, di colore grigio, rosso e nero, maturati dai tre veleni dell’odio, del desiderio e dell’ignoranza. È il momento della rinascita. Dal punto di vista della psicologia junghiana, il defunto comincia qui “ad abbandonarsi a fantasie sessuali per mezzo delle quali è attratto da coppie coabitanti per essere poi imprigionato in un utero e messo di nuovo al mondo[18]. Se la mente, allorquando percepisce i suoi futuri genitori unirsi sessualmente, prova repulsione per l’uomo e attrazione per la donna, la nascita sarà maschile – e viceversa. Nel momento in cui avviene la congiunzione tra seme e ovulo – che sono l’aspetto esterno del principio maschile e femminile – la coscienza svanisce, per poi ritornare nel corso dello sviluppo dell’embrione. Il ricordo del bardo del divenire scompare e riprende così la sequenza dei bardo della vita, del sonno, della meditazione, della morte…

La Ruota dell'esistenza con i 6 Regni

Ma questo nel caso in cui la rinascita avvenga nel Regno degli uomini, il che non è affatto scontato…
Infatti ben sei sono i Reami del samsara, l’esistenza ciclica condizionata, nei quali può rinascere colui che non ha riconosciuto lo splendore della Chiara Luce o non ha seguito, a causa della potenza del suo karma negativo, le istruzioni del Bardo che lo avrebbero portato alla liberazione. A questo punto, le ultime istruzioni che il defunto riceve sono relative alla scelta della rinascita più favorevole.
Così recita il Bardo, e così il Lama o un amico nel Dharma legge al defunto:
Se prenderai corpo tra gli Dei vedrai mirabili tem­pli e palazzi di cristallo e oro. Lì, se ti è possibile, entra.
Se prenderai corpo tra i Demoni Gelosi vedrai una radiosa foresta e vortici roteanti di fuoco. Non ti avvicinare, lascia che il disgusto ti spinga lontano e non entrare. Non entrare.
Se prenderai corpo tra gli Animali vedrai, nelle forre brumose, grotte, crepacci e verdi capanne. Non entrare per alcun motivo!
Se prenderai corpo come Spettro Insaziato [preta, spiriti famelici], deso­lati acquitrini e caverne immerse nell’inquieta oscu­rità verranno ad invitarti. Se vi entrerai, rinascendo come spirito insaziato troverai i tormenti della fame e della sete. Non entrare, lascia che il disgusto ti ten­ga lontano!
Se prenderai corpo negli Inferni udrai il canto de­gli esseri stregati dal potere demoniaco del karma e ti sentirai attratto irresistibilmente laggiù. In una den­sa tenebra ti sentirai traversare una landa fumosa tra cupi precipizi e voragini e sentieri e casupole buie e infiammate. E sarai nell’Inferno, dove ignoto è il tempo che libera dai tormenti di fiamme e gelo. Non andare laggiù, non lasciare che la nera nostalgia ti at­tiri, non entrare![19].
A proposito dello stato divino, è necessario osservare che anche negli esseri che vi dimorano permane una traccia di opacità mentale che impedisce loro di riconoscere la natura ultima dello spirito. Per cui, dopo un tempo infinitamente lungo, anche le divinità ridiscendono nelle dimensioni inferiori e rientrano nel ciclo del samsara. Il loro è in realtà il regno dell’egoismo, “il punto dove il sentiero spirituale si falsifica nell’autocompiacimento trasformandosi in un vicolo cieco. È l’estrema metamorfosi dell’illusione che si mostra come nirvana per poi precipitare nella profonda delusione del samsara[20]. In ultima analisi, ogni pratica spirituale, ogni meditazione, è inutile –anzi negativa – se non è indirizzata a generare e sviluppare la compassione verso tutti gli esseri.

Infatti, se la spaventosa potenza del karma spinge ad entrare nell’utero verso una rinascita umana vi sono ulteriori istruzioni, quali il concentrarsi su questa preghiera:
Possa io rinascere per salvare ogni creatura e gi­rare col potere assoluto la Ruota del Dharma. Pos­sa io rinascere in una famiglia piena d'amore, grande come il beato Albero del Buddha o in una famiglia di asceti o in una famiglia di santi purificati nel Dhar­ma o in una famiglia di genitori devoti. Cosi rina­scendo possa io ottenere un corpo capace di servire tutte le creature e condurle alla salvezza".
Concentrato su questo pensiero entra nell’utero e in quell’attimo benedicilo come fosse la radiosa di­mora degli Dei[21].
Ma, ancora accecati dal karma, ci si può ingannare scambiando per puro un utero impuro, e allora “se appare un utero che ti piace, non lo desiderare e non provare repulsione se un altro ti ripugna. Entra nella calma suprema dell’equanimità dove odio, desiderio, attaccamento e repulsione cessano per sempre[22].
Ed infine, extrema ratio: “anche per quelli incapaci di lasciare desi­derio e repulsione, i pazzi, i perversi, i demoniaci di­scesi ormai in rifugi bestiali esiste una via di salvez­za. Si chiami tre volte il morto per nome dicendogli:
‘Oh figlio, se non puoi dimenticare odio e attra­zione e non sai scegliere la porta dell’utero, qualun­que sia l’immagine che verrà ad invitarti tra quelle dette innanzi, invoca i Tre Rari e Sublimi [i Tre Gioielli, Buddha, Dharma e Sangha] e lì prendi rifugio! Prega il Grande Misericordioso e vai a testa alta, cosciente di essere nel Bardo. Brucia la nostal­gia per i tuoi cari che hai lasciato, figli, figlie, parenti e amici devoti. Ora non possono più aiutarti. Entra nella luce azzurra del mondo umano, entra nella bianca luce degli Dei, entra nella gioia radiosa delle preziose dimore e nei beati giardini’.
Si ripeta così almeno sette volte[23].

La prima cerimonia funebre tibetana in Italia (Pomaia)
 Tornando infine a Jung, come si è visto nei brani citati dal suo commento ciò che per lui è importante è il primato della psiche (che viene costantemente ricordato al defunto), così come avviene nel solo “processo d’iniziazione tuttora esistente e usato praticamente nelle sfera culturale d’occidente [..], l’analisi dell’inconscio praticata dai medici[24]. In questo senso la rinascita è una “presa di coscienza del contenuto psichico non ancora nato, ancora in germe, subliminale”, e il sentiero del bardo è quello che l’europeo percorre quando si sottopone al processo analitico, però in senso inverso. Ma l’analisi freudiana si ferma alle esperienze del bardo del divenire, il primo in ordine inverso, a meno di postulare una preesistenza prenatale, il che non è possibile per la psicoanalisi in quanto “non si è giunti più in là del supporre tracce di esperienza intrauterina”.
In definitiva, Jung deve ammettere che l’uso psicologico del libro “corrisponde tutt’al più a un secondo fine, forse accettato dagli usi lamaistici. Lo scopo vero e proprio [..] è la premura, che fa di certo una strana impressione all’europeo colto del ventesimo secolo, d’illuminare il defunto che si trova nel bardo”.
In Occidente non c’è nulla di paragonabile al Bardo Thödol: qui “ad eccezione delle messe per i morti celebrate dalla Chiesa cattolica, la nostra cura dei defunti è rudimentale e ferma al gradino più basso, non perché non riusciamo a convincerci a sufficienza del fatto che l’anima è immortale, ma perché, razionalizzandolo, abbiamo distrutto il bisogno psicologico [..]. Ma la più alta prodigalità spirituale a favore dei trapassati sono le istruzioni del Bardo Thödol, tanto minuziose e tanto adatte ai presumibili cambiamenti di stato del defunto, che ogni lettore attento si domanda se in fin dei conti quei vecchi saggi lama non abbiano gettato uno sguardo nella quarta dimensione, sollevando un po’ il velo che ricopre i grandi segreti della vita”.
Del tutto ‘aperte’ sono le conclusioni di Jung: nel Bardo Thödol non si trovano – egli afferma – realtà fisiche o metafisiche, ma ‘soltanto’ dati psichici, fermo restando che “sia una cosa ‘data’ oggettivamente o soggettivamente, essa è”. Gli dei, i Buddha, le visioni del bardo, sono dati psichici, ed è questo che il defunto deve apprendere, se già non gli è stato chiaro in vita. “Il mondo degli dei e degli spiriti ‘non è che’ [le virgolette sono di Jung] l’inconscio collettivo in me. Ma per capovolgere questa frase in modo che significhi: ‘l’inconscio è il mondo degli dei e degli spiriti al di fuori di me’, non occorrono acrobazie intellettuali, ma un’intera vita umana, forse perfino molte vite di sempre maggior pienezza”.

È bene che esistano questi libri, dice Jung, e non possiamo che condividere pienamente questa sua ultima affermazione. Non solo la pratica in vita degli insegnamenti del Bardo Thödol, ma anche la sola lettura di un siffatto testo può costituire quantomeno un buon antidoto nei confronti di una delle peggiori patologie di questa fase della nostra ‘civiltà’, quella rimozione della morte che Padre Enzo Bianchi, già priore del Monastero di Bose, ha così descritto: “la morte appare rimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata [..], quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza dell’uomo”
Anche grazie agli antichi insegnamenti del Tibet, la morte potrà finalmente riprendere il suo posto nelle nostre esistenze e svolgervi il suo ruolo, divenire rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita” (Bianchi), al di là di ogni ‘appartenenza’ religiosa o filosofica.

Note

1. Alcune delle (migliori) edizioni italiane sono le seguenti:
- G. Tucci (traduzione di), Il libro tibetano dei morti, Ed. UTET – Classici delle Religioni
- F. Fremantle – Chögyam Trungpa (traduzione e commento di), Il libro tibetano dei morti, Ed. Ubaldini
- U. Leonzio (a cura di), Bardo Thödol, Ed. Einaudi
- W. Evans-Wentz (trad. di), Il libro tibetano dei morti, Ed. Harmakis
- Padmasambhava, Il libro tibetano dei morti, a cura di G. Coleman e Thupten Jinpa, Ed. Mondadori Oscar (prima edizione integrale)
Si veda anche: Lama Lodö, Insegnamenti sul bardo, Ed. Ubaldini
2. Ph. Cornu, Dizionario del buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 50
3. C.G. Jung, Commento psicologico al Bardo Thödol, in: C.G. Jung, La saggezza orientale, Ed. Boringhieri, pag. 14
4. Cfr. Gyurme Dorje, Breve storia letteraria del Libro tibetano dei morti, in: Padmasambhava, Il libro tibetano dei morti, pag. XXVII e segg.
5. C.G. Jung, Commento…, pag. 13
6. Ph. Cornu, pag. 51
7. Id. pag. 50
8. C.G. Jung, Commento…, pag. 13
9. Citazioni tratte dal Commento di Jung, pag.16 e segg.
10. U. Leonzio, Introduzione al Bardo Thödol, Ed. Einaudi, pag. XI
11. Bardo Thödol, Ed. Einaudi, pag. 10
12. G. Tucci, Introduzione a Il libro tibetano dei morti, Ed. UTET, pag. 33
13. C.G. Jung, Commento…, pag. 21
14. Id. pag. 26
15. Cfr. U. Leonzio, Introduzione, pag. XVIII
16. Id.
17. Id. pag. 22
18. C.G. Jung, Commento…, pag. 19
19. Bardo Thödol, pag. 81-82
20. U. Leonzio, Introduzione, pag. XVII
21. Bardo Thödol, pag. 85
22. Id. pag. 86
23. Id.
24. C.G. Jung, Commento…, pag. 19. Da qui, tutte le citazioni sono tratte dal Commento di Jung, pag. 19 e seguenti




Oltre alla lettura delle opere citate nel testo e nelle note, si consiglia l’ascolto delle lezioni sul Tibet, sulla sua storia e sulla sua cultura tenute per la trasmissione Uomini e profeti di RAI-Radio 3 da Giacomella Orofino, docente di Indologia e Tibetologia presso l’Università degli studi di Napoli “L'Orientale”. In particolare, l’ultima lezione è dedicata tra l’altro al Libro tibetano dei morti.

Le lezioni possono essere ascoltate o scaricate qui: RAI Radio 3 - Uomini e profeti