Il
Lalitavistarasūtra,
ovvero lo Sviluppo dei giochi, o anche Sūtra dettagliato dell'attività giocosa o Descrizione
dettagliata del gioco (tibetano rGya-cher rol-pa, cinese Puyaojing,
giapponese Fuyōkyō), “è un testo intermedio tra quelli
dell’Hināyana e quelli del Mahāyāna, a volte presentato come la biografia del
Buddha secondo i Sarvāstivādin, a volte come un Mahāyānasūtra. L’originale
sanscrito in prosa narra la vita del Buddha dalla sua ultima esistenza fino al
primo insegnamento del discorso di Benares. È composto da ventisette capitoli.
Il Lalitavistarasūtra è stato tradotto per la prima volta in cinese nel 308 e
in tibetano nell’VIII secolo, per mano dello studioso Jinamitra e dal monaco
traduttore Yeshe-dé” [1].
Quanto
al nome del sūtra, esso deriva dal
sostantivo femminile sanscrito līlā,
che indica rappresentazione o sfoggio di energie in continuo
movimento. È tradotto spesso come gioco,
ovvero l’atto spontaneo, non intenzionale, della creazione e della distruzione.
Ne è personificazione la dea Lalitā, o Mahādevi, la cui forma è l’universo
stesso. Līlā è, dal
punto di vista filosofico, la manifestazione del Principio Cosmico, il brahman, che si esprime in ogni aspetto
del mondo fenomenico [2].
Altre
preziose informazioni sul sūtra si
possono ricavare dall’Introduzione al
II volume de La rivelazione del Buddha,
edito da Mondadori:
“L’opera, in ventisette capitoli, detti
parivarta o adhyāya, di misura ineguale, si autodefinisce un mahānidhana, un
grande sūtra sull’inizio della carriera del Buddha, e un purāṇa, una storia
antica. Essa contiene passi importanti per lo studio della biografia del Buddha
storico, come ad esempio il racconto della prima meditazione di Siddhārtha
Gotama quando era ancora bambino, che ricorre anche in altre fonti sanscrite,
pali e cinesi. Nei vari racconti viene posta un’attenzione particolare sugli
aspetti che potremmo definire psicologici: i personaggi sono inquadrati in un
contesto che ne mette in risalto le caratteristiche e dà un senso particolare
alle loro scelte. Il lettore viene così interrogato in prima persona e
coinvolto nel racconto.
La stretta somiglianza con alcune scritture in
pāli e altri testi in sanscrito, come il Mahāvastu, il Divyāvadāna e il Saṅghabhedavastu
fa pensare che alcune parti del Lalitavistara possano basarsi su una fonte
comune più antica che abbia poi trovato sviluppo in testi pāli, in altre opere
sanscrite e in quest’opera appunto. È probabile che il presente testo del
Lalitavistara sia il rimaneggiamento di un testo più vecchio redatto probabilmente
nel I o II secolo d.C. Se l'ampliamento in chiave mahāyānica del Lalitavistara
rispondesse al vero, si spiegherebbe meglio anche perché in quest’opera si
possono ritrovare elementi molto antichi e più recenti, e anche perché
compaiono in essa parti diseguali di prosa e versi”
[3].
Questo
importante testo del Buddhismo antico è stato tradotto più volte, per intero o
in parte, anche in diverse lingue europee.
In
particolare, esistono due diverse traduzioni in francese: una è quella di MM.
Pautier e G. Brunet, condotta sulla versione tibetana del sūtra (rGya-cher rol-pa o
Rgya tch’er Rol pa), e che risale al
1866 [4];
l’altra è opera di P.E. de Foucaux, che tradusse l’originale sanscrito nel 1883
[5].
Per
quanto riguarda la lingua italiana, il volume sopra citato, La rivelazione del Buddha, contiene la
traduzione dal testo sanscrito del capitolo 25 del Lalitavistara, a cura di F. Sferra [6].
Non
mi risulta invece che esista a tutt’oggi una versione in italiano dell’intero sūtra [7],
per cui mi accingo, con consapevole presunzione ma con grande rispetto, a
tradurre dal francese l’edizione di P.E. de Foucaux, pubblicando il testo,
capitolo dopo capitolo (ventisette in tutto), in una apposita pagina del blog
che sarà progressivamente implementata. Il sūtra
sarà preceduto dalla traduzione dell’Introduzione
dello stesso P.E. de Foucaux e delle relative note.
Va
da sé che si tratterà di una traduzione per un uso del tutto personale, senza pretese
di scientificità, basata su una conoscenza scolastica ed approssimativa della
lingua francese e del Buddhismo stesso, con la sola speranza che gli errori (e
gli orrori) che vi si troveranno servano di stimolo per serie traduzioni italiane
da parte di persone veramente competenti.
Per
quanto concerne i nomi di persona, dei luoghi, delle opere eccetera, mi atterrò
al seguente criterio: laddove possibile, userò le trascrizioni riportate nel Dizionario del Buddhismo di Ph. Cornu,
nel Dizionario buddhista di Ch. Humphreis
o nel Dizionario dell’Induismo di M.
e J. Stutley. Negli altri casi riporterò trascrizioni da altre fonti che
verranno citate, oppure, se il nome non sarà per me riconoscibile, lascerò la
versione del testo francese. Mi servirò, laddove necessario e se possibile,
anche della traduzione francese della versione tibetana sopra citata.
Le
mie eventuali note saranno apposte al termine di ogni capitolo, precedute dalla
sigla ndt.
Saranno
naturalmente gradite tutte le critiche, i pareri e i suggerimenti e le
segnalazioni che perverranno.
Note
1 -
Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 318
2 -
Si veda M. Stutley – J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed.
Ubaldini, pag. 236-237
3 -
C. Cicuzza – F. Sferra, Introduzione ai testi tradotti, in:
R. Gnoli (a cura di), La rivelazione del Buddha – Vol. II – Il
Grande Veicolo, Ed. Mondadori – I Meridiani, pag. CXI - CXII
4 -
G. Rachet (a cura di), Lalitāvistara – Vie et doctrine du Bouddha
tibétain, Ed. Sand 1996
5 - P.E.
de Foucaux (trad. di), Lalitavistara – L’histoire traditionnelle de
la vie du Bouddha Çakyamuni, Ed. Les Deux Océans 1988
6 -
F. Sferra (trad. di), La supplica, in: R. Gnoli (a cura
di), La
rivelazione del Buddha, pag. 159 e segg.
7 -
Il volume di M. Epstein La lezione della serenità, Ed.
Vallardi, riporta a pagina 90 un passo tratto dal Lalitavistara dove si parla della morte di Mayadevī, madre di
Siddhārtha, e alla nota 3 la citazione viene attribuita al testo “Lalitavistara, UTET, Torino, 1988”. Ma
UTET non ha nel suo catalogo una traduzione del sūtra (si veda http://www.utetgrandiopere.it),
e il testo del Lalitavistara non è
compreso nei due volumi dedicati al Canone buddhista né in quello sui testi
buddhisti in sanscrito, almeno nelle edizioni in possesso di chi scrive. Non si
comprende quindi a quale versione italiana si riferisca la nota del volume di
Epstein.