Dodicesimo anello del pratitya samutpada è jara-marana, vecchiaia e morte.
Nelle tradizioni induiste il termine Jara
(“che si fa vecchio”) allude al dio Krishna,
il quale, dopo la lunga e sanguinosa guerra narrata nel poema epico Mahabharata, si ritirò nella foresta,
dove venne ucciso per errore dalla freccia di un cacciatore di cervi, il cui
nome era appunto Jara.
Jara era anche,
in quanto personificazione dell’invecchiamento, una figlia del dio Mrityu, a sua volta personificazione
della morte. Altra figura dei miti induisti relativi alla morte è il dio Yama (yam è ciò che frena, la cessazione, il limite), colui che è
preposto al giudizio di coloro che sono morti.
Se jara
indica il processo inevitabile dell’invecchiamento, marana è invece la morte, la distruzione.
Ed infatti nell’induismo Mara, altro aspetto di Mrityu (entrambi i nomi derivano dalla
radice mri, morire), era associato
alla morte per malattia, alle pestilenze, alle uccisioni.
Secondo le tradizionali biografie del Buddha, Mara si
manifesta a Siddharta prima che questi ottenga il Risveglio (divenendo appunto
un Buddha) e cerca di dissuaderlo dalla sua missione proponendogli, per mezzo
delle sue figlie, di dedicarsi alla ricerca dei beni e dei poteri materiali.
In questo ambito Mara rappresenta colui che vuole
insinuare il dubbio, colui che crea separazioni, e in tal senso è assimilabile
alla ben nota figura del diavolo (etimologicamente “colui che si mette in
mezzo”), a Satana nel ruolo di tentatore, di agente provocatore, assunto in
epoche più recenti in quanto in origine rivestiva quello di “pubblico
ministero”.
Jara - marana |
Tornando al bhavachakra,
l’anello di jara-marana è raffigurato
con l’immagine di un uomo che regge sulle spalle un cadavere avvolto in un
telo, mentre lo sta portando al carnaio, o ad un sito di cremazione.
Molto significativo è il fatto che i teli con cui si
avvolgevano i cadaveri venivano poi raccolti dai monaci buddhisti e diventavano
la “materia prima” con cui venivano confezionati i loro abiti, i kesa,
perfetto esempio di rinuncia e di comprensione dell’impermanenza e della
vacuità dell’ego.
Si legge nei Sutra:
“Condizionate
dalla nascita hanno origine la vecchiaia e la morte”.
È fondamentale capire e ricordare che jara-marana è sì il dodicesimo anello in
una serie di dodici, ma non è l’ultimo, in quanto in realtà essi non formano
visivamente un semplice cerchio, ma vanno visti in una prospettiva temporale,
come elementi di una spirale che da un tempo senza inizio si ripresenta
costantemente negli stessi punti.
La morte, quindi, non interrompe definitivamente il pratitya samutpada, ma costituisce la
fine momentanea di un dato individuo. Le sue stesse azioni, come si è visto,
determineranno la formazione di una nuova esistenza, che non è la stessa della
precedente ma non è del tutto differente.
Ogni morte, come ogni nascita, non è la prima né
l’ultima, e questo avviene fino a quando l’uomo resta attaccato all’esistenza,
a causa dell’ignoranza, della brama e dell’attaccamento.
Se grazie alla pratica del Dharma, all’applicazione
dei fattori dell’Ottuplice Sentiero (la quarta Nobile Verità), la catena viene
spezzata, allora, come si legge nei Sutra,
“il
passato è distrutto, non vi sarà una nuova rinascita: i saggi che hanno la
mente distaccata da una futura esistenza, che hanno distrutto il seme della
rinascita, che hanno cessato di coltivare il desiderio, si estinguono a
somiglianza di questa lampada”.
Ciò avviene quando si impara a “vedere le cose così come sono”
(yatha bhuta), ovvero impermanenti,
soggette al mutamento, all’invecchiamento e alla morte. E fonte di sofferenza,
se tale realtà non viene pienamente, profondamente accettata.
In genere, parlare di nascita e morte equivale a
parlare di inizio e fine definitiva. Per un buddhista significa invece vedere
come nascita, invecchiamento e morte siano sempre presenti in noi, vedere come
esse vadano di pari passo nel complesso psico-fisico che chiamiamo “io”. Ciò
avviene infatti nel corpo e nella mente; l’impermanenza dei processi mentali è
evidente a chi porti anche solo per qualche istante l’attenzione su di sé,
sensazioni, percezioni, pensieri, nascono, muoiono, rinascono, istante dopo
istante. E lo stesso processo si verifica nel corpo, in ogni sua parte, ad
esempio nelle cellule che si generano e muoiono continuamente. La morte intesa
come termine finale dell’esistenza di un dato individuo è in realtà un
processo, che si svolge con modalità diverse: i due flussi, fisico e mentale,
durante la vita scorrono di pari passo, alla fine il flusso corporale si
dissolve nei suoi elementi di base (terra, acqua, aria, fuoco), che tornano
all’origine, il mentale fluisce secondo il karma
accumulato e nell’ultimo istante di coscienza di un certo individuo dà origine
ad una nuova esistenza.
Nonostante i secoli, i millenni di evoluzione umana,
nonostante i progressi di ogni tipo, culturali, tecnologici, anche spirituali,
la veridicità dell’affermazione del Buddha secondo cui “la vecchiaia è sofferenza, la morte
è sofferenza” (nella prima Nobile Verità) non è stata minimamente
scalfita. Ed è a tal punto vera che anche lo stesso pensiero della morte è
fonte di sofferenza, in quanto l’uomo “ordinario” non accetta, se non a livello
puramente razionale, e quindi superficiale, che alla nascita segua
necessariamente la morte.
Anzi, le società del mondo industrializzato hanno
ulteriormente accentuato la tendenza degli individui e dei gruppi umani al
rifiuto del pensiero della morte, contribuendo così ad aggiungere altra
sofferenza alla sofferenza stessa. È il fenomeno che gli studiosi chiamano
“rimozione della morte”.
La rimozione della morte
12 marzo 1763: una data chiave nella storia della
società occidentale moderna. Il Parlamento di Parigi emana un decreto che
prevede la chiusura dei cimiteri all’interno della città e la loro apertura
fuori di essa, nei dintorni.
Al di là del fatto che il decreto non sia stato
applicato se non dopo diversi anni (Editto di St. Cloud del 1804. Si ricordi
Foscolo: “Pur nuova legge impone oggi i
sepolcri / fuor de' guardi pietosi…”), e al di là delle motivazioni
“oggettive” (igienico-sanitarie, economiche…) che lo hanno ispirato, resta il
fatto che l’ordinanza del Parlamento esplicita concretamente il profondo
mutamento intervenuto nelle modalità con cui l’uomo europeo del XVIII sec.
pensa e vive la morte, in tutti i suoi aspetti.
Si è trattato di un processo lento, iniziato nei
decenni precedenti, parallelo a fenomeni epocali interdipendenti quali la
formazione delle classi borghesi, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la
laicizzazione della società ecc.; fenomeni strutturali e culturali che non
hanno coinvolto omogeneamente e contemporaneamente tutti gli strati sociali, in
Francia come altrove. Ma è stato comunque un processo irreversibile, in cui
l’espulsione dei cimiteri dall’interno delle città illustra visivamente, come
un quadro o una fotografia, un aspetto centrale della società occidentale
post-industriale: il fenomeno della rimozione
della morte.
Nel corso del XIX e del XX sec., scrive lo storico Philippe Ariès, “una maniera del tutto nuova di
morire è comparsa (..) in alcune fra le regioni più industrializzate, più
urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale”: “la società ha espulso la morte”. E’
un fenomeno che si manifesta a tutti i livelli: il rapporto del moribondo con
la propria morte e con chi gli sta intorno, l’ospedalizzazione della morte, il
trattamento del corpo, le modalità del lutto e della sua elaborazione, la
ritualità e i funerali, i cimiteri, il linguaggio relativo alla morte e al
morto, ecc.
E’ certamente una descrizione riduttiva e
semplicistica di un fenomeno complesso, disomogeneo, che è profondamente
studiato nei suoi aspetti da storici, filosofi, psicologi. Esiste infatti un
ramo specialistico del sapere chiamato tanatologia,
il che sembra quasi contraddire quanto detto finora. Ma la auto-anestesia della
società moderna nei confronti della morte è comunque un dato di fatto, ben
sintetizzato da Enzo Bianchi, Priore
della Comunità monastica di Bose, il quale scrive che “la morte appare rimossa e, al
contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei
vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata (..),
quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una
società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto
quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza
dell’uomo”. La morte, in effetti, costituisce lo scacco di ciò che sta
al centro della nostra società: la produzione e il consumo di merci.
Consapevolezza della morte e feticismo delle merci sono elementi tra loro
contraddittori ed inconciliabili.
In tal modo, l’individuo e la società, credendo di
rimuovere una fonte di sofferenza, si privano proprio di ciò che può “divenire
rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita” (E. Bianchi). L’uomo,
anestetizzandosi dal pensiero della morte, si rivolge alla causa della malattia
scambiandola per la terapia. E crea nuova sofferenza a partire dalla
sofferenza.
Enzo Bianchi ci ricorda infine che fu proprio la
visione di un morto (dopo un vecchio e un malato) a segnare l’iniziazione alla
via della liberazione dalla sofferenza per Siddhartha, il futuro Buddha, che da
quel momento si allontanò dal Palazzo nel quale le cure paterne lo volevano
preservare dalla visione dei mali del mondo.
Anche da questo punto di vista, affatto secondario,
gli insegnamenti del Buddha vanno decisamente contro-corrente rispetto alle
tendenze di fondo della società. A meno che non siano i valori oggi dominanti
ad andare in direzione contraria rispetto ai reali bisogni dell’uomo….
Immagini della morte nelle
tradizioni buddhiste
Il tema della morte si
connette indissolubilmente ai grandi temi del buddhismo: l’impermanenza, il karma,
la non-sostanzialità del sé, l’interdipendenza, la sofferenza. Ma non come
modalità teorica, bensì come vera e propria pratica (lo si ricordi, il buddhismo
non è una filosofia, ma una prassi). Al punto che il Buddha stesso disse che
come tra le impronte degli animali quella dell’elefante è la più grande, così
tra le meditazioni quella sulla morte è la suprema.
Per iniziare a comprendere
l’insegnamento del Buddha sulla morte, ci si può affidare non solo ai Sutra
nei quali esso è esposto, quanto invece ai racconti di due donne, due monache
vissute all’epoca del Buddha. Le loro vicende sono narrate nel Therigatha (Le Strofe delle
Anziane), un antico testo che fa parte del Canone Buddhista, nel quale le
monache narrano le loro vicende umane.
La prima è Kisagotami, donna di nobili origini,
alla quale morì l’unico figlio, ancora bambino. Impazzita dal dolore, correva
di porta in porta con il cadavere del piccolo sul fianco, chiedendo per lui una
medicina. Tutti la respingevano con disprezzo, ma uno, più saggio, la indirizzò
dal Buddha. Ella vi si recò, e gli chiese un rimedio per il figlio. Il Buddha,
“scorgendo la promessa che in lei era
racchiusa”, le disse: “Vai,
entra in città, e riporta un piccolo seme di mostarda da ogni casa nella quale
non sia morto nessuno”. Così ella fece, inutilmente, in quanto in
nessuna casa non era mai morto nessuno. Alla fine, la sua pazzia si placò, e
pensò: “Evidentemente questo è
l’ordine naturale delle cose in tutta la città. Il Beato previde questo, preso
da pietà, per il mio bene”. Portò quindi il corpo del figlio nel
cimitero, dicendo: “Non è questa
legge di villaggio e neppure di città, né è la legge di una sola stirpe, ma in
tutto il mondo ed anche per gli dei nel cielo questa è la legge: tutto è
impermanente!”. Infine, tornò dal Buddha, ed entrò nell’ordine
monastico.
Ugualmente significativo è
il racconto di Patacara, figlia di
un tesoriere, la quale abbandonò la casa paterna dopo essere divenuta l’amante
di uno dei servitori. Mentre ella stava partorendo il loro secondo figlio, il
marito entrò nella foresta per tagliare delle frasche per farle un riparo, ma
venne ucciso da un serpente velenoso. Patacara prese con sé i figli per tornare
dai genitori, ma durante il viaggio il piccolo le fu rapito da un falco, e
l’altro morì annegato in un fiume in piena. Sconvolta dal dolore, mentre
entrava nella città natia venne a sapere che la casa paterna era crollata,
seppellendo padre, madre e fratello. Impazzita per il dolore, iniziò a girare
in tondo, con le vesti che le cadevano a terra (Pata-acara = che va
in giro trascinando la veste), mentre la gente le tirava immondizia e zolle
di terra, in segno di disprezzo. La vide però il Buddha, il quale le si
avvicinò, “contemplò la maturazione
della di lei conoscenza” e le disse: “Sorella, riacquista la consapevolezza”. Dopo aver ascoltato
il suo racconto, la rese consapevole con queste parole: “Patacara, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti di
aiuto. Proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e
per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime
per la morte di bimbi ed altro, più abbondanti che le acque contenute nei
quattro oceani.
Sono meno le acque dei quattro
oceani
che la vasta distesa di acque, in
lacrime versate,
dal cuore dell’uomo che si lamenta
toccato dal dolore.
Per chi sprechi la tua vita,
crogiolandoti in acerbi lamenti?”
E ancora:
“Non
sono di riparo i figli, né il padre né alcun altro parente:
afferrata che tu sia dalla morte il
vincolo del sangue non ti è di rifugio.
Questa verità discernendo il saggio,
ben fondato sulla retta condotta,
rapidamente scopre la via conducente
al Nirvana”.
Quindi, anche Patacara, il
cui dolore era ormai più leggero da sopportare, entrò nell’ordine monastico. Un
giorno, mentre si lavava i piedi, gettò via un poco di acqua, e la osservò
mentre si spargeva per un breve tratto, prima di essere riassorbita nel
terreno. Ne versò dell’altra, che arrivò più lontano. La terza volta, l’acqua
andò ancora più in là. Osservando questo, Patacara sviluppò un pensiero: “Così
pure i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia”.
Il Buddha assistette da lontano alla presa di consapevolezza della monaca, e
disse:
“L’uomo
che, vivendo un centinaio d’anni,
non contempla mai come sorgano e
scompaiano le cose,
sarebbe stato meglio per lui vivere
solo un giorno,
ed in quel giorno scorgere il flusso
degli eventi”.
Per Patacara come per
Kisagotami, si passa dalla disperazione ad un primo grado di liberazione: la
realizzazione dell’universalità della morte e del suo carattere di assoluta
naturalità. La loro è “una radicale
accettazione della morte”, come dice Corrado Pensa. Ma il salto compiuto dalle due donne non è per nulla casuale o automatico. In entrambi i casi, si noti, il testo afferma chiaramente che il Buddha aveva visto in loro una promessa (Kisagotami) o una maturazione (Patacara). Quel salto di consapevolezza, di liberazione, può solo essere il frutto di una pratica spirituale. E nel buddhismo (e non solo in esso, va ribadito) “dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale” (C. Pensa).
Un esempio di cosa significhi “pratica sulla morte” ci viene dalla meditazione sulla morte esposta nel “Lam-rim”, “Il Sentiero Graduale”, un sistema di pratica centrale nella tradizione tibetana della scuola Gelugpa, nella quale fu introdotto dal Lama Tsongkhapa nel XIV sec. In effetti, le scuole del buddhismo tibetano sono ricchissime di testi e insegnamenti sulla morte e sul morire, ed hanno sviluppato un approccio “pratico” al problema difficilmente riscontrabile nelle altre tradizioni spirituali, buddhiste e non.
La meditazione esposta nella prima parte del Lam-rim è detta “Tre radici, nove ragioni, tre determinazioni”, e si sviluppa secondo il seguente schema:
Prima radice
1 - l'inevitabilità della morte
Tre ragioni
1a - a suo tempo la morte arriva per tutti gli esseri umani
1b - giorno dopo giorno la vita diminuisce e non c'è alcuna speranza di poterla allungare
1b - giorno dopo giorno la vita diminuisce e non c'è alcuna speranza di poterla allungare
1c - anche se siamo vivi troviamo pochissimo tempo per praticare il dharma
Prima determinazione
1 - determinazione di praticare il Dharma
Seconda radice
2 - l'incertezza del momento della morte
Tre ragioni
2a - su questo pianeta la vita umana non ha una durata fissa
2b - la vita ha molte forze che le si oppongono e poche che le sono favorevoli
2c - il corpo umano è estremamente fragile
Seconda determinazione
2 - determinazione di praticare il Dharma immediatamente
Terza radice
3 - al momento della morte solo le proprie realizzazioni spirituali hanno valore
Tre ragioni
3a - ricchezze, proprietà, fama o potere sociale non sono di nessun valore
3b - la famiglia, gli amici e i parenti non ci sono di nessun aiuto
3c - perfino il vostro corpo non avrà più alcun valore
Terza determinazione
3 - determinazione di praticare il Dharma in modo puro, non mischiato a tendenze materialistiche.
Il meditante, seduto
correttamente, osserva le tre radici, con le corrispondenti ragioni e
determinazioni, quindi, secondo i tempi e le modalità insegnategli, medita
formalmente su ogni singola ragione, giorno dopo giorno, concludendo ogni
sessione su tutti i punti, per arrivare dopo un certo periodo a lavorare
sull’intera meditazione. Ed ogni volta, alla fine della seduta, recita una
preghiera, ad esempio: “grazie al
potere di questa pratica possa io raggiungere rapidamente la perfetta buddhità
e possa così ogni essere senziente realizzare l’eterna felicità della saggezza”,
dove, come si vede, la pratica è sempre finalizzata al beneficio di tutti gli
esseri, mai solo al proprio vantaggio.
Bodhidharma |
Ancora un breve cenno sul tema della morte, nella tradizione Zen questa volta, con la storia di Bodhidharma, il monaco che nel VI sec.
d.C. portò dall’India alla Cina la pratica del dhyana, divenendo il
primo Patriarca Ch’an (in giapponese Zen). Il padre di
Bodhidharma, sovrano di un piccolo regno dell’India del Sud, si ammalò e morì
dopo una lunga agonia, che segnò profondamente il figlio. Il giovane, dopo le
esequie, si sedette accanto alla tomba, e vi restò immobile in profonda
meditazione per sette giorni. Alla fine di questo ritiro, due suoi fratelli gli
domandarono perché avesse fatto questo e si sentirono rispondere: “Ho
voluto vedere dove era andato mio padre, ma non ho visto altro che il sole che
brilla sulla terra e nel cielo”.
Diceva il maestro Taisen
Deshimaru (1914-1982):
“anche se li amiamo,
i fiori appassiscono
e muoiono;
e le
erbacce, anche se le detestiamo,
spuntano e
vivono…
Durante la
vita non dovete cadere nell’adorazione del paradiso.
Dopo la
morte, non dovete avere paura dell’inferno.”
Nessun commento:
Posta un commento